LA MORTE DELLA LUNA di Silvia Zaccari

La morte della luna

di Silvia Zaccari

tratto dall’antologia Voci Nuove 6

a cura di Daniele Falcioni

edito da Rapsodia edizioni

 

“Deve essere più spaventosa. Cerca di inarcarle di più la bocca, come se stesse facendo un ghigno. Guarda. Con lo scalpello segna le rughe sulle guance e sotto gli occhi, così”.

Il padre di Carla diede un colpo sul pezzo di legno levigato, poi un altro e un altro ancora. Così facendo, scolpì su quel volto rigido un’espressione terrificante.

 

Erano le otto di sera quando Carla prese il bus. Di solito usciva prima dal magazzino dove lavorava con il padre. Facevano maschere di legno per spettacoli teatrali.

Carla salì sul bus con un’insolita ansia, ma non le diede peso, o meglio, pensò che fosse a causa della consegna che avevano l’indomani: una compagnia teatrale molto famosa sarebbe andata da loro a provare le maschere per la messa in scena de La morte della luna.

A testa bassa fece cadere gli spicci nel bussolotto, strappò il biglietto e andò verso il retro del bus a sedersi vicino a un signore. L’uomo, sulla sessantina, corpulento, indossava un cappello nero molto ingombrante e una giacca color prugna di velluto. Era freddo, quella sera, ma non così tanto, pensò Carla. Mise le mani nella borsa per prendere il libro che stava cercando di finire da tempo. Fu subito interrotta: “Signora, lo sa che questo autobus non si fermerà?” disse l’uomo con il cappello nero.

“Perché?” rispose lei.

“Perché non c’è nessuno che lo guida e nessuno che può fermarlo”.

Il tizio non si voltò a guardarla e fece una risatina compiaciuta, quasi maligna. Carla si sporse per osservare il posto di guida, ma non riuscì a vedere nulla. Sembrava però che nessuno stesse guidando il bus. Impallidì e si alzò di scatto.

“Non può fare niente, signora. È così ogni volta”.

“Ogni volta?”

“Certo. Ogni volta che lui decide di entrare”.

“Lui chi?”

“Beh, lui…” disse l’uomo, e diresse lo sguardo verso il posto di guida.

Carla si guardò intorno.

“Lei ha deciso di salire, nessun altro lo ha fatto. Siamo soli. Avrebbe dovuto essere più accorta. Ormai è tardi”.

Carla strinse le mani attorno alla tracolla della borsa.

“Senta, lei sta solo cercando di spaventarmi. Non so perché, ma è proprio quello che sta facendo. E poi non credo a quello che dice”.

“E allora perché si è subito sporta per controllare che ci fosse davvero qualcuno alla guida?” disse l’uomo con il cappello nero.

Carla si era innervosita. Decise di scendere. Si mosse verso la parte anteriore del bus, dove le luci erano spente e si riflettevano i fanali delle auto che correvano in strada. Passo dopo passo, iniziò a mettere a fuoco la cabina, il volante, parte del sedile, ma non riusciva ancora a vedere l’autista.

“Signora, torni a sedersi. Non può scendere, non può uscire ormai. Lei ha deciso di salire, e lui prima di lei”.

Carla fece finta di non averlo sentito. Arrivata accanto alla cabina di guida, vide una specie di massa scura fluttuante sopra il sedile. Si mise la mano sulla bocca e fece un passo indietro. La mano si spostò velocemente dalla bocca alla tasca della borsa, in cerca del cellulare. Qualche secondo e Carla aveva già digitato il numero del padre.

“Pronto?”

“Papà, non c’è nessuno, non posso scendere! C’è solo un uomo, ma dice che non si fermerà!”

“Che stai dicendo, Carla? Calmati!”

“Sono sul bus per tornare a casa, ma quell’uomo dice che non si fermerà!”

“Ma che vuol dire? Quale uomo? E perché mai il bus non dovrebbe fermarsi?”

“Papà, non c’è nessuno alla guida del bus!”

