L’ombra del giorno, l’amore ai tempi del fascismo

L’ombra del giorno, da poco su Netflix, è il famoso film del 2022 diretto da Giuseppe Piccioni che racconta una storia d’amore ai tempi del regime fascista. Luciano, simpatizzante del fascismo, è infatti proprietario di un ristorante di Ascoli Piceno e si ritrova un giorno ad assumere Anna, bisognosa di un lavoro stabile, che sconvolgerà la quotidianità dell’uomo e riporterà alla luce i suoi sentimenti più puri.

A fare da protagonisti a queste tristi vicende sono Riccardo Scamarcio e Benedetta Porcaroli, entrambi nomi ben noti dell’ambito del cinema italiano. I due infatti, non solo hanno una storia all’interno del film, ma anche fuori, essendosi innamorati proprio sul set. La relazione tra i due inoltre, nonostante una differenza di età di diciannove anni, sembra procedere da anni a gonfie vele, rivelatasi talmente forte da far chiudere le precedenti storie di entrambi. Scamarcio in effetti, dopo il lungo rapporto con la Golino, ha lasciato la manager Angharad Wood, come anche la Porcaroli con Michele Alhaiquee, regista conosciuto sul set di Baby.

Tuttavia, sorvolando le vite private degli attori, Piccioni decide di ambientare la storia d’amore tra Luciano e Anna in un periodo particolare della storia italiana, ossia quello dell’emanazione delle leggi razziali e della dichiarazione di guerra, periodo di tensione in cui ormai sembrava esser certo un eventuale nuovo conflitto e periodo in cui gli ebrei vivevano nascosti nella paura di essere deportati nei campi di sterminio.

Il film descrive quest’atmosfera di pericolo, seppur ambientato quasi interamente all’interno del ristorante, attraverso il sentimento dei due protagonisti, due anime sole che si trovano a riscoprire emozioni che credevano ormai perse.

Nonostante possa risultare a tratti lento per qualcuno, L’ombra del giorno è dunque una visione piacevole che ci riporta indietro nel tempo facendoci vivere un momento di terrore accompagnato però da dimostrazioni di bontà, altruismo e coraggio, che ci mostrano come anche in situazioni cosi tragiche l’amore rimane l’unico appiglio a cui aggrapparsi e, in fondo, l’unica cosa che ci salva.

Virginia Porcelli




La nascita della fotografia

Quant’è facile, per tutti noi oggi, scattare una fotografia?
Basta prendere in mano il nostro smartphone, aprire la camera… et voilà.

Con un solo tocco possiamo immortalare per sempre (ed in digitale!) qualunque momento della nostra vita.
Ma per arrivare a sviluppare questa tecnologia ce n’è voluto di tempo… ma quanto, precisamente?

L’origine della fotografia non sta nella macchina fotografica.Bensì, possiamo ritrovarla in quella che per secoli è stata utilizzata dai pittori di tutto il mondo: la camera oscura.
Il primo a darci notizie su questa camera oscura è Aristotele nel IV secolo a.C.
Viene chiamata “camera” proprio perché agli albori era così, una camera buia, che grazie attraverso un piccolo foro applicato in una parete permetteva all’immagine esterna di proiettarsi nella parete opposta, ma capovolta.

Con il passare dei secoli la camera è diventata una piccola scatola provvista di una parete inclinata che permetteva il ribaltamento dell’immagine.
Per questo non c’è da stupirsi dell’incredibile precisione e nitidezza dei dettagli di Canaletto! Egli faceva infatti uso della camera oscura.

Eppure, a distanza di circa un secolo da Canaletto, ecco che in una cittadina della Francia un certo Joseph Nicéphore Niépce passava le sue giornate a fare esperimenti con una camera oscura.
Il suo obiettivo, infatti, era di “fissare” le immagini proiettate.

Ed un giorno, su una lastra di stagno, dopo otto ore di posa, ecco che si concretizza la vista dal balcone di Niépce.
La prima fotografia della storia è questa: “Vista dalla finestra a Le Gras”, 1827.

Niépce, dopo questa scoperta, entrò dunque in società con Louise Jacques Daguerre, ma morì pochi anni dopo.
Nella nostra storia entra perciò un nuovo protagonista, il carismatico Daguerre, colui che oggi viene riconosciuto come inventore della fotografia.
Perché, infatti, fu il solo Daguerre, nel 1839, a presentare  all’Accademia della scienza di Parigi il famoso “dagherrotipo”.

Il primo dagherrotipo è del 1838, e si chiama “Boulevard du Temple”. A causa dei tempi di posa lunghissimi, le carrozze ed i passanti non restavano impressi sulla pellicola. Si vede solo un via vai di ombre… tranne un piccolo uomo al lato della strada.
O è rimasto così tanto tempo fermo a farsi lustrare le scarpe… oppure è lo stesso Daguerre che, sceso dal suo appartamento, è rimasto fermo per ore!

Ci sono alcune differenze di tipo tecnico che non staremo qui ad elencare, ci basti sapere che il nuovo congegno disponeva di una lastra di rame sensibilizzata con dei vapori di iodio: dopo l’esposizione alla luce, la piastra veniva inserita nella camera oscura e qui fissata attraverso delle soluzioni chimiche.

Dagli anni ’40 in poi è impossibile fermare lo sviluppo della fotografia: arriviamo così in Inghilterra, dove lo studioso William Henry Fox Talbot inventa la calotipia, con un processo di negativo/positivo.
Come funziona questo nuovo meccanismo? Molto semplice, al posto delle lastre di rame utilizzate da Daguerre, Talbot utilizza la carta!

Siamo così arrivati agli inizi del ‘900, quando nascono le macchine fotografiche che tutti noi conosciamo: nel 1902, la prima Reflex; nel 1917 la Kodak.
Sono macchine fotografiche economiche ed accessibili a tutti.
Rappresentano il primo grande cambiamento: se fino alla fine dell’800 la fotografia era di uso comune, certo, ma molto costosa e impegnativa in termini di durata di posa e di scatto, con la nascita delle prime macchine fotografiche (anche portatili) la fotografia diventa un mezzo espressivo inarrestabile.

