LE TRACCE SUL VETRO di Cristina Cortelletti

Le tracce sul vetro

di Cristina Cortelletti

tratto da Voci Nuove 6

a cura di Daniele Falcioni

ed. Rapsodia

 

Non è mai piovuto così tanto a settembre, pensò Vincent fissando, dalla finestra della cucina, la fermata dell’autobus sul lato opposto della strada. Tutti i giorni, da sempre, alle 19:00 passava l’ultima corsa. “Accidenti, proprio oggi!” esclamò. La pioggia peggiorava il suo già altalenante umore, non doveva perdere di vista l’obiettivo, stavolta ce l’avrebbe fatta e Martin non sarebbe arrivato in tempo. Il sottofondo musicale trasmesso dalla emittente radiofonica, sulla quale si era sintonizzato dallamattina, gli teneva compagnia mentre osservava l’umida foschia pomeridiana che offuscava il paesaggio e intensificava il dolore alla sua stramaledetta gamba. Sobbalzò quando suonarono alla porta. Deve essere Jennifer con la terapia, pensò. Diede un’occhiata all’orologio: le 18:25. Era ancora presto per le medicine. Non andò ad aprire, tutto sarebbe andato secondo i piani. La sua attenzione fu richiamata dal ticchettio della pioggia che, frustando i vetri da ore, lo stava irritando.

Non si sorprese quando, appoggiando il dito sulla superficie del vetro, iniziò a seguire le tracce irregolari delle gocce che scendevano, una cosa che faceva quando era piccolo e gli sembrava di essere un esploratore a caccia di un codice cifrato. Con il dito tracciava linee virtuali che univano gocce, rivoli e chiazze, fino al palesarsi di una visione che siglava con l’iniziale del suo nome.

Ritornò improvvisamente in sé al rumore sordo dei colpi alla porta, in simultanea con la voce che gridava: “Martin! Martin! Apri la porta!”

“Andate via, andate via!” urlò. “Oggi no… voglio stare solo!” disse Vincent.
Il chiarore che entrava dalla finestra illuminava fiocamente il termosifone sulla parete di fronte. Vincent guardò distrattamente i calzettoni stesi lì sopra ad asciugare, gettati malamente, spaiati e stropicciati; non ricordava neanche di averceli messi, rispecchiavano perfettamente la sua vita disordinata e caotica.
Fremeva, ancora un po’ di pazienza e tutto sarebbe passato.

Per tutta la mattina Martin era stato alle prese con il televisore e poi con la sostituzione della lampadina del lume, poi con la preparazione del pranzo e infine con le scartoffie da riordinare. Martin era il suo punto di riferimento: negli ultimi tempi avevano condiviso ogni accadimento delle loro vite. Vincent, in poche parole, dipendeva da lui.

Condividevano da due anni quella che era stata la casa dei loro avi, una piccola dimora a mattoncini rossi con le finestre bianchesituata in una zona isolata nella periferia del paese, tipica della contea di West Midlands. “Rifugio e capanna, riferimento e radice”. Così diceva Martin, e in quanto tale andava difesa. Martin era conosciuto da tutti nel quartiere, lo chiamavano “l’insegnante degli ultimi”, ovverogli abitanti del quartiere più isolato e meno abitato di Rednal.

Vincent era arrivato all’improvviso, disperato e vulnerabile, e Martin dal principio aveva cercato di gestire le sue manie e gli sbalzi di umore con i farmaci. Ma nessuna terapia era riuscita nell’arduo compito di sollevarlo dai momenti di follia. Decise così di vivere in simbiosi con lui, senza più separarsene. Vincent adorava quella casa e soprattutto Martin, ammirava la sua tenacia, la forza, l’ottimismo e la gioia con la quale affrontava la quotidianità. Soprattutto, adorava la sua disponibilità incondizionata e senza pretese per chiunque. Avrebbe voluto essere lui, Martin. Una volta lo era stato, in effetti: prima di diventare un povero storpio e scemo.

Nella testa i rumori si mescolavano, rimbombavano, si espandevano a comprimere il cervello, fino a che Vincent si augurava che esplodessero le membrane per farli uscire da ogni possibile orifizio.
Il rumore metallico della chiave nella toppa lo distolse dall’ansia che lo attanagliava. Nel voltarsi riconobbe il familiare riflesso che balenò sul vetro della finestra, sorrise. Mordendosi il labbro inferiore cercò un nascondiglio, proprio come quelli nei quali si rifugiano i bambini quando giocano o quando sono impauriti, o come quelli sempre più reconditi che, da tempo, anche le sue emozioni scovavano e ne facevano una tana.In quei nascondigli si abbandonava e aspettava che Martin lo trovasse e si prendesse cura di lui. Ma non oggi.

Improvvisamente la porta sbatté. “Maledizione, troppo presto” sussurrò. “Sei già tornato?” chiese Vincent. Ma non ebbe risposta. Erano le 18:35. Per andare verso l’ingresso dalla cucina bisognava attraversare un lungo e stretto corridoio semibuio. Non c’erano fonti di luce artificiale, e inoltre il corridoio era reso ancora più angusto da due grandi poster speculari appesi alle pareti. Le riempivano per tutta la loro lunghezza, interrotti solamente dalle due porte delle camere da letto, rivestite di carta da parati. Martin le teneva sempre chiuse per suscitare il forte impatto visivo creato dalle stampe in stile neoplastico. Le geometrie in bianco e nero riempivano il vano, infinite forme si susseguivano ad oltranza originandone altre man mano che lo si attraversava: pareva di essere in un caleidoscopio, all’interno del quale Vincent tentennò un attimo prima di avventurarsi. Nonostante condividesse questa stranezza di Martin, infatti, ogni volta che lo attraversava veniva sopraffatto dall’inquietudine. Un effetto allucinante, che lo destabilizzava e confondeva.Aveva smesso di porsi interrogativi sui gusti di Martin da quando si era convinto che, più che uno stile d’arredo, quei decori fossero una strategia a scopo terapeutico.

Devo evitare di fissare le pareti per non restare ipnotizzato, pensò, poi si concentrò sulla lampada di stoffa nera, unica fonte luminosa alla fine del lungo corridoio, e si incamminò. Lo strusciamento pesante e prolungato della ciabatta sul pavimento echeggiava in tutta la casa. Costretto alla lentezza dalla gamba offesa, imprecò. “Martin!” chiamò, e l’eco della sua voce risuonò. Continuò a camminare, ma il corridoio era più lungo del solito, le stampe nere prevalevano sulle bianche e si allargavano, si deformavano fino ad intrecciarsi sul soffitto, che ricadeva all’ingiù come fosse molle, formando lunghe stalattiti che lo lambivano ed erano pronte a trafiggerlo.

Il silenzio si era fatto fitto e un tremore dolente gli attraversò lo stomaco. “Martin… Martin!?”
Erano passati pochi ma interminabili minuti. Sentì una forte fitta alla gamba, che subito dopo cedette e lo fece cadere. Temendo di essere inghiottito dal famelico tunnel, chiuse gli occhi e, disorientato proseguì a carponi per pochi metri. Urtò qualcosa, spalancò gli occhi e la fioca luce della lampada gli rivelò la sagoma di un uomo a terra riverso e immobile, tutto sporco di una melma nera, in una posizione inverosimilmente innaturale.

“Martin… Martin” balbettò senza toccarlo. Non vedeva bene, maledizione, c’era pochissima luce. Poi sentì l’odore, rabbrividì e fu catapultato nel passato.Davanti agli occhi ricominciarono a scorrere i flash remoti, sempre gli stessi, ricordò Eva, bellissima, sorridente e felice, e anche quella condivisione dell’amaro delle sconfitte e della gioia nel raggiungere piccoli traguardi che li aveva uniti in una perfetta sintonia.

Rivide quando si trasferirono lì, a Rednal, in quella stessa casa in cui si trovava ora, la spensieratezza preziosa e impagabile di quel periodo che, lo avrebbe scoperto poco dopo, sarebbe stato l’inizio della fine. Le sorprese che la vita riserva sono sempre in agguato. Avrebbe appurato con rabbia che alcuni, purtroppo, non hanno accesso al lieto fine. Ricordò la cruenta esplosione in cui Eva perse la vita. In quella stessa occasione lui perse la ragione di vita. Il cielo divenne di un malinconico sapore cupo, e una profonda tristezza lo condusse in un viaggio psichedelico senza ritorno.

Il dolore lo attanagliava ogni volta che i ricordi riaffioravano. Se le ferite del corpo si erano cicatrizzate, a dominare la sua vita, pesanti come un fardello straziante, erano rimasti il buio, le paure e l’odore dei loro due corpi dilaniati.