Carla sentì una presenza alle sue spalle, poi vide una grande ombra sul vetro. Dietro di lei, l’uomo con il cappello nero era fermo e guardava fuori, come se avesse intenzione di scendere.

“Mi scusi se l’ho messa in allarme, ma lei non uscirà di qui” disse l’uomo, e fece di nuovo quella risatina maligna, che gli segnò le guance. Rivolse lo sguardo verso il retro del bus e suonò il campanello per prenotare la fermata.

“Ha detto che non si sarebbe fermato, mi ha presa in giro!” disse Carla.

“Affatto. Io scenderò comunque” disse l’uomo, e cercò di farsi spazio fra lei e la cabina. Il bus non rallentò.

“Carla, ci sei? Carla?” diceva intanto il padre al cellulare.

Improvvisamente la porta anteriore si aprì con un tonfo, mentre il bus viaggiava veloce. Un forte vento sbatté Carla contro la cabina. Il cellulare cadde sul marciapiede.

L’uomo con il cappello nero saltò giù e sparì nel buio.

 

Carla cercò di rialzarsi. Aveva sbattuto la testa e teneva gli occhi chiusi per il dolore.

“Signora, tutto bene?”

La donna si aggrappò al corrimano e si tirò su.

“Signora, tutto bene? Ha bisogno d’aiuto?”

Carla si voltò verso quella voce e vide un uomo seduto al posto di guida, con una bella giacca azzurra e la camicia color prugna.

“Ehm… no, la ringrazio. Sto bene…” rispose, e andò a sedersi al primo posto libero.

Il bus era abbastanza affollato e tutti la guardavano.

“Mi scusi, signora, a quale fermata deve scendere?” le chiese subito il ragazzino che le sedeva accanto.

Carla rimase in silenzio. “Io dovrei scendere alla prossima” disse il ragazzino.

Carla fece un cenno con la testa, come per dire che aveva capito, ma non fiatò. Passò qualche minuto e il bus iniziò a rallentare. Carla non si mosse.

“Signora, scende anche lei?” le chiese il ragazzino. Carla non aprì bocca, lo guardò e si voltò di nuovo davanti a sé.

Il bus era quasi fermo e il ragazzino si alzò in piedi.

“Signora, dovrebbe alzarsi. Io devo scendere!”

Carla finalmente si alzò, ancora frastornata. Il ragazzino le passò davanti, corse verso la porta centrale e scese. Carla si rimise a sedere e lo seguì con lo sguardo. Non riusciva a capire cosa stava succedendo e, per di più, non ricordava dove era diretta.

Si mise a guardare fuori dal finestrino. Le luci dei lampioni e delle auto correvano veloci. All’interno del bus le voci della gente si mischiavano al rumore del motore. Qualcuno aveva aperto una busta di patatine dietro di lei. Una risata accanto, poi uno starnuto.

Pian piano le voci iniziarono a spegnersi. I rumori stavano cambiando in un modo strano, quasi inquietante. All’improvviso ci fu silenzio. Carla stava ancora osservando fuori. Tutto sembrava normale. I suoi occhi, però, misero lentamente a fuoco il riflesso sul vetro dei passeggeri seduti sul bus: i loro corpi erano svaniti e decine di volti galleggiavano sopra i sedili, avvolti da una strana nebbia. Carla prese coraggio e guardò alle sue spalle. “Non è possibile, sto impazzendo” disse a bassa voce.

Si rese subito conto che conosceva bene quei volti: erano tutte le maschere che fino a quel giorno aveva realizzato con suo padre. Premette il pulsante per prenotare la fermata e si alzò. Il bus continuava la sua corsa, senza rallentare.

“Mi scusi, dovrei scendere!” disse.

L’autista sembrava non sentire. Carla raggiunse la cabina per bussargli al vetro. Alzò la mano, ma la ritrasse subito. La massa nera fluttuante era di nuovo al posto di guida. Come prima, Carla mise la mano nella borsa per prendere il cellulare. Frugò per qualche secondo, ma niente. Guardò all’interno. Rovistò ancora. Niente. Prese la borsa e la capovolse. Cadde di tutto, ma del cellulare nessuna traccia.