Basti pensare all’utilizzo che se ne fa nell’ambito del giornalismo e della cronaca; nell’ambito dei viaggi e del turismo.
Insomma, si può parlare di un mondo che diviene globale.




Intersezioni. Terzo appuntamento al Museo Città di Pomezia – Laboratorio del Novecento

Prosegue il ciclo di mini-conferenze in collaborazione con C. Luzi e G.M.Bagordo

 

Il Museo Città di Pomezia – Laboratorio del Novecento propone per venerdì 18 marzo dalle 16.00 alle 18.30 il terzo appuntamento di , il ciclo di mini-conferenze a cura del Museo in collaborazione con C. Luzi e G. M. Bagordo.

Si parlerà del territorio pometino, ricco di testimonianze storico-artistiche e strettamente legato al mito di Enea, fino ad arrivare a Ovidio, alle e alla figura della dea Pomona.

L’ingresso è gratuito. La prenotazione è obbligatoria e l’accesso è contingentato e consentito solo con Green Pass rafforzato.
Obbligo di mascherina FFP2.

 

:
☎️0691146500
museocittadipomezia@comune.pomezia.rm.it
Piazza Indipendenza 11/12 Pomezia




Roma ieri come oggi

 

Appena dopo questa calda estate, Roma si troverà proiettata nel bel mezzo delle elezioni per il nuovo Sindaco.
Avvertiamo molto forte il turbinio di una lunga campagna elettorale che, volenti o nolenti, investe tutto il nostro Paese e ne stiamo già sentendo di tutti i colori sui difetti di una delle città più complesse del mondo da amministrare. Dunque, può giovare creare un po’ di distanza, fermarsi a respirare rievocando qualche aspetto della Roma dei primi secoli dopo Cristo. Ritroveremo sensazioni assai familiari, questo è certo…
Già: pensate che in epoca imperiale Roma era una città…  affollata e sporca, multirazziale e caotica, sfarzosa, ma poco raccomandabile, ricca e monumentale. Aggettivi familiari? – De ppiù! – (come si dice a Roma)

 

Vi invito a chiudere gli occhi ed entrare insieme a me per pochi minuti in quest’Urbe di circa 2000 anni fa, dalle mille facce: frenetica ma anche assai pigra, austera e tollerante, nobile e corrotta, sobria e gaudente. Troviamo gli stessi contrasti di una moderna megalopoli e ne faremo solo un piccolo assaggio.

Un milione e mezzo di abitanti brulica tra i monumenti pubblici e le grandi dimore private, in mezzo ad un mare di casupole affacciate su strade anguste e maleodoranti, gremite e chiassose di giorno ma semideserte e pericolose di notte.

Tutto sembra privo di criterio urbanistico e in questo disordine si affaccendano non solo tantissimi Romani: è notevole nella popolazione la componente etrusca, sannitica, italica in generale. Ma non mancano Galli, Iberi, Africani, Greci, Siriani, Egizi, Ebrei, Cilici, Traci, Sarmati, Germani, Etiopi.
Roma, meta di migliaia di viaggiatori e migranti, vero e proprio mito per molte popolazioni dell’Impero, non conosce il concetto di discriminazione razziale!
Ricchezza ed esuberanza trasudano dagli spazi pubblici: i Fori e i Templi.

Le grandiose piazze che sorgono al centro della città sono non solo la sede del governo e della giustizia, ma anche i luoghi in cui si concludono gli affari, si acquistano merci e generi alimentari, si incontrano amici, si discute, si partecipa a cerimonie e manifestazioni.

 

Accanto alle piazze sorgono le basiliche, imponenti edifici con decine di ambienti, dove si tengono comizi, letture, processi, ma anche dove trovano riparo migliaia di nullatenenti. (Il nostro termine basilica deriva da questi edifici e ha assunto per noi una connotazione prettamente religiosa).

Continuando a passeggiare notiamo come abbondino i templi, dai quali le divinità pagane dominano e tutelano la più popolosa Metropoli della Terra: la Roma imperiale!

 

Per immaginare l’aspetto dei Romani che danno vita a questo andirivieni cittadino, ci aiuta Pompei, sepolta dall’eruzione del 79 d.C. con tutti i suoi abitanti, con resti, affreschi e raffigurazioni.

Uomini e donne sono bassini, gli uni alti in media 1,66 metri e le altre 1,54. I primi pesano intorno ai 65 kg, le seconde circa 49. L’età media è di circa 40 anni… Le donne si sposano molto giovani, anche a 13-14 anni.

Torniamo alla folla: vogliamo sentire “realmente” la sua pressione? Ci viene in soccorso Giovenale, in una delle sue Satire:

“L’onda di gente che mi sta avanti mi ostacola, quella che mi sta dietro, mi preme alle spalle come una falange serrata” …

“qua uno mi dà di gomito, là mi colpisce duramente la stanga di una lettiga, uno mi sbatte in testa una trave…”.

 

Marziale poi ci rivela che a Roma gli inquilini possono quasi darsi la mano da un palazzo all’altro. E non ci è difficile immaginare questa situazione tra le “insulae”, veri e propri condomini a più piani, da cui deriva il nome dei nostri “isolati”.

 

 

In realtà si tratta di instabili alveari di 4 o 5 piani. Al pianterreno ci sono le botteghe, con un soppalco per l’abitazione del commerciante; sopra gli appartamenti, di 2 o 3 locali. Sono costruzioni prive di ogni comfort, calde d’estate e fredde d’inverno, ma costano un occhio della testa, anche in affitto…Frutto delle speculazioni delle classi agiate, le insulae sono costruite in prevalenza in legno e non di rado vengono divorate dalle fiamme, insieme ai loro occupanti.

 

Una caratteristica evidente della città, ieri come oggi, è il rumore, il frastuono…

 

Seneca, abitando sopra una struttura termale, ci fa arrivare il suo lamento:

”Mi circonda un chiasso, un gridare in tutti i toni che ti fa desiderare di essere sordo. Sento il mugolio di coloro che si esercitano affaticandosi con i pesi di piombo…. Quando poi arriva uno di quelli che non sanno giocare a palla senza gridare, e comincia a contare i punti fatti ad alta voce, allora è finita.