Era una persona inutile. Sperava, Dio solo sa quanto, di svegliarsi un mattino di settembre con un cielo azzurro, completamente diverso e finalmente libero da se stesso.
Eccoci nuovamente, bella gente, il prossimo brano sarà… la voce dello speaker radiofonico lo riportò al presente. Spaventato e fragile, si asciugò le lacrime che gli appannavano la vista, strofinando l’avambraccio sul viso. Si fece coraggio, infilò un braccio sotto le spalle dell’uomo e, con una delicata manovra, lo rigirò per metterlo in posizione supina. Gli sollevò la testa, e in quel momento un brivido gelido gli bloccò il fiato: il fango chiazzava il volto dell’uomo e, sebbene i lineamenti non fossero bendefiniti, la fisionomia era famigliare. Si alzò e indietreggiando urtò la consolle, facendo così cadere a terra l’unica lampada, che rotolò e si fermò sulla gamba scomposta del corpo senza vita.Il buio improvviso lo immobilizzò, e le narici furono nuovamente sature di quell’odore. Cercò disperatamente l’interruttore tastando le pareti, senza trovarlo. “Aiuto! Aiuto!” provò a gridare, ma la voce spezzata non emise suoni. Il respiro si fece affannato, sentì i rivoli di sudore scendere lungo la schiena e iniziò a dondolarsi avanti e indietro, strofinando freneticamente le mani umidicce sulle cosce. Che diamine sta succedendo? Che ci fai qui? pensò senza capacitarsi di quello che stava succedendo.

Il buio spense anche l’ultimo barlume di ragione che gli era rimasta. Improvvisamente, eccola: la voce di Eva risuonò frastornante nella sua testa. Era diventato sempre più difficile scacciarla, e ogni volta gridava più forte, non riusciva più a sopportarla. Si strinse la testa fra le mani, chiuse gli occhi e si mise a battere forte il piede illeso a terra per sovrastare, con il rumore, quella voce che non perdonava la sua fragilità.

Quando aveva iniziato a sentirla, le parole erano state confortanti, lo aiutavano a sostenere il peso gravoso di essere sopravvissuto; non avrebbe mai voluto smettere di sentirle, ma il silenzio della solitudine lo aveva schiacciato, il delirio e il caos si erano impossessati di lui e le parole erano diventate di biasimo e offesa. In questa casa periferica, situata ai margini della vita, aveva riposto infine il suo dolore. Era un codardo, lo sapeva, e per questo si rifugiava in Martin.

Finalmente la voce fu smorzata dalla musica della radio. Vincent aprì gli occhi, si fece coraggio e guardò nuovamente l’uomo che, stranamente, ora pareva evanescente. Quando si accorse che era il ritratto del proprio corpo disarticolato, una lacrima gli scivolò sul ciondolo a forma di M che aveva al collo. Quella fu la conferma che era giunto il momento di sconfiggere i fantasmi della sua vita una volta per tutte.

Alternò lo sguardo tra la porta d’ingresso e il corridoio; avrebbe voluto oltrepassare quella porta aperta sul mondo tante e tante volte, ma era stato meno doloroso restare dentro, esule nel suo stesso rifugio. Non gli restava che ripercorrere per l’ultima volta il corridoio, che appariva ora più che mai soffocante e cieco. Il corridoio: l’inesorabile condotto che quotidianamente collegava il passato al presente.S’incamminò, sperando che stavolta le mille sfaccettature nere che lo riempivano si combinassero in modo ordinato nella sua mente di uomo alla deriva.

“Santo cielo, Martin, rispondi! Dove sei?” urlò Jennifer. Erano le 19:00 ed era in ritardo per la medicina. “Eccomi, arrivo. Non preoccuparti, sono qui” rispose. L’autobus era passato, si allontanò dalla finestra. L’acqua aveva lavato le tracce della sua vita confusa, Martin era tornato appena in tempo.

Con la mano cancellò dal vetro, forse per sempre, il riflesso di Vincent lo storpio.

foto di Pexels da Pixabay




“Aspetto Godot, papà” di Meri Borriello

Aspetto Godot, papà

di Meri Borriello

a cura di Daniele Falcioni

tratto da antologia Voci Nuove

ed. Rapsodia

Marlene spingeva la carrozzina di suo padre faticosamente sotto il sole rovente di luglio. Non aveva mai odiato tanto l’estate come quell’anno. Si stavano allontanando velocemente dall’ospedale.
“Qui è pieno di gente che gioca a fare dio, non li sopporto, spingi più in fretta questo affare. Andiamo via da questo inferno” disse stancamente lui.

“Certo, papà” rispose lei in tono obbediente; poi, per alleggerire la tensione, continuò: “Almeno non hai dovuto far fuori noi della famiglia per averne una; te lo ricordi quel film… come si chiamava? El cochecito, mi sembra. Te ne regalo una motorizzata, promesso, papà”.
“Bel film. Ma non ho voglia di scherzare adesso. Portami via da qui, torniamo a casa, ci vediamo un altro film. Sei mesi? Vorrei sapere dove hanno letto la mia data di scadenza. Resisto solo per contraddirli, questi quattro sapientoni imbalsamati”.

Marlene rimase in silenzio per qualche istante, poi dolcemente disse: “Papà, pensa a quelle medicine che ti hanno proposto di prendere”. Sperava che il padre acconsentisse a provare le cure sperimentali.
“Non ho voglia di parlarne. Quella roba ti toglie la dignità. Non ho nessuna intenzione di prenderla”.

Il padre aveva alzato la voce e cominciato a gesticolare nervosamente; alcuni passanti incuriositi li guardavano. Lei sperò che quello sfogo avesse fine presto. Il suo desiderio fu esaudito: suo padre si interruppe.
A un tratto, però, disse: “Ho la bocca che va a fuoco, prendiamo un gelato al limone. Però facciamo in fretta, voglio tornare da tua madre, portiamo del gelato anche a lei. E una rosa. Ecco, là, guarda quella, è perfetta; fammi il favore: arrampicati e prendila”.

Suo padre sorrideva contento. Lei provò a dissuaderlo: “Papà, è un giardino privato. Non si potrebbe…”
Lui la interruppe stizzito: “Fai come ti ho detto, i fiori sono di tutti! Che diamine, quasi non sembri mia figlia! Tutto questo perbenismo chi te l’ha insegnato? Prendi la rosa e andiamocene. Al diavolo anche il gelato”. Sbuffò alzando gli occhi al cielo.

Lei si sentì mortificata, ma cercò di non darglielo a vedere. Si fermò e scavalcò il muretto; sperò che nessuno la vedesse, non avrebbe avuto la pazienza per giustificarsi. Staccò la rosa gialla che le aveva indicato il padre, poi tornò da lui più velocemente che poteva.
“Ce l’hai fatta, brava”. Lei gli baciò la guancia ruvida, poi poggiò la rosa sulle sue ginocchia. La misero in una bottiglietta con un po’ d’acqua, poi lei lo aiutò a salire in macchina e partirono per far ritorno a casa.

Fecero il viaggio di ritorno in silenzio. Quando suo padre chiuse gli occhi per riposare un po’, lei cercò di perdersi nel suo mondo, tentava di aggrapparsi alle sue fantasie, ma questa volta proprio non ci riusciva. Provò a sentire un po’ di musica, ma tutto le dava la nausea: la voce del dj, i brani tutti identici che passavano senza sosta su ogni stazione, tutte quelle stupide pubblicità. Le dava fastidio persino intravedere le famiglie nelle altre auto. Molti tornavano dal mare: abbronzati, affamati. Li immaginava con i capelli ancora umidi, il sale addosso, felici per la bella mattinata trascorsa. Com’era accaduto del resto anche a lei tante volte. Le sembrava una vita fa. Non era mica colpa loro se lei ora stava di merda!

Suo padre si risvegliò quando spense il motore. Erano a casa. Sua madre li aspettava. Non appena lo vide, stanco ma sorridente mentre le porgeva la rosa, lo abbracciò.

Suo padre fece un cenno a Marlene, che si avvicinò: “Lasciaci un po’ soli. Ti aspetto nel mio studio tra un paio d’ore. Devo farti vedere una cosa”.
“D’accordo papà, io vado a riposare un po’. Ci vediamo più tardi”.
Era stanca, non vedeva l’ora di buttarsi sul letto.

Tornò da suo padre che era pomeriggio inoltrato, la canicola era scemata e lei riusciva a respirare e a pensare più lucidamente. Lo trovò nel suo studio, con una scatola tra le mani.
“Ce ne hai messo di tempo! Bene, ora sei qui, veniamo al punto” disse, e le tese la scatola di legno. Marlene la prese: era liscia, di un marrone chiaro, la avvicinò al suo viso. “Ha un buon odore, papà. Dove devo metterla?”