“Mi faccia scendere, la prego!” urlò, ma non ebbe alcuna risposta.

Si rese conto che un rumore ovattato le stava facendo vibrare le orecchie: erano le maschere che si erano messe a pulsare ininterrottamente. Sembravano dei grandi cuori di legno. Carla indietreggiò impaurita. Si mise in ginocchio e si coprì la testa con le braccia, come per proteggersi.

 

“Avanti, Gabriele, muoviti!”

“Mamma, non riesco a passare!”

“Non farmi arrabbiare, Gabriele, non c’è nessuno davanti a te!”

“C’è una signora”.

Il bambino si spostò, guardando la madre.

“Accidenti, signora, ha bisogno d’aiuto?”

Carla era ancora in ginocchio. Non riusciva a muoversi. Non voleva alzare la testa e aprire gli occhi.

L’autista, allora, uscì dalla cabina e provò a tirarla su per un braccio.

“Avanti, si tiri su. Ha battuto la testa?”

Carla non rispose.

“Signora, vuole che chiami un’ambulanza?” disse l’autista.

Carla lo guardò senza dire una parola.

“Se vuole possiamo chiamare un familiare. Se mi dà il numero, posso chiamarlo con il cellulare della ditta”.

Carla fece cenno di no con la testa. L’autista tornò a sedersi. Le passarono accanto per scendere la mamma e il bambino, che la fissava incuriosito.

“Come ti chiami?” le chiese il bambino.

Carla sgranò gli occhi.

“Signora, come ti chiami?” continuò lui. Carla non seppe rispondere: non ricordava il suo nome.

La mamma e il bambino scesero. Il bus ripartì e Carla si mise a sedere.

Il quadrante di un orologio da polso attirò la sua attenzione: le otto e quattordici. Era trascorso così poco tempo da quando aveva lasciato il magazzino?

Fuori era buio. Tutti i negozianti, ormai, avevano abbassato le serrande, e la città si preparava ad addormentarsi.

Una fermata, poi la seconda, la terza e così via. Carla rimase sul bus fino al capolinea.

“Signora, questa è l’ultima fermata. Le conviene scendere, perché poi vado a parcheggiare il bus alla rimessa” le disse l’autista.

Carla fece di no con la testa.

“Come vuole. Io però poi non posso accompagnarla da nessuna parte, sono le regole. Ok?”

Carla lo guardò per un attimo e poi si voltò di nuovo verso il finestrino.

 

La rimessa, una struttura simile a un grande chalet di legno, si trovava alle pendici di una montagna scura. Nessun caseggiato nelle vicinanze, solo qualche lampione ad illuminare il piazzale. Il bus si avviò verso il parcheggio numero 14, rallentò e si fermò.

“Signora, siamo arrivati. Ora spengo il motore e le luci, altrimenti non posso andarmene a casa, e gli addetti non possono pulire” disse l’autista.

All’esterno non c’era alcun segno di movimento.

“Dovrebbe scendere, signora”.

L’autista, rassegnato, alzò gli occhi al cielo e girò la chiave nella toppa. Le luci divennero piccoli cerchi neri una dopo l’altra, poi si spense il motore.

“Signora, se non scende adesso rimarrà qui dentro al buio, almeno finché non arrivano quelli delle pulizie. Io me ne vado a casa”.

L’autista prese le sue cose, mise il lucchetto alla cabina di guida e scese, lasciando aperta la porta anteriore. Carla non si mosse. Aveva lo sguardo rivolto alla montagna scura.

 

Non si ricordava da quanto tempo stava camminando, ma Carla non riusciva più a sentire le dita delle mani e dei piedi. La sua borsa era rimasta sul bus. I rami degli alberi, sempre più fitti e scuri, le avevano graffiato il cappotto all’altezza delle spalle e dei fianchi. Era stanca, ma continuava a salire. Non vedeva niente davanti a lei. Ogni tanto, però, riusciva a scorgere la luna fra i rami.