C’è il venditore di bibite, il salsicciaio, il pasticcere e tutti gli inservienti delle bettole, ognuno dei quali va in giro offrendo la sua merce con una speciale e unica modulazione di voce”

 

E di notte le cose non migliorano: ai mezzi che riforniscono la Roma dell’Impero è infatti vietato circolare di giorno (con rare eccezioni) per non rendere ancora più caotica la situazione. Così al calare del buio, la città, quasi del tutto priva di illuminazione, si riempie di carri e carretti. Come spesso accade, Marziale ci accompagna alla conclusione di questa breve passeggiata facendoci ridere:

”A Roma la maggior parte dei malati muore di insonnia, perché quale casa in affitto consente di dormire?”

 

 

 

Dott.ssa Maria Cristina Zitelli




La banca nell’antica Roma

Parlare di banca e di moneta oggi evoca un mondo finanziario complesso e spesso tortuoso, nel quale potresti facilmente perderti.

Eppure si tratta di concetti che ci appartengono e hanno accompagnato l’umanità da un certo punto dell’evoluzione sociale, senza abbandonarla più.

A Roma, sul Campidoglio esisteva, fin dal IV sec. a.C. il tempio di Giunone Moneta, l’Ammonitrice (dal verbo monére).

Circa un secolo dopo, nei pressi del tempio, venne edificata la prima Zecca (nella zona della basilica di Santa Maria in Aracoeli), proprio sotto la protezione di colei che ammonisce e desta l’attenzione di fronte ai pericoli.

Così il popolo iniziò a chiamare Moneta il tempio, la stessa Zecca e poi i pezzettini di metallo che vi si producevano.

Fin da allora il termine “moneta” cominciò a rivelare la sua vocazione ed è riuscito a mantenere vivo fino a noi quel profondo antico monito che si dovrebbe sempre affiancare al concetto di ricchezza, al fine di evitarne un uso distorto…

Va detto che la moneta antica era particolarmente vulnerabile, facile oggetto di abusi e frodi. Eppure essa rappresentò il mezzo di scambio internazionale più duttile ed efficiente.

Ogni barriera politica e geografica veniva superata dal potere d’acquisto delle monete anche fuori dai loro confini di emissione

In tale contesto si forma e si sviluppa la professione del cambiavalute, che si diffonde rapidamente dal mondo greco verso i centri più attivi commercialmente.

 

 

Una prima notizia della presenza di un cambiavalute (argentarius) nel Foro Romano risale alla seconda metà del IV sec. a.C.

Fin da allora si registra un’intensa attività commerciale e un cospicuo flusso di monete doveva passare di mano in mano. E’ un’epoca di crisi della vecchia società agricola e Roma si affaccia ai commerci mediterranei. Ecco che si ristruttura il Foro e molte taberne e botteghe si trasformano in uffici di cambiavalute, come testimonia Varrone.

Lo stesso Vitruvio, architetto e scrittore, illustra l’ideazione dei maeniana, ballatoi progettati da C. Maenius (318 a.C.),  sottolineando che i sottostanti portici erano utili per ospitare le attività gli argentarii.

Ed è facile immaginare il brulichio nel Foro, dove fervevano incontri d’affari, stipulazioni di contratti, rumorosi contenziosi…

Anche Tito Livio cita le tabernae argentariae in un Foro ormai divenuto autentico fulcro di affari economici internazionali. Intorno a tale potente fulcro si animava anche l’attività dei nummularii, esperti nel saggiare l’autenticità delle monete.

Gli argentarii giunsero a collocare le proprie mensae (tavoli, banchi) in tutti i luoghi dell’Impero: genti straniere garantivano un enorme afflusso e movimento di moneta e quindi lauti guadagni.

Una preziosa testimonianza della prosperità di questa categoria è l’Arco degli Argentarii, conservato in quanto incastrato tra le strutture esterne della chiesa di San Giorgio in Velabro, nei pressi della Bocca della Verità. Eretto in onore dell’Imperatore Settimio Severo, della consorte Giulia Domna e dei figli Caracalla e Geta, conserva una importante curiosità: il volto di Geta appare abraso, a testimonianza della damnatio memoriae cui lo sottopose, dopo averlo ucciso, il fratello Caracalla, la cui ambizione era essere imperatore unico e senza rivali.

 

 

Come sappiamo, la moneta antica aveva un valore intrinseco reale: argento, oro, bronzo avevano un’evidente differenza di valore commerciale che portò ad una loro specializzazione sociale. Alle grosse operazioni finanziarie si accedeva con oro e argento, mentre il bronzo, il rame e l’oricalco erano dedicati ai “vilia ac minuta commercia”.

 

L’archeologia ci fornisce un valido aiuto per capire i meccanismi di distribuzione, circolazione, attribuzione di valore delle varie monete, grazie al ritrovamento di vari “gruzzoli” di monete greche o dell’Italia antica restituiti dal sottosuolo. Si riscontra spesso, ad esempio, la presenza, in uno stesso gruzzolo, di esemplari provenienti da differenti centri. Era probabilmente una regola costante, per i più abbienti, maneggiare denaro “straniero”.

 

 

Monete in rame, bronzo o leghe sono nettamente distinte da monete di metallo nobile, spesso custodite o occultate come le argenterie e i gioielli.

Sappiamo che la moneta d’argento romana è il denario, il quale resterà per secoli alla base della monetazione successiva.

Testimonianza ultima del ruolo fondamentale rivestito da questo nominale è il nostro termine denaro, a dimostrazione del perpetuarsi della sua fama dal Medioevo ai giorni nostri.

Il denario traeva il suo nome dall’originario valore di 10 assi e mantenne tale nome, nonostante una rivalutazione, intervenuta in seguito, che lo equiparò al valore di 16 assi.

La sua emissione è da mettersi in relazione al forte impegno economico che Roma dovette sostenere per combattere contro i Cartaginesi.

Anche quando il denario non fu più emesso con regolarità, fu ancora usato come unità di conto.

L’ultima eredità del denario sopravvive nel nome arabo di una moneta, il dinar, coniato nel secondo decennio dell’VIII secolo, e spesso ancora utilizzato per indicare la propria moneta da diverse nazioni arabe.

L’aureo d’oro valeva 25 denari e non era frequentemente usato nelle transazioni comuni, a causa del suo alto valore: si pensa, ad esempio, che fosse usato per pagare gratifiche alle legioni alla salita al potere di un nuovo imperatore.