“Da nessuna parte. Devi intagliarla”.
Lei lo guardò perplessa, lui continuò: “Lo so che non sei brava in queste cose, però bisogna che tu lo faccia per me. Voglio lasciarla a te e alle tue sorelle, e voglio che la intagli esattamente come dico io. Ci sono degli scalpelli e un coltellino nella mia cassetta degli attrezzi, prendili e comincia a lavorare”.
Marlene provò a replicare, ma poi le parole le morirono in gola e fece come le aveva chiesto il padre.
“Che cosa devo incidere, papà?”
“Tanto per cominciare, il simbolo dell’infinito. Non è difficile. E poi le nostre iniziali”.
Marlene disegnò numerose volte la base per poter iniziare ad intagliare. Alla fine fu soddisfatta, prese il coltellino e cominciò ad affondarlo nel legno.
Passò almeno un’oretta, stava sudando. Si fermò un attimo. Le facevano male le mani, i pezzetti di legno erano sparsi dappertutto. Non aveva voglia di continuare ad intagliare un bel niente, voleva solo rimanere in silenzio e godersi suo padre. Non si accorse di fissarlo fino a quando lui non le disse: “Non guardarmi, continua ad intagliare, devi imparare a distaccarti da tutto. Continua ad intagliare con pazienza e decisione. Non sei mai stata paziente, ma devi imparare ad esserlo”. “Non voglio imparare, papà” rispose lei con la voce che le tremava.
“Devi. Verrà fuori un lavoro bellissimo, ne sono sicuro”. Poi, sorridendo riprese: “Socchiudo un po’ gli occhi. Mentre intagli, ripetimi quel monologo che devi portare a teatro. Non me ne sono dimenticato”.
Lei sorrise e disse: “Ho un pezzo comico fortissimo, papà”, ma il padre la interruppe bruscamente: “Voglio che mi reciti l’altro monologo. Smettila di fare il pagliaccio”.
Marlene prese fiato, poi lentamente cominciò a snocciolare le parole del monologo: “Nascere fu la sua morte. Le parole sono poche, morenti per di più. Pronto per il coperchio avvenire. Dalla culla al lettino in poi. Per tutto il tempo. Rimbalzato andata e ritorno…”(2)
Suo padre la interruppe: “Va bene, va bene. Però lo carichi troppo, lascia andare le parole, hanno già il loro peso, non serve che le carichi. Altrimenti diventi patetica. Beckett è assenza, non piagnisteo. Continua”.
Marlene, stringendo con forza il coltellino tra le mani sudate, continuò: “Di funerale in funerale. Tremila notti. Nato di notte. Stanza sempre più buia. Anni di notte. Niente che si muova da nessuna parte. Solo e andato”.
Il padre la interruppe di nuovo: “Molto meglio di prima, la voce però deve essere piena, non di testa, non sei un’isterica, mantieni la voce bassa”.
Marlene riprese cercando di modulare la voce meglio che poteva: “Solo e andato. Mi dico che la terra si è spenta, benché io non l’abbia mai vista accesa. È facile andare. Quando cadrò, piangerò di gioia”.

(2) Qui, come in seguito, si tratta ovviamente di Samuel Beckett, Un pezzo di monologo (n.d.c.).

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Guardò suo padre, che aveva chiuso di nuovo gli occhi, lo chiamò in sussurro: “Papà?”
Lui socchiuse gli occhi, poi le disse: “Ora è quasi perfetto. Ricorda di tenere sotto controllo la voce. Ripetimelo ancora”.
Marlene intagliava e recitava. Si costrinse a continuare ancora e ancora, anche se le veniva da vomitare.
Finì di incidere la scatola che era quasi l’una di notte; suo padre era andato a dormire, ma lei aveva continuato il suo lavoro imprecando e a tratti calmandosi, ma era riuscita a portare a termine quello che il padre le aveva chiesto; questo solo contava.
La scatola rimase nello studio per mesi, poi una mattina di marzo il padre le chiese di prenderla. Marlene entrò nella camera dei suoi genitori, c’erano anche le sorelle; sentiva un vuoto terribile, tremava mentre passava la scatola alle sorelle. Non riusciva a cogliere nessuna parola, le sembrava di essere immersa in un mondo irreale. Guardava fuori dalla finestra, il suo sguardo si perdeva oltre i grigi palazzi, oltre quel cielo così azzurro.
“Che fai? Perché fissi il vuoto?” le chiese il padre. Lei continuò a guardare oltre la finestra, poi dopo un po’ rispose: “Aspetto Godot, papà”.
“Tanto lo sai già che non arriverà” le disse il padre in un soffio di voce. Lei si avvicinò al letto, gli strinse la mano e gli accarezzò la fronte sudata. Anche la madre e le sorelle si erano avvicinate. Seguirono tutte e quattro in silenzio i suoi ultimi respiri. Poi ci furono solo ore concitate. Ricordando gli avvenimenti di quegli ultimi lunghi giorni, Marlene, come se fosse un oggetto magico con chissà quale potere, continuava a rigirare tra le mani il suo portachiavi. Era una piccola clessidra. La sabbia scivolava da una parte all’altra, e lei pensava a quanto fosse veloce il tempo, e a quanto potesse dilatarsi senza senso proprio come in quel momento. Guardò le persone riunite intorno a quel loculo. Vide il volto provato di sua madre, le sue sorelle in un angolo, gli occhi rossi e persi nel vuoto, e una serie di personaggi, le mani giunte, le braccia conserte, che in quel momento avevano per lei volti anonimi.
Era una bellissima giornata, il sole primaverile batteva sul suo viso, sentiva il vento leggero che entrava nella sua camicetta e le accarezzava le braccia. Si sentiva in colpa nel provare piacere per quei raggi solari e quel vento, che sembrava volessero farsi spazio nel suo vuoto.
C’era un odore insopportabile di fiori; si voltò e li vide in un angolo ammucchiati, c’erano delle fasce con incisi sopra dei nomi che non riconosceva. Con amore, con affetto, con stima. Robaccia che si stava già decomponendo, come tutti loro, del resto. Perché bisognava coprire l’odore della morte? Erano più disgustose tutte quelle rose, gerbere, lilium, orchidee recise e profumate fino alla nausea che l’odore della morte!
La voce del prete che cominciava a sciorinare le sue litanie richiamò la sua attenzione. A suo padre probabilmente quella nenia senza senso non sarebbe nemmeno piaciuta. Ebbe l’impulso di girarsi per dirglielo, ma lui non c’era. Non ci sarebbe stato mai più. Si fece forza pensando alla legge di Lavoisier: nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma. Che cazzata. Lei voleva la forma esatta, precisa di suo padre. Non voleva una sua trasformazione. Voleva rivedere lo stesso viso, sentire le stesse identiche inflessioni della sua voce, non voleva qualcosa che lo ricordasse anche solo vagamente. Lei stessa era una trasformazione di suo padre, pensò guardando le sue mani, ma questo non le bastava in quel momento.
Guardò il prete nel suo abito talare, lui era eternamente in lutto, aveva rinunciato ad ogni forma di vita. Beato lui, pensò guardando il crocifisso di legno, la piccola Bibbia che teneva tra le mani e la stola viola che ricadeva su quell’abito nero.
Non riusciva a respirare, detestava quei fiori, e tutta quella gente non le permetteva di rinchiudersi nel suo angolo segreto. C’era sempre qualcuno che arrivava a stringerle la mano, a dirle:

“Condoglianze. È la vita”. Fanculo. Al prossimo individuo che avesse pronunciato quelle parole probabilmente avrebbe dato una testata.
Decise di allontanarsi per non creare imbarazzo e dolore alla madre e alle sorelle, già provate da tutto il resto. Sapeva che anche loro non sopportavano tutte quelle persone. Avrebbe voluto cacciare tutti via, e rimanere solo loro quattro chiuse a schermarsi a vicenda in quel dolore.

Vide una coppia di amici di famiglia, potevano avere al massimo una sessantina d’anni, si tenevano per mano. Sperò che sua madre non li vedesse: lei aveva appena perso il compagno della sua vita, non avrebbe più potuto prendergli la mano. Le aveva stretto le mani per l’ultima volta solo poche ore prima, ma erano ormai fredde, non era la stessa cosa.

Allontanandosi notò una panchina di marmo bianca, si sedette per calmarsi. Era lucida, con delle piccole venature nere, stava sotto un albero che non capiva di che specie fosse. Ma chi se ne frega, pensò, erano tre giorni che non dormiva, non aveva poi molta importanza riconoscere la sua specie. Era un bell’albero, con i rami carichi che quasi scendevano a posarsi sulla fredda panchina e le restituivano un po’ di colore in mezzo a quelle tristi lapidi con le foto di volti dalle storie sconosciute. Accarezzò la corteccia, voleva sentire qualcosa di ruvido sotto le sue mani, poi si sedette e accese una sigaretta.