“Dove sei?” disse Carla sottovoce. Strizzò forte gli occhi per mettere a fuoco qualcosa. “Dove sei?” ripeté. Il silenzio e l’oscurità la avvolgevano passo dopo passo.

Un fruscio. Guardò di lato, poi in alto. Un barbagianni lasciava la montagna, diretto a valle.

“Dove sei?” continuava ogni tanto a ripetere mentre camminava.

All’improvviso inciampò in qualcosa di grande e cadde a terra, battendo la testa.

Riaprì gli occhi poco dopo, o così le parve.

“Sei tu?” disse.

Strusciò le mani sulla terra, in cerca di qualcosa. Si spostò carponi verso il punto in cui era inciampata. Le mani tastavano il terreno: piccoli sassi, aghi di larice, pigne, un insetto, ancora sassi e terra. Aghi. Le mani si fermarono su qualcosa di grande, simile a un tronco. Carla mise entrambe le mani su quella cosa e continuò a tastarla. Niente corteccia. Avvicinò il viso. Niente odore di resina, piuttosto un odore acido, quasi di marcio. Si allontanò, ma non staccò le mani.

Quella cosa si mosse appena, lentamente, su e giù, come un polmone stanco. Carla rimase immobile. L’odore si fece molto più intenso. Lei non si mosse, ma la cosa sì, e stavolta le sembrò di avvertire anche una specie di mugolio. Le tremavano le mani per la paura e qualcosa le stava bagnando sempre di più: era qualcosa di viscido. Scivolò e cadde su quella strana creatura, che si divincolò e sparì un attimo dopo, come risucchiata dal terreno.

Carla cercò di pulirsi le mani e il viso, ma quell’odore nauseante era ormai ovunque. Si alzò e riprese a salire.

 

Forse erano passate un paio d’ore da quando Carla aveva ripreso il cammino.

Si voltò a destra, verso la cima della montagna: una piccola luce fiammeggiava più in alto. Carla poggiò le mani sulla roccia che la separava da quella fiammella e si diede una spinta puntando i piedi. Iniziò ad arrampicarsi sulla roccia.

“Finalmente!” disse una voce baritonale.

Carla alzò la testa e vide una sagoma scura e imponente sopra di lei.

“Ti stanno aspettando tutti. Credevano che non saresti più venuta” disse la sagoma scura.

“Tutti?” disse Carla.

“Proprio strana sei. Avrebbero dovuto scegliere un’altra”.

“Scegliere? Chi? Per cosa?”

La sagoma scura si avvicinò alla fiammella. Un grande cappello nero sovrastava il suo ghigno, che Carla era sicura di avere già visto.

“Proprio non ricordi? Sono venuti per te, su questa montagna. E lui è venuto a prenderti proprio questa notte”.

L’uomo con il cappello nero si volse a guardare alle proprie spalle, ma Carla non riuscì a vedere nulla. Un senso di nausea le bloccò la gola: quell’odore pungente era di nuovo vicino. La fiammella si fece più grande, e una grossa risata la mosse da un lato e dall’altro.

“Allunga la mano verso la fiamma” disse a Carla l’uomo con il cappello.

Carla si sporse in avanti e fece come le aveva detto. La luce si spense. Al suo posto comparve una sassifraga bianca e brillante, come di quarzo.

“Raccogli un fiore e annusalo” le disse l’uomo, indicando la sassifraga.

Carla si abbassò, fino a raggiungere uno dei fiori. Lo prese e lo portò al naso. Chiuse gli occhi e respirò a fondo. Un turbine d’aria si sollevò da terra, poco distante da loro, e una risata grassa e cavernosa le fece subito riaprire gli occhi.

“Stanno arrivando!” disse l’uomo con il cappello nero. Il suo ghigno si fece più pronunciato.

“Cos’è quel vortice denso che viene verso di noi?” chiese Carla.