L’aureo era approssimativamente dello stesso formato del denario, ma più pesante a causa della più alta densità dell’oro.

Generalmente, si ritiene che il vero e proprio aureo sia stato emesso nel 49 a.C. da Giulio Cesare, raffigurante la testa di Venere o della pietà al diritto.

Prima di Giulio Cesare l’aureo, quindi, è stato battuto molto raramente, solitamente per grandi versamenti provenienti dai bottini catturati.

Costantino I introdusse il solido (solidus) nel 309: ecco l’origine del nostro termine soldi.

Il solido si diffuse soprattutto nell’Impero d’Oriente.

In quel periodo nell’Impero d’Occidente si assiste a una lenta decadenza e, incredibile a dirsi, dai fasti delle monete, del denaro, dei soldi si fece spazio l’antico metodo del baratto…

 

 

Dott.ssa Maria Cristina Zitelli




Il cinque maggio. Bicentenario della morte di Napoleone Bonaparte

5 maggio 1821 – 5 maggio 2021

 

A duecento anni dalla morte di Napoleone niente di meglio che ricordare l’ode di Alessandro Manzoni Il cinque maggio visto che i posteri, cui spetta, l’ardua sentenza siamo proprio noi.

Studiata, amata e odiata, almeno le prime righe dell’ode manzoniana è ricordato a memoria da tantissimi di noi:

 

Ei fu. Siccome immobile,

Dato il mortal sospiro,

Stette la spoglia immemore

Orba di tanto spiro,

È curioso sapere che Alessandro Manzoni compose in soli tre giorni questo famosissimo componimento che rievoca la figura di Napoleone Bonaparte partendo proprio dalla sua morte avvenuta all’isola di Sant’Elena il 5 maggio 1821.

Tematiche centrali dell’ode sono la grandezza e la sconfitta di Napoleone lasciando proprio ai posteri l’ardua sentenza di valutarne le gesta.

 

Bonaparte valica il Gran San Bernardo Dipinto di Jacques-Louis David

Bonaparte valica il Gran San Bernardo Dipinto di Jacques-Louis David

 

 

In occasione del bicentenario della sua morte ecco alcuni eventi tra i tanti che sono stati organizzati in diverse città italiane.

 

  • Fu vera gloria? Evento promosso da Manzoni POP in programma sulla piattaforma Google Meet il 5 maggio ore 21:00. Per inscrizioni inviare una email all’indirizzo tekaedizioni@gmail.com
  • Su Rai Storia martedì 4 maggio alle ore 21.10 è in programma il docufilm che lo celebra, dal titolo “Ei fu. Vita, conquiste e disfatte di Napoleone Bonaparte” realizzato dallo storico Alessandro Barbero con Davide Savelli per la regia di Graziano Conversano.
  • “Fu vera gloria? Ai posteri l’ardua sentenza” l’Università degli Studi dell’Insubria di Varese organizza un processo online dove l’accusa è rappresentata da Alberto Tedoldi, professore nell’università di Verona e la difesa affidata a Paolo Luca Berbardini, ordinario di Storia moderna. Poi ci sarà la corte e il pubblico che voterà da remoto con un apposito form. L’evento è in programma per mercoledì 5 maggio alle 17,49 a libera partecipazione sulla piattaforma Teams al seguente link https://www.uninsubria.it/processo-napoleone.
  • Intenso programma di iniziative all’isola dell’Elba, luogo dove l’Imperatore trascorse dieci mesi. Sul sito http://www.visitelba.info/napoleone-2021/ trovate il calendario costantemente aggiornato, con escursioni, concerti e meeting dai luoghi dove era solito passeggiare alle diverse residenze dove soggiornò fino al cibo che amava gustare.

E non potevamo esimerci da offrirvi la possibilità di leggere l’ode Il cinque maggio rinviando ancora per un po’ la sentenza di giudicare un imponente condottiero della storia europea e lasciandoci andare solo alla bellezza dell’ode del grande Alessandro Manzoni.

 

Il cinque maggio

 

Ei fu. Siccome immobile,

dato il mortal sospiro,

stette la spoglia immemore

orba di tanto spiro,

così percossa, attonita

la terra al nunzio sta.

muta pensando all’ultima

ora dell’uomo fatale;

nè sa quando una simile

orma di piè mortale

la sua cruente polvere

A calpestar verrà.

lui folgorante in solio

vide il mio genio e tacque;

quando, con vece assidua,

cadde, risorse e giacque,

di mille voci al sonito

mista la sua non ha:

vergin di servo encomio

e di codardo oltraggio,

sorge or commosso al subito

sparir di tanto raggio:

e scioglie all’urna un cantico

che forse non morrà.

Dall’Alpi alle Piramidi,

dal Manzanarre al Reno,

di quel securo il fulmine

tenea dietro al baleno;

scoppiò da Scilla al Tanai,

dall’uno all’altro mar.

Fu vera gloria? Ai posteri

l’ardua sentenza: nui

chiniam la fronte al Massimo

Fattori, che volle in lui

del creator suo spirito

più vasta orma stampar.

La procellosa e trepida

gioia d’un gran disegno,

l’ansia d’un cor che indocile

serve, pensando al regno;

e il giunge, e tiene un premio

ch’era follia sperar;

tutto ei provò, la gloria

maggior dopo il periglio,

la fuga e la vittoria,

la reggia e il tristo esiglio:

due volte nella polvere,

due volte sull’altar.

Ei si nomò: due secoli,

l’un contro l’altro armato,

sommessi a lui si volsero,

come aspettando il fato;

ei fe’ silenzio, ed arbitro

s’assise in messo a lor.

E sparve, e i dì nell’ozio

chiuse in sì breve sponda,

segno d’immensa invidia

e di pietà profonda,

d’inestinguibil odio

e d’indomato amor.

Come sul capo al naufrago

l’onda s’avvolve e pesa,

l’onda su cui del misero,

alta pur dianzi e tesa,

scorre la vista a scernere

prode remote invan;

tal su quell’alma il cumulo

delle memorie scese!

Oh quante volte ai posteri

narrar se stesso imprese,

e sull’eterne pagine

cadde la stanca man!