Le venne da ridere. In quella circostanza nessuno le avrebbe detto che non doveva fumare. Era uno di quei momenti in cui chi sta provando dolore è autorizzato dagli altri a fare qualsiasi cosa. Cercò di non ridere, ma non ci riusciva, pensava che anche suo padre avrebbe trovato divertente questa cosa. Si coprì il viso con i capelli: se qualcuno l’avesse guardata in quel momento, avrebbe sempre potuto simulare un finto pianto. Proprio non ci riusciva a piangere. Era come se dentro non avesse più niente che potesse far uscire le lacrime. Si sentiva in colpa anche per questo. Guardò la sigaretta, magari se l’avesse spenta sulla sua pelle le lacrime sarebbero uscite. Aspirò di nuovo, poi la gettò e la vide rotolare sulla terra rossa oltre le sue scarpe nere.

Di nuovo il vento venne ad accarezzarla, e portò con sé anche il profumo e il polline dei fiori di campo. Seguì il percorso delle particelle di polline che volavano lontano, quasi a voler raggiungere le bianche nuvole. Sentiva una strana dolcezza dentro in quel preciso momento; non si sentiva quasi più in colpa provando piacere per la vita che le scorreva dentro, anche se il suo stomaco si stringeva in una morsa glaciale se solo ripensava all’immagine di suo padre. Le sembrava che lui fosse seduto accanto a lei. Chiuse gli occhi. Sentiva il sole che voleva poggiarsi sulla sua mano, la allungò tentando di prendere un raggio.

Riaprì gli occhi e vide sua madre in mezzo a quegli sconosciuti. Si era voltata e la guardava, sorridendo appena un po’. Le sorrise anche lei. Non l’aveva mai amata tanto come in quel momento. Poi vide un suo amico che tirava fuori da una custodia logora una tromba. Il sole si appoggiava sul suo ottone lucido e sembrava che la chiamasse. Lentamente si alzò. E andò avanti.

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UNA FORTUITA SERIE DI CIRCOSTANZE di Valentina Pucillo

Una fortuita serie di circostanze

di Valentina Pucillo

tratto da Voci Nuove 7

a cura di Daniele Falcioni

ed. Rapsodia

 

Il garrito dei gabbiani che sorvolavano il porto non accennava a diminuire di intensità, nonostante fosse ormai tarda notte. Dall’angolo in fondo alla biglietteria dove si trovava, schiacciato tra la macchinetta automatica per le foto e il muro da cui si apriva la grande vetrata che affacciava sul porto, Karl sentiva fin troppo bene gli urli acuti dei maledetti uccelli. E li vedeva fin troppo bene, anche. Uno di quelli, enorme, era sceso in picchiata a tutta velocità verso di lui, tanto che Karl aveva temuto che si spiaccicasse contro la finestra e che il vetro andasse in frantumi cadendogli addosso; poi, invece, il gabbiano aveva elegantemente virato verso destra ed era volato via.

Karl aveva il sedere freddo e indolenzito per le ore trascorse rannicchiato sul marmo; la gazzarra orchestrata dagli uccelli rappresentava un ulteriore impedimento a un qualsiasi tentativo di dormire.
“Ci mancavano solo questi uccellacci del malaugurio, per la miseria!” imprecò insofferente Karl: tuttavia, non poteva nascondere a se stesso una certa invidia per la libertà di quelle creature. Comunque, se voleva almeno tentare di riposare qualche istante, doveva trovare una diversa sistemazione.

Decise di alzarsi dall’angolo in cui stava accovacciato, visto che era rimasto completamente solo nella sala spoglia. Sentì con un certo sollievo le ossa indolenzite della schiena e delle anche scricchiolare. Pensò che avrebbe potuto sdraiarsi su una delle panche posizionate lungo il muro dalla parte opposta della stanza; il legno rivestito di stoffa sudicia era probabilmente più comodo della pietra. Sicuramente più caldo. Vagamente inquieto, camminò verso il centro della sala per sgranchirsi le gambe, illuminato dai neon accecanti come un primo tenore sul palco dell’opera. Si chiese perché diavolo non avevano spento le luci, una volta chiusa la biglietteria; la visibilità era comunque assicurata grazie alla forte luce dei fari sulle banchine, e lui si sarebbe sentito più protetto. Tuttavia, si rendeva conto che il suo timore era piuttosto infondato. La sala era vuota, e lo sarebbe stata ancora per svariate ore. Su un cartello c’era scritto che la biglietteria apriva alle sette, e Karl non si aspettava che gli impiegati svogliati arrivassero con eccessivo anticipo. Aveva tutto il tempo per riposare, almeno per qualche ora. Era stanco. Era tanto stanco e aveva bisogno di assopirsi e di non pensare.

Quel pomeriggio, mentre camminava su e giù per il porto tirando calci ai mucchi di corde ammonticchiate agli angoli, Karl si era quasi rassegnato all’idea di dover passare la notte fuori sulla banchina. Non sapeva quanto gli rimaneva in tasca, non aveva neanche voglia di controllare, ma di certo non poteva permettersi di sprecare neanche un centesimo per pagarsi una stanza. Aveva intravisto, sul molo più lontano dal cancello di ingresso, quello che da lontano sembrava una specie di cimitero di container scrostati e abbandonati. Ce n’erano alcuni belli grossi, avrebbe potuto rannicchiarsi in uno di quelli, e magari chiuderlo per ripararsi dalle raffiche di vento marino che, sicuramente, durante la notte era ancora più umido e gelido. Ma aveva cambiato idea quando, all’imbrunire, quello che per tutto il giorno gli era sembrato un posto energico e fremente di attività, aveva assunto una connotazione ambigua. Gli pareva di aver iniziato a notare strani movimenti; personaggi poco rassicuranti dalle facce torve gli lanciavano occhiate malevole.

Alcuni, sembravano clochard che probabilmente stazionavano lì ogni notte; molti, troppi, gli sembravano malviventi che aspettavano il buio per occuparsi dei loro traffici. I grandi porti, di notte, sono luoghi ideali per incontri loschi e scambi illegali, lo sanno tutti. E lui non era certamente un uomo della strada, e sapeva benissimo di non essere neanche così scaltro da potersi trarre d’impaccio in caso di guai. Oltre alla tensione per la situazione, che ancora doveva capire come gestire, aveva iniziato a sentire anche qualcosa di molto simile alla paura. Era perciò tornato a passo svelto alla biglietteria poco prima dell’orario di chiusura e si era nascosto dietro uno di quei cubicoli che scattano fotografie istantanee, che quasi nessuno usa mai perché le foto vengono sempre orribili.

Si sdraiò sulla panca su un fianco, adagiando la schiena dolente lungo lo schienale, e chiuse gli occhi, coprendoli con il berretto. Si assopì, ma non riusciva ad addormentarsi del tutto, infastidito dal rimestio agitato che gli rivoltava lo stomaco. Capì di avere fame. L’ultimo pasto decente che aveva fatto era stato parecchie ore prima, in quella trattoria sulla statale insieme a Ioan, il camionista che lo aveva raccattato lungo la strada, con il quale aveva condiviso un piatto di merluzzo fritto unto e un quarto di vino.

Quel giorno si era messo in cammino, con un pesante zaino sulle spalle, già da prima dell’alba; non sapeva neanche che ora fosse quando, dopo quelle che sembravano ore interminabili, si era fermato in una piazzola dove aveva visto un bagno chimico. Lo aveva trovato chiuso a chiave e aveva imprecato ad alta voce. Il camion si era accostato e l’autista era sceso proprio mentre Karl tirava un calcio alla parete di plastica.

L’uomo che gli stava davanti era tozzo e grosso, con gli angoli della bocca rivolti verso il basso. Gli si era avvicinato con un’andatura strascicata, guardandolo fisso da sotto le sopracciglia folte e gli aveva chiesto, con un marcato accento moldavo: “Tu problema?” “Bagno. Fame” aveva risposto Karl, adeguandosi stupidamente al parlare sgrammaticato del suo interlocutore.

L’uomo aveva indicato il camion. “Sali. C’è bagno e cibo più avanti”.
Una volta saliti sul camion, l’uomo gli aveva detto di chiamarsi Ioan e di essere diretto al porto per la consegna del carico. Poi, per tutto il tempo che avevano trascorso insieme, Ioan era rimasto in un silenzio accigliato. Sempre senza dire una parola, gli aveva fatto cenno di scendere quando erano arrivati davanti al grande cancello di ferro che si apriva sulle banchine, ed era ripartito lasciandolo lì.