“Vedrai! Lo vedrai molto presto! Ah ah ah” fece l’uomo.

Il vortice si avvicinava. Carla, sempre più impaurita, strinse il fiore che aveva fra le dita. Lo stelo si spezzò e il fiore cadde sulla roccia.

“Venite, fratelli! Venite!” urlò l’uomo con il cappello nero.

Una luna sempre più grande sbiancava adesso il cielo sopra di loro. Carla alzò gli occhi, come in cerca di aiuto. La nube era ormai dietro le spalle dell’uomo con il cappello nero. Carla iniziò a tremare. Chiuse gli occhi per un istante. Quando li riaprì vide decine di maschere che le volteggiavano intorno, mentre la nube iniziava ad offuscare la luna.

“Prendetela, fratelli! Vostra madre è qui. Adesso è vostra!” disse a gran voce l’uomo con il cappello nero.

Le maschere divennero color carbone, quasi invisibili nel buio della notte, schiarite appena dalla nube che le circondava. Si avvicinavano lentamente a Carla, costringendola ad arretrare: la stavano schiacciando contro la roccia. Carla fece un passo indietro, poi un altro. Era in trappola.

Una coltre di maschere di legno scuro si chiuse sopra di lei. La nube scomparve lentamente. La luna prese il colore della notte e fu buio per sempre.

 

 

 

 

 

 

 

 

 




GENERAZIONE DI TOPI di Silvia Zaccari

Generazione di topi

Silvia Zaccari

in Voci Nuove 7, a cura di Daniele Falcioni, Rapsodia

Era seduto nella solita caffetteria. Quattro pareti di vetro perimetravano il locale e c’erano coperte ammucchiate all’entrata, sotto un tavolino di metallo. Dal soffitto scendevano lampadari di carta, come pianeti lattei appesi a un cavo d’acciaio.
Aveva scelto uno dei posti al centro del locale, alla fine di una lunga tavolata. Non era la prima volta che gli capitava di pensare che altri, estranei probabilmente, si sarebbero seduti proprio accanto a lui, come a una classica cena di Natale.

“Le posso portare qualcosa da bere?” chiese la cameriera.
Non l’aveva sentita arrivare: evidentemente le scarpe di gomma sul parquet erano state silenziose come gocce d’olio su una superficie di legno. Lui si voltò verso sinistra, guardando il bancone coperto di farina. Le fiamme del forno riflettevano sul carrello dei dolci.
“Un americano, per favore” rispose.
La telecamera di videosorveglianza seguiva intanto ogni movimento all’interno del locale, incrociando spesso la luce che rifletteva sul carrello. Fuori svolazzavano sciarpe e i passanti scalpitavano. Rumore di tazze e profumo di cannella all’interno.
Albert si sentì avvampare, forse a causa del forno o delle vetrate, che lasciavano entrare il tepore del sole ma non l’aria fredda. Tolse il maglione. Una donna urtò il tavolino di metallo entrando nel locale. Fece dondolare l’acqua nelle caraffe di vetro poggiate sopra. Albert osservò le foglie di menta e le fette di limone che galleggiavano sull’acqua. Spostò lo sguardo su di lei e si soffermò subito su qualcosa che brillava in mezzo ai suoi lunghi capelli grigi. “Non posso crederci” disse Albert a bassa voce.
Lei si voltò come se stesse cercando qualcuno, e incrociò lo sguardo di Albert. Si diresse verso di lui.
“Ero sicura di trovarti qui. Non sei cambiato di una virgola”.
“Lo sai bene, io non sono come te. Da dove torni? O dove stai andando stavolta?”
Lei si tolse la sciarpa, poggiò a terra uno zaino abbastanza logoro ma di ottima fattura, poi si mise a sedere di fronte a lui.
“Torno da Bruxelles. Tredici giorni a rincorrere un politico fuori di testa che vive in un quartiere con diciassette caseggiati perfettamente uguali. In un’intervista ha dichiarato che ha scelto di vivere in quel posto perché lo fa sentire uno dei tanti. Ma che diavolo ha in mente questa gente?”