Oh quante volte, al tacito

morir d’un giorno inerte,

chinati i rai fulminei,

le braccia al sen conserte,

stette, e dei sì che furono

l’assalse il sovvenir!

E ripensò le mobili

tende, e i percossi valli,

e il lampo de’ manipoli,

e l’onda dei cavalli,

e il concitato imperio,

e il celer ubbidir.

Ahi! forse a tanto strazio

cadde lo spirito anelo,

e disperò: una valida

venne una man dal cielo,

e in più spirabil aere

pietosa il trasportò;

e l’avviò, per floridi

sentier della speranza,

ai campi eterni, al premio

che i desideri avanza,

dov’è silenzio e tenebre

la gloria che passò.

Bella Immortal! Benefica

Fede ai trionfi avvezza!

scrivi ancor questo, allegrati;

chè più superba altezza

al disonor del Golgota

giammai non si chinò.

Tu dalle stanche ceneri

sperdi ogni ria parola:

il Dio Che atterra e suscita,

che affanna e che consola,

sulla deserta coltrice

accanto a lui posò.




Il Museo Lavinium apre le porte

La Cultura non si ferma

 

Il Museo Civico Archeologico Lavinium, riapre le sue porte al pubblico con i seguenti orari:

Martedì: 9.00-13.00 e 15.00-18.00
Mercoledì: 9.00-13.00
Giovedì: 9.00-13.00 e 15.00-18.00
Venerdì: 9.00-13.00
Sabato, domenica e festivi: 10.00-13.00 e 16.00-19.00 solo su prenotazione obbligatoria entro il giorno precedente.

 

L’area archeologica è visitabile il martedì, il giovedì e il fine settimana con la nostra guida!

Visite guidate su prenotazione obbligatoria

Info. e prenotazioni:
06 91984744
museoarcheologicolavinium@gmail.com

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Natale di Roma: 21 aprile

XXI aprile 753 a.C., la fondazione di Roma

 

Eccolo, Romolo, un ragazzo forte, nel fiore degli anni: sembra di vederlo, i muscoli tesi nel governare l’aratro di bronzo, cui ha aggiogato un toro e una vacca bianchi.

Il vomere penetra la terra sul colle Palatino, nell’atto di tracciare il profondo solco di fondazione della nuova città che sta nascendo,

Sudato, il fondatore si è vestito con il cintus gabinus, una veste sacra, secondo la tradizione proveniente dall’antica Gabii, centro sito al XII miglio della via Prenestina.

Seguiamo la testimonianza di Tito Livio: individuata l’area della fondazione, sulla sommità del Palatino, Romolo parte da nord-ovest, procedendo in senso antiorario verso sud-est e tracciando un solco, ai lati del quale stabilisce l’area del pomerium, lo spazio sacro nel quale vengono fatte ricadere le zolle man mano estratte dall’aratro.

Le prime mura di Roma sono una sorta di cerchio magico che protegge la città e la rende inviolabile.

Per questo, in corrispondenza delle porte, Romolo solleva l’aratro, così da interrompere il cerchio, rendendo accessibile la città soltanto attraverso quei passaggi.

Una volta terminato il rito, ecco avvicinarsi Remo, il gemello che ha dovuto cedere, perché il fondatore deve essere uno solo.

Come ci ricorda la tradizione, egli osa sfidare il fratello violando la regola sacra e scavalcando il solco. Per questo Romolo lo uccide.

Il destino fatale di Roma nasce con un delitto e procederà nella storia fondando le premesse della sua immortalità, della quale anche noi oggi possiamo dirci testimoni.

 

 

Il giorno del Natale di Roma, tramandatoci dalla tradizione, è il 21 aprile dell’anno 753 a.C..

Molti studiosi pensarono per secoli che questa fosse una data simbolica e che la fondazione fosse solo una leggenda creata a tavolino quando Roma era già grande.

Ma se fosse stata una data simbolica, perché scegliere proprio il 21 aprile? Probabilmente sarebbe stato più logico scegliere, per esempio, un giorno del mese di marzo, in cui iniziava l’anno nel più antico calendario romano.

Oggi si propende invece per la storicità di quella data, ritenendo che sia stata scelta proprio per realizzare il famoso solco, con tutto il rito di fondazione, avvenuto in un solo giorno.

Una testimonianza a supporto di questa ipotesi è fornita dagli importanti scavi archeologici svolti dal prof. Carandini presso il Palatino, dove sono state ritrovate evidenti tracce della sacralità riconosciuta nei secoli al luogo del primo tracciato realizzato in età romulea (metà dell’VIII sec. a.C.).

Carandini ricorda che, in tempi antichissimi, proprio in quei giorni di aprile si celebrava sul colle Palatino la festa della dea Pales, legata ai riti di fecondazione e riproduzione, al fiorire della primavera, alle nuove nascite. Un tempo propizio per una nuova fondazione…

Ritorniamo dunque alla storia di Romolo e Remo e, saltando indietro di fotogramma, ritroviamo i gemelli a osservare il cielo e il volo degli uccelli, perché siano gli dei con i loro segnali a indicare chi dei due sarà il fondatore della nuova città.

La scelta cade su Romolo, che riceve segnali di gran lunga più favorevoli.

Il giorno 21 aprile, sul Palatino Romolo svolge dunque il rito di fondazione, in un’unica giornata, come momento primigenio di Roma.

 

Siamo a metà dell’VIII sec. a.C.: in questo periodo vengono fondate molte città in area mediterranea, secondo un rito che dà forma di città ad agglomerati di piccoli popoli già precedentemente stanziati nel territorio di riferimento.

Allo stesso modo, prima di Roma, è attestata per secoli una rilevante presenza di abitati sui colli, nonché una forte frequentazione del guado del Tevere costituito dall’Isola Tiberina.

Quindi Romolo fonda Roma sul Palatino creando un luogo di riferimento sacro e civile per le genti stanziate nel territorio, che riconosceranno entro quella piccola area la propria identità, i propri dei, l’autorità comune da cui farsi guidare. Un primo vero Stato.

 

E ancor oggi, da circa XX secoli, nei giorni intorno al 21 aprile, a mezzogiorno, si può assistere a Roma, dentro il Pantheon, a un effetto speciale ante litteram: il sole entra nel celebre oculus alla sommità della cupola, con un’inclinazione tale da creare un fascio di luce che cade perfettamente sul portale d’ingresso.