Karl si riscosse. Con lo stomaco che reclamava si alzò, sacrificò qualche spicciolo per acquistare un paio di tramezzini al distributore automatico e li inghiottì con foga. Poi si sdraiò di nuovo sulla panca e, rigirandosi continuamente sul legno duro, cadde in un sonno agitato e popolato da sogni inquieti che avevano tutti per oggetto la perdita del suo passaporto. Sognò che un branco di cani rabbiosi lo riduceva a brandelli; sognò che uno sbirro, con un sorriso ambiguo, glielo sequestrava sostenendo che fosse falso; sognò di salire finalmente sulla nave ma, tirando fuori il passaporto per mostrarlo al controllo all’ingresso, questo gli veniva strappato via da una raffica di vento e veniva scaraventato tra le acque luride del porto. Spalancò gli occhi e con il batticuore si tastò la tasca posteriore dei pantaloni, tranquillizzandosi quando sentì lo spessore rigido del prezioso documento.
Rabbrividì per una folata gelida che si era insinuata nella stanza. Saltò in piedi, stropicciandosi gli occhi abbagliati dal neon.

Entrambe le pesanti porte a vetri, sia quella sul lato della strada sia l’altra che affacciava direttamente sul porto, erano state chiuse ermeticamente; fino a qualche istante prima non era entrato all’interno neanche uno sbuffo d’aria, eppure aveva sentito più volte il vento ululare intorno alla stanza. Si guardò intorno, vigile e in tensione, non riuscendo a capire da dove provenisse l’aria. Poi ebbe un tuffo al cuore: la piccola finestra che si trovava dietro alle postazioni degli impiegati era socchiusa. Con immenso sgomento si accorse che c’era una figura nera dietro i vetri. Le dita della figura spuntavano nella fessura tra le due ante. Cazzo, era una guardia? Lo aveva visto? Afferrò convulsamente lo zaino dalla panca e si girò per lanciarsi dietro alla macchinetta delle foto, sperando di riuscire a nascondersi, ma una voce lo bloccò.

“Ehi… ehi tu! Ti ho visto, sai? Sono dieci minuti che ti osservo”.
La voce non era imperiosa né sferzante, come sarebbe invece stata se fosse appartenuta a una guardia della vigilanza privata o, peggio, a un poliziotto; era, piuttosto, un sussurro incalzante. Lentamente Karl si voltò. Rimase quasi a bocca aperta nel trovarsi davanti un ragazzino seduto sulla soglia, con le gambe penzoloni verso l’interno della stanza. Il ragazzino era intabarrato in un vecchio cappotto militare di almeno due taglie più grandi, e sulla sua testa spiccava un cespuglio di capelli arruffati. Non poteva avere più di quindici o sedici anni, e lo osservava con un’espressione guardinga ma non spaventata.

“Chi sei? Lo sai che è vietato stare in questo posto?” chiese Karl, cercando di nascondere la propria agitazione e di apparire più duro di quanto non si sentisse.

“Posso chiedere a te la stessa cosa” replicò il ragazzo con un sorrisetto, per nulla intimorito. “Io sto fuori, sei tu quello dentro a una sala chiusa. E poi io qua ci sto sempre. Non ti ho mai visto. Sei un ladro?” chiese, quasi speranzoso.
“Ma che dici, ragazzino!” rispose Karl allarmato, temendo scioccamente che ci fosse la vigilanza nelle vicinanze. “Cercavo solo un posto dove passare la notte. Prendo la nave domani mattina”.

“Beh, ma da qua partono solo le navi con dentro i container, non quelle con le persone! Hai sbagliato, devi andare dall’altra parte del porto. Là c’è pure una sala d’attesa dove puoi entrare mostrando il biglietto! Vieni, ti ci accompagno…”
“Ragazzino, sto bene qui” rispose Karl freddamente.

“No, no. Non puoi restare qui, ti troveranno!”
Il ragazzino si guardò attorno e iniziò a parlare a raffica: “Una volta c’era un senzatetto che si era addormentato lì per terra, e la mattina dopo, quando sono entrati e lo hanno trovato sdraiato, prima hanno pensato che fosse morto e hanno iniziato a gridare, poi quello si è svegliato e allora si sono messi ancora più paura e hanno chiamato i poliziotti che erano qui fuori, dicendo che c’era un ladro, e allora due poliziotti sono entrati e lo hanno preso ognuno per un braccio e lo hanno portato via trascinandolo e…”
“Smettila di gridare, ragazzino! Se continui a strillare così, certo che mi troveranno! E comunque, credi che non ci abbia già pensato? Vedi quell’angolo laggiù in fondo alla sala, dietro alla macchinetta delle foto? Tra poco mi nasconderò lì, dove sicuramente gli impiegati della biglietteria non andranno mai a guardare, e quando inizierà il viavai di gente sguscerò rapido verso la porta. Non se ne accorgerà nessuno” rispose Karl, con una certa aria di superiorità mista ad orgoglio per la sua trovata.
“Ma no! Non gli impiegati! Quelli non si accorgono mai di niente. Gli impiegati no, ma loro ti vedranno sicuramente” disse il ragazzino con la voce ridotta a un sussurro, fissando Karl dritto negli occhi.
Karl iniziò a sentirsi nervoso. Si guardò intorno di sottecchi, come a cercare qualcuno o qualcosa nella sala. Ma non vide nessuno oltre al ragazzino e al riflesso di se stesso nella vetrata.
Poi si riscosse. Come diavolo pensava di poter affrontare il viaggio che aveva in mente se si lasciava suggestionare dalle sciocchezze di un ragazzino?

“Ehi tu” lo apostrofò seccamente, “adesso mi hai scocciato. Chi è che dovrebbe trovarmi, eh? Ti diverti a prendermi in giro?”
Il ragazzino alzò gli occhi al cielo, come se avesse appena ascoltato la più stupida delle domande. Poi rispose con tono arzillo: “Gli addetti delle pulizie ti vedranno. Chi sennò? Arriveranno tra…” si sporse in avanti per guardare l’orologio al centro della sala, che segnava le quattro meno dieci: “Tra poco più di un’ora. E loro ci guardano, dietro alla macchinetta delle foto”.
Karl rimase impietrito. Come aveva fatto a non pensarci? Era stato davvero un idiota. Certo, aveva con sé i documenti, non era ricercato, sicuramente non ci sarebbero stati problemi a chiarire l’equivoco. Tuttavia sarebbe stato, nella migliore delle ipotesi, estremamente imbarazzante. Nella peggiore… non voleva pensarci, ma potevano essere grosse rogne se ci si metteva di mezzo la polizia. Rifletté brevemente massaggiandosi le tempie. Sì, senza dubbio doveva andare via da lì, e anche alla svelta.
Una ventata di aria gelida fece tremolare la grande vetrata accanto alla porta, e subito dopo grosse gocce di pioggia iniziarono a cadere.

“Ci mancava anche il temporale, dannazione!” imprecò Karl a bassa voce. Si voltò verso la biglietteria. Il ragazzino era ancora lì e lo osservava con curiosità. Era sceso all’interno della stanza e aveva poggiato la schiena alla finestra per tenerla chiusa.
“Senti…” gli disse Karl, titubante, “hai ragione, non posso stare qui. Devi farmi uscire, devo trovare un altro posto dove ripararmi”.
Al ragazzino si illuminarono gli occhi. Gli fece velocemente cenno di avvicinarsi. “Vieni di qua! Dobbiamo per forza uscire dalla finestra. Poi, se siamo fortunati e troviamo aperto il cancello del cantiere navale, tagliamo di là e arriveremo in due minuti dove stanno le navi per le persone, e lì puoi stare nella sala, come ti dicevo!” spiegò il ragazzo, compiaciuto che alla fine la sua idea fosse stata apprezzata.
“Ancora! Ragazzino, diamine, non possiamo andare lì. Non capisci? Non ce l’ho questo fottuto biglietto” ringhiò Karl. Poi aggiunse, più dolcemente: “Puoi aiutarmi a trovare un altro posto?”
Il ragazzo si bloccò e lo guardò a bocca aperta, vagamente inquieto. Sul suo viso confuso si leggeva chiaramente la domanda inespressa: come si può pensare di prendere la nave senza biglietto? Poi si riscosse. Quell’uomo non gli metteva paura come altri uomini che aveva intravisto a volte intorno ai container abbandonati. Fece cenno a Karl di scavalcare la finestra e uscì dopo di lui, facendo attenzione a richiudere le vecchie ante di legno che si incastravano sempre strusciando sul davanzale.

“Vieni con me” disse a Karl, incamminandosi svelto.
Karl lo seguì e gli chiese, stupito, come facesse a conoscere così bene il porto. Quel ragazzino non gli sembrava un delinquentello, ma d’altra parte i porti non sono proprio posti tranquilli e sicuri, soprattutto di notte. Il ragazzino, senza voltarsi, indicò il grosso faro che svettava davanti a loro in lontananza. “Io sto sempre con mio padre. Lui lavora lì”.
Il figlio del guardiano del faro! E chi ci avrebbe mai pensato!? Certo, magari era solo una balla, inventata da quel ragazzino dallo sguardo sagace per fregarlo: il ragazzino era di sicuro più furbo di lui, e troppo a suo agio in un postaccio come quello, di notte per giunta. Poteva tuttavia essere davvero il figlio del guardiano; quella strana situazione avrebbe acquisito senso. Effettivamente, era al faro che si stavano dirigendo. E se il faro fosse stato un covo di farabutti che non aspettavano altro che un pollo da spennare? Karl ghignò desolato tra sé e sé. Bel pollo secco che avrebbero trovato!

Pioveva sempre più forte, e la pioggia si riversava nell’acqua salmastra ruscellando sui ponti delle navi. Karl era zuppo, intriso d’acqua come una spugna; seguiva il passo veloce del ragazzino attraverso le strade che collegavano tra loro i vari magazzini del porto. Gli sembrava di essere in un labirinto, e il fragore del muro di pioggia rendeva scarsissima la visibilità, contribuendo a fargli perdere l’orientamento; non aveva idea di dove fossero e in mezzo a quelle strutture non vedeva più neanche il faro.
D’un tratto, i due sbucarono sulla banchina; Karl fu schiaffeggiato da una raffica di vento bagnato e gelido e si bloccò, imbambolato alla vista delle navi portacontainer scure ed enormi.
“Ehi, muoviti! Fa freddo, sono fradicio, andiamo!” gli gridò il ragazzino, e cominciò a correre in direzione del molo al termine del quale si ergeva il faro. Karl si riscosse e si precipitò dietro al ragazzo, arrancando lungo il molo scivoloso. Cercava di non guardare la massa di acqua nera che incombeva su di lui sia a destra che a sinistra, e di non pensare a cosa sarebbe potuto succedere se fosse caduto sugli scogli ricoperti di alghe viscide che costeggiavano il molo.
Quasi senza che Karl se ne rendesse conto, arrivarono finalmente davanti al faro. Karl, ansimando, poggiò la schiena alla porta di ferro e restò così, immobile, a riprendere fiato; poi guardò interrogativo il ragazzo, in piedi accanto a lui, per nulla provato da quella impetuosa corsa notturna. Cosa sarebbe successo, ora?
“Di’ un po’, ragazzino, e adesso? Non mi farai passare mica tutta la notte qui al gelo?” lo apostrofò Karl piuttosto seccamente.

“Mi chiamo Josef. Puoi chiamarmi con il mio nome, siamo quasi amici, adesso” rispose lui e, presa una vecchia chiave da sotto un masso, aprì la porta e sgattaiolò dentro, lasciando che il battente si chiudesse rumorosamente alle sue spalle.
Karl restò impietrito per qualche istante. Poi, furioso, cominciò a gridare.

“Ragazzino… Josef! Apri la porta! Dove diavolo sei andato?”
La pioggia continuava a infradiciarlo; prese a battere sulla porta e a strepitare improperi, tossendo e starnutendo. Finalmente, la porta si aprì.
“Ragazzino sciagurato! Mi prendi per il culo? Stai cercando di fregarmi? Adesso ti faccio vedere io!” ringhiò Karl alla figura all’entrata. Ma, a guardare bene, Josef non era solo. Accanto a lui c’era un uomo alto e massiccio, con barba folta e rossiccia come la criniera che aveva in testa. L’uomo gli parlò con una voce profonda e autoritaria, ma non minacciosa. “Modera i termini, amico. Questa tua aggressività non ci è gradita. Comunque, a mio figlio hai fatto simpatia. Mi ha detto che avevi bisogno di aiuto e non aveva tutti i torti, sembri piuttosto provato. Sali”. Senza dire altro, l’uomo si voltò e iniziò a salire la ripida scala di ferro. Karl sgusciò dentro mentre Josef gli teneva la porta aperta. Continuando a starnutire, si avviò per le scale stringendosi al petto lo zaino bagnato che conteneva i suoi pochi averi.

La scala portava ad un’unica stanza circolare, arredata con un divano di cuoio e due grosse poltrone; in fondo, c’erano un cucinino con un tavolo, e un bagno. La stanza era illuminata da una luce fioca ed era asciutta e priva di spifferi.
L’uomo accese il bollitore. Riempì tre tazze quando l’acqua fu calda e vi sciolse del caffè solubile. Aggiunse un cucchiaino di miele e un po’ di latte nella tazza che diede a Josef, e nelle altre due versò una generosa dose di brandy, tenendone una per sé e poggiando l’altra sul tavolo, davanti a Karl.
“Togliti quei vestiti zuppi e poi bevi qualcosa di caldo, ne hai bisogno. Lì c’è una tuta, è vecchia ma pulita. Puoi metterti quella” disse, indicando con il mento la porta scrostata del piccolo bagno.
Come un automa, Karl appoggiò lo zaino sulla poltrona e andò in bagno, dove iniziò a cambiarsi lasciando la porta socchiusa. Mentre si infilava i pantaloni di flanella (enormi, ci stava dentro due volte) vide con la coda dell’occhio l’uomo versare nella sua tazza quella che sembrava una polverina bianca, e mescolare. Si precipitò fuori gridando febbrilmente: “Che cavolo stai facendo? Vuoi avvelenarmi?”
Poi abbassò lo sguardo e vide una bustina aperta poggiata sul tavolo.
“È paracetamolo. Ti aiuterà” gli rispose l’uomo senza scomporsi.
Karl prese il bicchiere con mano tremante e si accasciò su una delle poltrone. Dalle finestrelle senza tende lungo tutta la parete vedeva il fascio di luce del faro che appariva e scompariva ipnoticamente.

“Dunque… sei davvero il guardiano del faro, e Josef è tuo figlio. Vivete qui?” chiese a un tratto Karl, nonostante l’imbarazzo e l’ambiguità della situazione.

L’uomo si lasciò andare ad una risata grave, poi disse: “Credo proprio che non si possa dubitare sul fatto che Josef sia mio figlio. Sull’essere guardiano del faro, invece… ormai sono anni che questo mestiere non esiste più. Sembra una definizione da figura mitologica. Adesso per la legge noi siamo operatori nautici”.

Poiché Karl lo guardava interrogativo, l’uomo continuò: “Anni fa il termine guardiano del faro aveva una sua ragion d’essere. Vivevamo nel faro, in simbiosi con il faro. La manutenzione era giornaliera e costante. Oggi con la tecnologia è cambiato tutto. Io e Josef abitiamo in città; veniamo qui un paio di giorni ogni settimana per la pulizia e i controlli ordinari. E da quando il carico di lavoro è diminuito, mi occupo di altri piccoli… affari, ecco, affari di vario genere giù al porto. Oggi, comunque, non avremmo dovuto essere qui. Sei stato fortunato”.

“Fortunato un corno. Sono quasi le cinque del mattino e non so ancora cosa diavolo fare” pensò Karl tra sé e sé. Fissò torvo un punto indistinto nell’oscurità oltre la finestra, ascoltando il borbottio del mare e il respiro pesante di Josef, che si era addormentato sulla poltrona accanto alla sua.

“Ti conviene dormire un po’ prima che faccia giorno” gli disse l’uomo.
Karl era nervoso e, allo stesso tempo, intontito dal miscuglio di liquidi e medicinali che aveva ingurgitato; inoltre, si stava così bene su quella comoda poltrona che la stanchezza prese il sopravvento e gli fece chiudere gli occhi.

Non aveva idea di quanto avesse dormito; dalla finestra vedeva che il cielo, in precedenza nero e senza stelle, si era leggermente schiarito all’orizzonte. Istintivamente allungò una mano verso lo zaino e lo strinse a sé. Subito fu agitato da qualcosa che all’inizio non comprese. Poi capì: lo zaino era aperto, leggero, e aveva una consistenza molle. Era pieno di fogli di giornale appallottolati. Karl si guardò intorno: nella stanza non c’erano più né i suoi vestiti né Josef e suo padre. Era solo e non aveva più la sua roba.

Si era fatto fregare! Povero illuso idiota che non era altro! Ma perché quei due truffatori avevano voluto approfittare proprio di un poveraccio come lui? Maledisse tutto, e si prese la testa tra le mani.
All’improvviso sentì dei rumori provenienti da sopra la sua testa. Scattò in piedi e percorse affannosamente le scale. Nella grande stanza a vetrate al piano superiore c’era la lampada del faro. Josef e suo padre erano lì e trafficavano vicino alle lenti. I suoi vestiti, il portafoglio, il passaporto e gli altri effetti personali erano allineati in bella mostra su un tavolino.

“Cosa…” sbottò Karl.

“Guarda, Karl! Si sta asciugando tutto per bene! Sono riuscito a stendere tutte le banconote e a non far gonfiare di umidità i fogli del passaporto!” esclamò Josef compiaciuto. “Dovrebbe essersi quasi asciugato anche lo zaino: i fogli di giornale assorbiranno tutta l’umidità!” Ancora una volta, Karl chinò il capo, affranto.