 

 

In antico, la magniloquente scenografia permetteva, a quell’ora esatta, una straordinaria visione: l’imperatore che varcava la soglia del tempio immerso nella luce.

Si perpetua così ancor oggi uno dei sogni luminosi dell’imperatore Adriano: glorificare Roma nel giorno della sua fondazione, facendo giocare l’architettura del Pantheon con il volgere eterno della luce solare.

 

Dott. Maria Cristina Zitelli

Elaborazione grafica immagini Cesare Restaino




Il Colosseo e la ruota del pavone

Pennellate su Roma e dintorni

 

Gira gira e fai la ròta…

Un’antica, tradizionale serenata dedicata a Roma ce la fa immaginare come un meraviglioso pavone, inconsapevole della sua stupefacente bellezza mentre fa la ruota, desideroso di andare in amore con la pavoncella che lo sceglierà…

E dunque, persi tra le sfumature dei colori, noi Itineranti corriamo col pensiero a un fulcro, a un punto fermo, a un degno aggancio da cui intraprendere l’impossibile narrazione di tanta bellezza, di tanta storia.

 

Moneta Gordiano III con riproduzione dell’Anfiteatro Flavio

 

Certo, ogni aspetto, anche minuscolo, che abbia a che fare con il multiverso romano può tranquillamente rappresentare l’inizio di un viaggio: uno dei ganci più efficaci è senza dubbio il Colosseo. Sì, l’Anfiteatro Flavio, detto anticamente Amphitheatrum Caesareum o solo Amphitheatrum.  Solo dal X – XI secolo, in pieno Medio Evo, fu denominato Coliseum e la zona veniva chiamata “Rota” (pensa un po’, come la ruota del nostro pavone…) o Regio Colisei.

Il “colosso” da cui deriva questo nome era un’enorme statua di bronzo dedicata a Nerone (37 – 68 d.C.), quando il nostro anfiteatro ancora non esisteva.

Esattamente al suo posto, si trovava un grande lago artificiale che riempiva un’enorme conca: passeggiando accanto al Colosseo, avremmo camminato sott’acqua!

Questo lago costituiva una delle “delizie” della Domus Aurea, la straordinaria dimora voluta da Nerone sul colle Oppio, congiunta al Palazzo imperiale sul colle Palatino proprio per mezzo del lago. Il Colosso di Nerone troneggiava accanto al lago con i suoi 35 metri d’altezza…

Alla morte dell’imperatore, ritenuto ormai solo un folle tiranno, si decretò la sua damnatio memoriae, ovvero la cancellazione di ogni cosa che ne ricordasse l’esistenza.

La zona cambiò rapidamente faccia grazie agli imperatori Flavi, Vespasiano e i suoi figli Tito e Domiziano.

Fu Vespasiano, dal 70 d.C., a intraprendere un’opera davvero faraonica, facendo prosciugare il lago e costruire il primo anfiteatro stabile di Roma, come un dono per i romani che, usciti da un’epoca buia, avrebbero potuto ormai divertirsi con gli “spectacula” loro preferiti, come i ludi, i giochi gladiatorii e le venationes, le scene di caccia e combattimento con veri animali, spesso esotici.

E il colosso di Nerone? Venne intitolato al dio Sole e l’imperatore Adriano nel 135 volle che venisse trasportato nella valle, accanto all’anfiteatro, il quale risultava solo un po’ più alto della statua. Nei secoli successivi si cominciò ad attribuire al monumento il nome Colosseo, storpiato in Colyseus.

 

 

Il luogo più famoso dell’antica Roma meriterà molte volte l’attenzione di noi Itineranti: mille sono gli argomenti di cui parlare intorno a questo, che è uno dei siti più illustrati e raccontati del mondo.

Eppure, incredibilmente, va detto che è anche uno dei monumenti meno esplorati dalle ricerche archeologiche e scientifiche. Questo dipende da molti motivi, che lo rendono “fragile” per il decadimento dei materiali costruttivi, sottoposti nel tempo a innumerevoli incendi, terremoti, violazioni, spoliazioni. Un limite è inoltre rappresentato dalle delicate condizioni idro-geologiche della valle in cui esso sorge.

Il Colosseo rappresenta una vera metafora dell’antico e della vicenda umana, attraverso l’identificazione con la fortuna di Roma e del mondo intero.

Un’antica e famosa profezia, riportata a noi da Beda il Venerabile, monaco, storico e santo anglosassone vissuto tra il 672 e il 735, recita così:

Quamdiu stabit Colyseus

Stabit et Roma

Quando cadet Colyseus

Cadet et Roma

Quando cadet Roma

Cadet et mundus

 

(Finché resterà in piedi il Colosseo, resterà in piedi anche Roma; quando cadrà il Colosseo cadrà anche Roma e quando cadrà Roma cadrà il mondo.)

 

E si dice che lo stesso Dante Alighieri, di cui ricorre nel 2021 il settecentenario della morte, si ispirò al Colosseo per l’elaborazione e la rappresentazione dei gironi infernali.

La ruota del pavone si chiude ora, come un sipario, sullo spettacolo dell’anfiteatro, sul quale torneremo di sicuro, più e più volte, con le nostre pennellate.

 

Dott. Maria Cristina Zitelli




CUORE DI DONNA ETRUSCA

In occasione della Festa della Donna dell’8 marzo scopriamo la donna nella civiltà etrusca.

 

La società etrusca colpiva gli osservatori contemporanei, in particolare quelli greci.

Li colpiva lo stile di vita delle classi aristocratiche, la ricchezza e il lusso, i meravigliosi gioielli che impreziosivano acconciature e vesti.

Ma ancor più li stupiva il comportamento eccezionalmente libero delle donne etrusche.

Infatti, nella generalità delle testimonianze riguardanti le antiche civiltà, la donna appare come subalterna all’uomo, dedita alla generazione dei figli, alla casa, alla filatura, a un comportamento morigerato, a una vita silenziosa e quasi invisibile.

Invece le donne etrusche partecipavano attivamente alla vita sociale, spesso sapevano leggere e scrivere, potevano essere titolari di attività economiche, mantenevano il patronimico (nome del padre) anche da sposate.