“Perdonatemi… io, ecco, credevo che volevate fregarmi. Non sono mai stato molto fortunato nella mia vita. E devo prendere quella nave per l’Australia, la devo proprio prendere a tutti i costi, capite? Ma non so come fare, maledizione!”
Josef guardò suo padre, che a sua volta fissò a lungo Karl con uno sguardo indecifrabile.

“Io non so chi tu sia, Karl, e non so da cosa fuggi e cosa devi andare a fare a tutti i costi in Australia. Ma non mi sembri un disgraziato”.
Karl alzò lo sguardo, speranzoso.
“Facendo i miei… affari giù al porto ho conosciuto molte persone interessanti” disse l’uomo calcando le parole affari e interessanti. “Spesso ci si scambiano favori. Ho tirato fuori dai guai e da situazioni ambigue parecchi operatori portuali. Di recente ho risolto una questione per Abel, un tale che si occupa dei servizi tecnici di bordo e del carico e scarico merci sulle portacontainer. E il caso vuole che questo tizio si imbarcherà come responsabile merci sul mercantile che parte stasera per Brisbane. Non credo avrebbe problemi a farti salire sulla nave come aiutante e a procurarti un visto, purché tu abbia un passaporto in regola e sia incensurato”.

Il corpo di Karl, infilato in quella tuta troppo grande, ebbe un sussulto. Abbozzò un sorriso patetico, passandosi la mano tra i capelli scompigliati.
Intanto si era fatto giorno; il cielo era coperto da uno strato plumbeo e pesante di nuvole, il mare era gonfio e grigiastro; una sottile pioggerella ancora persisteva e dava tutta l’idea che sarebbe durata l’intero giorno.

Josef e suo padre accompagnarono Karl da Abel, un tizio magro e di poche parole che comprese al volo la situazione. Si accordarono velocemente: in cambio di un posto sulla nave, Abel chiese solo che Karl aiutasse nelle attività di carico merci; una volta in Australia, sarebbe sparito dalla sua vista e avrebbe badato da solo a se stesso. Era più di quello che Karl aveva sperato.

“La nave partirà stasera alle nove. La chiave del faro è sempre nello stesso posto; quando avrai finito, torna al faro a riprendere i tuoi vestiti e le tue cose, che per il momento ti conviene lasciare lì. Buona fortuna” disse il padre di Josef a Karl, facendo poi un cenno di saluto con il mento; il ragazzino gli strinse solennemente la mano. Karl li salutò con un sorriso imbarazzato senza trovare le parole adatte. Li seguì con lo sguardo mentre si allontanavano. Quando furono spariti dalla sua vista, quasi dissolti nella pioggia, gli sembrò assurdo che quei due fossero veramente esistiti e che gli avessero persino servito su un piatto d’argento la soluzione al suo problema. “Eppure sono qui, e staserà partirò!” pensò Karl euforico, e restò stralunato a fissare la gigantesca nave davanti a lui.

Si riscosse sentendo Abel che lo chiamava seccamente e gli indicava una pila di casse, e iniziò a caricarle in un container seguendo le sue indicazioni. Era un lavoraccio faticoso e Karl fu presto stanco, ma allo stesso tempo animato da un miscuglio di eccitazione e gratitudine; pertanto continuò a lavorare come un mulo e senza una parola di lamento fino al pomeriggio inoltrato, quando Abel gli comunicò concisamente che il lavoro di carico era terminato. Gli diede un pass per salire sulla nave e si voltò per andarsene, ricordandogli a mezza bocca di presentarsi puntuale alle otto e mezza. Karl era sfranto, ma si sentiva leggero e vagamente ottimista per la prima volta da giorni: nonostante tutto, si rendeva conto che una fortuita e fortunata serie di eventi lo stava portando sempre più vicino alla sua meta.

Arrivò al faro che era quasi buio. Salì faticosamente la scala di ferro fino alla stanza rotonda. Controllò che nel suo zaino ci fosse tutto e, cercando di ignorare il dolore alle braccia, indossò i suoi vecchi vestiti. Poi si sedette sulla comoda poltrona, dando ai suoi muscoli e alla sua mente la possibilità di rilassarsi.

“Potrei riposare un po’” pensò Karl, “mancano circa due ore all’appuntamento. Potrei chiudere gli occhi… magari solo per qualche istante…” e si assopì, cullato dal mormorio delle onde e dalla pioggerellina che ancora batteva sui vetri.

Si svegliò di soprassalto, con la gola secca e il cuore a mille. Si rese conto che a farlo sobbalzare era stato il suono lungo e grave di una sirena. L’orologio appeso al muro segnava le 20:27. Sentì il sangue defluirgli nelle vene. L’appuntamento era alle 20:30; aveva soltanto tre minuti per raggiungere la banchina, ma quella mattina ce ne aveva messi venti!

Si riscosse, deciso a non perdersi d’animo: non poteva mandare tutto in malora proprio adesso, cazzo! La nave non sarebbe partita che alle 21:00, del resto. Col cuore in gola afferrò lo zaino e si precipitò giù per le scale senza neanche metterlo sulle spalle, poi si lanciò lungo il molo come un forsennato. Ce l’avrebbe fatta, certo che ce l’avrebbe fatta! Poteva già vedere il profilo dell’enorme nave, era lì ferma che lo aspettava. Ci avrebbe messo meno di dieci minuti, pensò continuando a correre come un pazzo.

Forse, nella foga, Karl non vide la corda spessa ammonticchiata su un lato del molo, o forse le sue scarpe usurate avevano la suola troppo liscia per supportare un’altra corsa folle sul suolo bagnato. Quello che è certo è che all’improvviso Karl perse l’equilibrio e rotolò rovinosamente su quegli scogli scivolosi a lato del molo, battendo forte la testa su uno spuntone. L’ultima cosa che i suoi occhi annebbiati videro, prima di perdere conoscenza, fu lo zaino che galleggiava nell’acqua grigia sotto di lui.

Passò del tempo, Karl non seppe stabilire in effetti quanto, prima di rinvenire. Era buio e lui era di nuovo fradicio. Nonostante l’oscurità, poteva intuire in lontananza il nero profilo familiare di una nave mercantile, ormai irraggiungibile all’orizzonte.

foto di Ylanite Koppens da Pixabay




RUGGINE e RICORDI di Ninni Caraglia

Ruggine e ricordi

di Ninni Caraglia

tratto dall’antologia Voci Nuove

a cura di Daniele Falcioni

ed. Rapsodia

 

 

All’età di nove anni, Tord era già bravo a pescare salmoni. Andavano al fiume maschi e femmine, famiglie e anziani. A luglio gli “anadromi” pesci cominciavano la loro corsa all’indietro per andare incontro all’amore e nella foga era facile prenderli mentre saltavano tra le piccole onde del fiume.

A quel tempo saper pescare voleva dire vivere: salmoni, trote e gamberetti nutrivano tutta la comunità del villaggio di Grodas, una manciata di case rosse e bianche posate delicatamente lungo il fiume Horndola , la parte più a est del profondo lago Hornidal,vanto della Norvegia.

Incredibile come un pesce viscido, guizzante e scivoloso sapesse invece far passare anni e momenti di vita passando di mano in mano tra le persone del villaggio.

Marit aveva sette anni quando cominciò ad andare al fiume con gli altri.

Maschi e femmine seguivano i loro padri e ognuno aveva il suo compito: i maschi pescavano, le femmine rimanevano più vicine alla riva del fiume. Se il pesce sfuggiva alla presa potevano essere fortunate a riprenderlo ma principalmente guardavano se tra i sassi del greto si nascondevano gamberetti.

Quando le gambe cominciavano ad arrossarsi per l’acqua gelida, uscivano dal fiume e si davano il cambio; cominciavano allora a giocare tutti insieme tirando piccoli sassi in acqua e cercando il legno bianco più bello, più particolare e dalla forma unica.

Proprio i più piccoli che rimanevano fuori cercavano piccoli rami di betulla, foglie di ontano, rami e aghi di abete che portavano alle madri ed alle nonne. Il fumo di quei ramoscelli bruciati avrebbe reso squisito quel pesce furbo e sfuggente.

Ogni giorno, per un mese o poco più, cercavano di pescare il più possibile; dopo l’affumicatura le carni rosa avrebbero fatto compagnia al flatbrod di segale e alle patate.

Marit era affascinata dalle forme di quei rami: piccoli o lunghi, fini o contorti. Ognuno aveva un nome ed ognuno aveva una precisa collocazione sul bancone del grande capanno. Ricordava ancora che con i sottili ramoscelli di tiglio aveva costruito il suo kling-korg con il quale aveva distribuito pane e dolci al suo matrimonio con Tord.

Erano cresciuti insieme passando stagioni diverse in quel grande capanno.

Quando Tord fu in grado di distillare la sua prima aquavit dalle patate, decise che era pronto il brindisi per le loro nozze.