 

Sarcofago degli Sposi da Cerveteri. Elaborazione grafica di Cesare Restaino

Sarcofago degli Sposi da Cerveteri, presso Museo Etrusco di Villa Giulia

 

La più nota iconografia etrusca, dalle tombe dipinte, alle sculture, alle decorazioni vascolari, testimonia vivacemente questa realtà, raccontata da storici e scrittori greci e romani per manifestare ai posteri il loro grande scandalo a fronte di tanta libertà femminile.

Un simile contesto si riferisce in particolare al ceto benestante etrusco.

Pensiamo per esempio agli affreschi tombali di Tarquinia: mostrano per lo più scene di vita nobile e spensierata in cui donne raffinate ed eleganti partecipano insieme agli uomini a sontuosi banchetti.

E i corredi funebri femminili del ceto aristocratico ci restituiscono oggetti eccezionalmente ricchi e preziosi.

Le iscrizioni funebri ci parlano di donne dotate di nome proprio (Larthia, Thesathei, Velelia…), fatto davvero straordinario se si pensa che a Roma le donne, fino alla tarda età repubblicana, venivano denominate esclusivamente con il nome della gens, ovvero della famiglia alla quale appartenevano (Iulia, Claudia, Cornelia…Nella famiglia, poiché il nome femminile era sempre lo stesso, era necessario distinguere le donne aggiungendo  Maior, Minor, Prima, Secunda…).

Le testimonianze relative alla straordinaria posizione della donna etrusca si riferiscono in particolare al mondo italico del VI e del V secolo a.C., in connessione con la vigorosa ondata di benessere economico che interessò l’area dell’Etruria propriamente detta (Toscana, alto Lazio e Umbria).

Con il IV secolo a.C. la condizione sociale della donna etrusca perse gradualmente la sua autonomia e regredì assimilando i modelli di vita greci e romani, con i quali i contatti erano diventati sempre più intensi.

Danzatrice dalla Tomba dei Giocolieri

Danzatrice dalla Tomba dei Giocolieri

 

Le nobili donne etrusche dedicavano molto tempo alla cura della loro bellezza, come lasciano immaginare alcune iscrizioni e le testimonianze iconografiche.

Usavano specchi, strumenti di vario tipo e bellissimi unguentari; amavano vestire elegantemente, evidenziando le loro belle forme e indossando elaboratissimi e ricchi gioielli.

Molto varie e articolate sono le pettinature testimoniate nei ritratti nel VI secolo a.C.: lunghe trecce pendevano sul seno e sulle spalle delle donne, mentre in seguito troviamo l’uso di raccogliere i capelli in una reticella o in ciocche spesse e tirati all’indietro.

Consorti di uomini importanti, nobili, ricchi, colti, queste erano donne evolute, che uscivano spesso di casa, non rinunciavano a stare al fianco dei loro mariti, amavano i piaceri della vita, i banchetti raffinati, musica e danza.

Si dedicavano anche alla tessitura e la filatura, come testimoniano pesi di telaio, fuseruole e rocchetti, facendosi piacevolmente aiutare dalle ancelle.

Alcuni morsi di cavallo ritrovati nei corredi femminili lasciano immaginare anche un’autonomia di movimento della donna etrusca, che forse viaggiava senza essere necessariamente accompagnata.

Ritorniamo alle fonti storiche che ci parlano del mondo etrusco: sono fonti greche e romane che osservano e riportano tutto alla luce della loro morale.

Nella società greca e in quella romana, le uniche donne ammesse ai banchetti erano le meretrici e tali vengono considerate le donne etrusche da storici scandalizzati, come il greco Teopompo, vissuto nella metà del IV secolo a.C..

Velca, dalla Tomba dell’Orto a Tarquinia

 

Ecco poche frasi estratte dal racconto di quest’ultimo:

“… Esse (le donne etrusche) curano molto il loro corpo facendo esercizi sportivi da sole o con gli uomini. Non ritengono vergognoso comparire in pubblico nude, stanno a tavola non vicino al marito ma vicino al primo venuto dei presenti e brindano alla salute di chi vogliono, sono forti bevitrici e molto belle da vedere.”

In molti corredi tombali femminili sono stati ritrovati i calici, le brocche e gli altri utensili caratteristici del simposio, il banchetto in cui si beveva insieme: questa era un’usanza tipicamente greca, riservata esclusivamente agli uomini, mentre gli etruschi rappresentano tranquillamente anche le donne nella loro piena partecipazione alla festa accanto agli uomini.

E’ davvero affascinante immaginare un mondo così diverso, così autonomo nel contesto delle civiltà italiche, dotato anche di una lingua molto diversa da quelle dei popoli limitrofi.

Un quadro che continua ad alimentare un certo mistero che avvolge questo popolo, una nebbia che, attraverso ampi studi e ricerche, va diradandosi sempre più, svelandoci una tenera e inattesa familiarità con questi nostri antenati.  Per questo possiamo addirittura sentirci “Etruschi nel cuore”(*).

 

(*) Titolo del libro che scritto da Maria Cristina Zitelli e Cesare Restaino, pubblicato su Amazon.

 

 

Dott. Maria Cristina Zitelli
Fotografie: elaborazione grafiche di Cesare Restaino




Perché Febbraio si chiama così?

Febbre, maschere e mascherine

Nel calendario romano più antico, febbraio era l’ultimo mese dell’anno, che iniziava a marzo, momento di risveglio della natura e degli uomini al suono delle armi del dio Marte.

Febbraio era dunque dedicato alla purificazione e alla preparazione di un nuovo ciclo, di un nuovo inizio.

In verità, l’origine del suo nome non è poi tanto nascosta… Ebbene sì: come in un gioco, possiamo rinvenire facilmente tra le sue lettere la parola febbre!

Occorre premettere che nell’antica Roma ogni aspetto della vita, anche il più piccolo, era sotto la protezione di una specifica divinità: ci sono quindi decine e decine di culti per noi quasi sconosciuti ma molto praticati dal popolo. Ad esempio, la dea Numeria tutelava e contava i mesi della gravidanza,  la dea Edula aveva in custodia le carni commestibili e la loro conservazione, il dio Redicolo proteggeva il ritorno dai viaggi.

E veniamo così alla dea Febbre, in latino Februa o Febris, che origina probabilmente da Februus, un dio antichissimo etrusco-italico ed è legata alla purificazione dalle febbri, in particolare da quelle malariche.

 

Febbraio – Mosaico dal Museo Archeologico di Sousse

 

In virtù della potenza purificatrice che si attribuiva al fenomeno della febbre, si è concretizzato nel nome Februarius il legame con questa fase dell’anno, segnata da una serie di riti e di feste molto caratteristiche.

Una festa in particolare merita la nostra attenzione: il 15 febbraio si festeggiavano nell’antica Roma i Lupercalia, una solennità celebrata dai Luperci, giovani e giovanissimi romani consacrati, di solito abbigliati con pelli di lupo, in onore della Lupa che aveva allattato i gemelli Romolo e Remo.

Frammento di rilievo con Luperci dal Museo Nazionale Romano

Nel corso della festa essi si raccoglievano nel Lupercale, una grotta ai piedi del colle Palatino, dove sacrificavano un gran numero di capre, tagliavano le pelli in lunghe strisce, dette februa, e poi si slanciavano seminudi in una folle corsa agitando queste fruste e colpendo tutti coloro che incontravano.

Le donne desiderose di gravidanza si esponevano ai colpi, certe del potere del rito, che propiziava la fecondazione.

Nella fase finale dell’Impero romano, quando ormai il Cristianesimo dominava, vari vescovi tentarono di sopprimere l’antica consuetudine pagana, ma nulla si poteva contro la tenacia dei Senatori, i quali attribuivano le pestilenze e ogni altro danno al fatto che si trascurasse la festa dei Lupercalia. La solennità era talmente radicata nella vita dell’antica Roma che si perpetuò anche nei secoli tardi, fino all’anno 468.

Infine pare che il rito sia stato abolito dal papa Gelasio ma tuttora lo si può riconoscere probabilmente nella processione con le candele del giorno della Candelora, il 2 febbraio.

L’evocazione di tali riti ancestrali dal fascino unico ci conducono a considerare legami insospettati tra la febbre e l’infiammazione rossa e calda lasciata dai colpi di februa, le strisce di capra usate come fruste.

E’ poi molto suggestivo pensare alla nostra modernità e al fatto che proprio a febbraio soprattutto capita di venir colti dalle influenze di stagione e da quelle purificanti sudate al caldo del letto.

A proposito: quanta nostalgia per… la solita influenza!

Oggi, immersi come siamo nell’atmosfera pandemica, viviamo mille inibizioni che ci precludono gli abbracci e ci impongono le mascherine.

Mascherine e maschere di Carnevale…

Febbraio è anche il mese delle tipiche atmosfere carnevalesche, che oggi possiamo godere a metà.

Ed emerge, forte più che mai, un desiderio di purificazione, di guarigione sociale, di annientamento del virus, per tornare a danzare scatenati, liberi e senza maschera.

Dott.ssa Maria Cristina Zitelli




A Carnevale ogni svago vale

In programma dall’8 al 13 febbraio 2018, la manifestazione ‘Carnevale Pometino 2018’ prevede spettacoli ed eventi sul territorio. Dalle origini antiche, il carnevale offre sempre spazio per divertimento e dissolutezza per tutti

 

Superati i timori per l’annullamento dei festeggiamenti per mancanza di fondi, i cittadini di Pomezia possono tornare ai loro preparativi per il carnevale. La 42° edizione della manifestazione ‘Carnevale Pometino 2018’ è in programma per le vie della città nel periodo dall’8 al 13 febbraio 2018, con spettacoli, intrattenimento, bande e gruppi folkloristici secondo il seguente calendario:

8 febbraio – Apertura festeggiamenti carnevaleschi

10 febbraio – Spettacoli ed eventi di intrattenimento

11 febbraio – Sfilata di Carnevale

8 e 10 febbraio – Carnevale nei Quartieri

13 febbraio 2018 – Sfilata di Carnevale e chiusura festeggiamenti con Re Carnevale

Per l’occasione i bambini potranno travestirsi e trasformarsi nell’eroe del film o del cartone animato che preferiscono. Dai costumi intramontabili di anni fa come astronauti e fatine, oggi i più piccoli vogliono vestirsi da Batman, Spiderman, da varie ‘principesse’, tra cui Elsa di Frozen, e Masha l’amica di Orso.

Le origini del carnevale sono antiche; si celebrava già ai tempi dei greci in onore di Dioniso dio dell’ebrezza e degli eccessi e degli antichi romani che lo dedicavano al dio Saturno, rovesciando l’ordine sociale che lasciava spazio a svago e dissolutezza. Nel Medio Evo si ritrovano molti aspetti carnevaleschi simili a quelli dei giorni nostri con scherzi, divertimento, grandi abbuffate e l’uso di carri allegorici con cui i signori esibivano tutta la loro grandezza. In Italia, nel Settecento, maschere e costumi di carnevale usati dai teatranti e commedianti  portarono alla nascita della commedia dell’arte; le maschere  servivano a mistificare la propria identità, mettersi nei panni di qualcun altro magari solo per un banchetto o per un ballo. Con il passare dei secoli il carnevale ha raggiunto un aspetto più giocoso e pagano, con manifestazioni e parate di carri allegorici sparse nel mondo come quella famosissima di Rio de Janeiro in Brasile, o quelle di Venezia e Viareggio in Italia, tra le più rinomate.

Tra le maschere che caratterizzano le zone geografiche della nostra penisola la più rappresentativa è Pulcinella, napoletana,  che rappresenta l’uomo antieroe e irriverente; tra le altre Balanzone,  bolognese sapientone, Rugantino, romano strafottente, ma di indole buona, il fiorentino Stenterello, impulsivo e ingegnoso ed Arlecchino da Bergamo, stravagante, che non ama lavorare, ma far ridere con le sue battute.

La parola carnevale (dal latino carnem, levare) significa togliere la carne. Astinenza dal mangiare carne che deriva dalla religione cattolica, in quanto con i festeggiamenti del martedì grasso, che chiudono il carnevale, inizia  il digiuno per i cattolici.

Svagatevi e buon carnevale!