Impreviste arrivarono le doglie e proprio nel grande capanno, tra gli attrezzi, i pesci ad essiccare e le caldaie per l’aquavit, nacquero i gemelli Gerd e Silje. Era autunno inoltrato ma nel grande capanno le pareti di legno mantenevano il calore del tiepido sole. Anche la copertura in lamiera quel giorno era meno fredda del solito, il calore di quelle nuove vite era arrivato in alto fin lassù.

Il biondo Gerd e la castana Silje trascorsero l’infanzia che tutti dimentichiamo di aver vissuto: innocenti e puri tra natura innocente e pura. L’adolescenza arrivò poi velocemente come tutti i cambiamenti che il villaggio stava subendo: macchine, computer, piccole industrie e traffico.

Gerd e Silje portarono i salmoni nella loro azienda a Flåm, cuore e punto estremo del Sognefjørden, Tord e Marit li aiutavano dal villaggio ma ormai gli anni cominciavano a pesare.

Come da padri si prendono decisioni per i figli, i figli prima o poi prendono decisioni per i padri: Gerd e Silje convinsero i genitori a trasferirsi con loro a Flåm.

Il porto, le barche, i traghetti, le macchine e i containers che cominciavano ad arrivare e partire da tutte le parti del mondo. Marit aiutava i figli con le faccende domestiche, Tord si annoiava. Certo, ormai aveva capito che le patate più buone erano quelle vendute da Bjorn, ma…le comprava, non le piantava e non le cercava sotto terra. Una grigia tristezza lasciò campo libero ad una profonda depressione. Il grigio della tristezza di Tord diventò così intenso che una mattina si svegliò al buio.

Il medico non sapeva spiegare quella improvvisa cecità, consigliò quindi un periodo di vacanza.

Marit con i figli decise di prendere il treno da Flåm e ripercorrere quel bellissimo ripido tratto che di villaggio in villaggio li avrebbe riportati a Grodas.

L’aria tiepida ed i profumi dell’estate scaldarono gli occhi di Tord, adesso vedeva con il cuore e sapeva dove stavano andando.

Finite le vacanze, tutta la famiglia ritornò a Flåm, e a far compagnia a Tord c’erano di nuovo solo le grida dei gabbiani ed i motori delle barche.

Marit fu irremovibile come il silenzio di Tord, loro due sarebbero ritornati a Grodas. La loro casa vicino al grande capanno abbandonato, sarebbe stata sufficiente per le loro esigenze. Il primo piano aveva tutto quello che serviva e avrebbe permesso a Tord di muoversi con facilità.

E poi la casa della loro vecchia amica Greta ed i suoi tre cani era dietro la loro, non sarebbero stati soli.

Marit e Tord ritornarono a fare quello che facevano da bambini, quello che avevano sempre fatto.

Per Marit quella era la casa del matrimonio, quindi tutto era ancora al suo posto, e per Tord divenne tutto più facile quando cominciò a memorizzare quanti scalini doveva scendere per andare nel campo, dopo quanti passi si trovava di fronte all’ingresso maggiore del grande capanno.

Si ricordò che la quarta trave a destra del portone aveva l’occhiatura del legno cava…da li poteva vedere se arrivava qualcuno quando si nascondeva per baciare Marit.

Piano piano tutto ritornò al suo posto, Marit e Greta tolsero erbacce e suppellettili rotte.

Sul grande tavolo di lavoro, mollicci e scuri, giacevano ancora legni vari. Decise di buttare tutto. Cadde qualcosa in terra ma non fece troppo rumore, Marit lo raccolse senza vedere.

Rimase immobile a guardare quella strana pietra porosa e leggera di forma triangolare…nelle sue mani di bambina quella pietra, che ricordava essere di color celeste, sembrava grandissima.

Quante volte lei e sua cugina l’avevano usata per pulire la pelle del salmone! Il coltello sarebbe stato troppo pericoloso, ma con quella pietra potevano anche loro preparare il salmone per la cena come vere donnine.

Ora tutto aveva un perché ed uno scopo, tutto aveva un posto preciso e dedicato. L’affumicatore ad una estremità e le caldaie per l’acquavite all’altra, Tord lo ricordava ancora come se lo vedesse. Tutto continuò a rimanere così fino all’estate seguente quando, insieme ai figli, Marit e Tord fecero una festa per inaugurare il grande vecchio capanno come Museo della Vita di Grodas.

Dopo tutto proprio lì dentro si era svolta la vita di tutti gli abitanti del villaggio, quelli prima di Marit e Tord, Marit e Tord, i loro figli e presto il loro primo nipote.

Ognuno aveva costruito, vissuto, cantato, mangiato, ballato, partorito e pianto lì nel grande capanno abbandonato. Ogni generazione poteva dirsi fondatrice del Museo.

Per quelli che non c’erano più o non potevano vedere,Tord era felice di essere lì a dimostrare che il loro passato era ancora un tangibile presente.

Il grande capanno con quel tetto un po’ sbilenco, nasconde ancora gelosamente tutti i loro giorni: il fumo, l’odore di pesce e di alcol non distorcono i ricordi, anzi, essi sono lì alle pareti come quadri appena appesi.

Mantenerlo così è come avere una vecchia fotografia che anche Tord riesce a vedere.

Il tetto del vecchio capanno non è più lucente ed accecante quando splende il sole d’estate, il tetto è ormai quasi tutto rosso e brunito per la ruggine. Anche il vecchio capanno porta i segni del tempo…il vecchio grande capanno è il tempo: ogni anno che passa tramuta un punto di ruggine in righe sempre più fitte, come fitte diventano le nostre rughe, firme orgogliose che la Vita lascia sul nostro volto.

 

Foto-di-Karolina-Grabowska-da-Pixabay-.jpg




Raccolta di racconti e poesie: Voci Nuove

Lavoro finale del corso di scrittura creativa di Daniele Falcioni

Quando la mia amica Silvia mi ha portato il suo regalo di Natale si capiva fosse un libro, ma non capivo quel sorriso sicuro che le illuminava il viso «Questo non c’è nella tua libreria, contaci!» e solo dopo averlo scartato ho gioito e compreso: il libro in regalo è l’ultimo volume Voci Nuove edito da Rapsodia Edizioni uscito a dicembre.
Non poteva farmi regalo più bello, perché nel libro ci sono anche i racconti e le poesie a firma Silvia De Felice.

Voci Nuove volume 7 è una raccolta di racconti e poesie frutto di un anno di duro lavoro di otto autrici che seguono da alcuni anni il corso di scrittura creativa di Daniele Falcioni ad Aprilia.
Un lavoro certosino, fatto di idee, tagli, revisioni, fogli accartocciati, cancellature e frasi trasportate da pagina in pagina che si è svolto da remoto, visti i provvedimenti di distanziamento dovuti al Covid-19 e anche perché il loro docente è insegnante di Lingua Italiana all’Università di Edimburgo.

Incisiva e toccante la prefazione al libro del docente Falcioni il quale, prendendo a prestito le parole di Gottfriend Benn, afferma come durante quest’anno lui, insieme alle sue autrici

 

Abbiamo vissuto qualcosa di diverso, pensato qualcosa di diverso da ciò che ci aspettavamo, e ciò che rimane è qualcosa di diverso da ciò che avevamo in mente

 

Ho avuto il piacere di leggere i racconti di Silvia De Felice quando ancora erano in fase di revisione ma la forza della sua capacità narrativa è così insita nelle parole utilizzate che, leggendoli ora inseriti in un libro, mi hanno fatto dimenticare completamente chi fosse l’autrice spingendomi ad arrivare fino in fondo ad ogni racconto catturata dal ritmo incalzante.
Ha prevalso il testo rispetto al legame e credo che questo sia quanto di più bello possa sentirsi dire chi scrive per il puro piacere di creare storie, perché non conta chi sia a narrarle ma la capacità che hanno le parole di far viaggiare il lettore.

Ho amato il profondo senso di amicizia tra Elisabeth, Arthur e John in “Adagio” e sono rimasta piacevolmente catturata dall’energia di “Avventura di un’estate” mentre non oso dare un giudizio sulle poesie inserite nel volume in quanto considero l’arte della poesia come qualcosa di estremamente personale, capace di innalzare l’animo o di passare senza alcun smottamento interiore in relazione allo stato emotivo del lettore.

Ci tengo a inserire i nomi di tutte e otto le autrici del volume in ordine alfabetico: Laura Avati, Martina Belvisi, Meri Borriello, Ninni Caraglia, Cristina Cortelletti, Silvia De Felice, Valentina Pucillo e Silvia Zaccari.

Voci Nuove è volume che merita di essere letto per la grande capacità narrativa delle autrici, ciascuno con un proprio stile e, proprio per questo, capaci di soddisfare e di raggiungere il cuore di diversi tipi di lettori.

Voci Nuove è disponibile nelle librerie di Pomezia e Aprilia e mi auguro che presto possa esserci l’occasione di una bella presentazione in presenza.