“Ahahah, sei tremenda. Quindi… un nuovo reportage?”
“Beh, sì. Mi hanno contattata alla fine dell’estate e sono volata in Belgio direttamente da Cape Town”.
“Ti posso offrire qualcosa?” disse Albert, e fece un cenno con la mano alla cameriera, che si avvicinò al tavolo. La donna ordinò un earl grey e un paio di biscotti alla cannella.
Erano passati una decina di mesi dall’ultima volta che si erano visti. Stare insieme era stata un’esperienza molto forte per Albert, ma non era convinto che fosse stato lo stesso per lei: una donna sicura di sé, più grande di lui, con uno stile di vita travolgente come una bufera su una costa nordica.
“Ma che ci fai qui? Perché sei venuta a cercarmi?” riprese Albert.
“Wow, che tono serio. Non volevo infastidirti, volevo solo farti vedere cosa ho trovato in Sud Africa” rispose, e tolse dai capelli quello che poco prima Albert aveva visto brillare.
“Beh?” disse lui.
“Come beh? È uno di quelli, no?!”
Arrivò il tè in un istante, accompagnato da un piccolo bricco di latte e dall’aroma di cannella. Lei ringraziò la cameriera e versò un po’ di latte.
Albert prese in mano il fermaglio d’argento che lei gli aveva mostrato. Era senz’altro molto antico, ma faticava a credere che appartenesse alla collezione che il bisnonno gli aveva lasciato. Un solo posto era rimasto libero all’interno del cofanetto. Albert non sapeva se il fermaglio fosse stato rubato o perso, ma di sicuro era interessato a ritrovarlo.
“E tu credi sia proprio quello?” le chiese.
“Questo devi dirmelo tu. Io ho solo pensato ti potesse interessare”.
Albert continuava a girarselo fra le mani, mentre lei sorseggiava il tè. A un tratto le squillò il cellulare. Posò rapidamente la tazza e mise la mano nella tasca del cappotto, che non aveva ancora tolto. Si alzò e andò verso l’uscita.
Albert la vide parlare per qualche secondo, poi lei rimise il telefono in tasca e si diresse veloce verso di lui.
“Devo scappare!” gli disse.
“Ma come? Non finisci neanche quello che hai ordinato? Roba da matti”.
“Non posso proprio, scusami”. Raccolse la sua roba, gli diede un bacio sulla guancia e se ne andò quasi di corsa.
Albert rimase per qualche secondo a guardare la porta che si era chiusa dietro di lei. Per l’ennesima volta lo aveva lasciato con l’amaro in bocca: era sempre stata così sfuggente, a volte quasi imperdonabile.

Quando Albert scese dal taxi era ancora accigliato. Ringraziò l’autista e chiuse lo sportello dell’auto nera: un classico taxi britannico dalla forma bombata. Si diresse verso le scale che scendevano al suo appartamento, ovvero il basement di una casa georgiana scurita ad ogni angolo. Mise la chiave nella toppa e subito sentì una voce dall’interno: “Albert, vieni qua. Senti che roba!”

“Il corpo è stato ritrovato vicino al parcheggio sotterraneo in Belton Place. Le indagini della polizia sono subito iniziate”: la televisione parlava di una notizia dell’ultim’ora.
“Mike, adesso non posso” disse Albert al fratello, e attraversò il salotto. “Mike, questo tappeto lo devi buttare. Saranno due mesi che te lo dico. È talmente vecchio che ha cambiato colore, e ogni volta che devo andare in camera mia mi fa inciampare”. Il fratello neanche rispose. Continuava a seguire il notiziario in televisione. Albert entrò in camera.

Su uno scrittoio di legno scuro c’erano un’abat-jour, un cofanetto antico largo poco più di un palmo, un orologio da taschino, un portalettere a tre scomparti pieno zeppo e il suo portatile. Albert accese l’abat-jour e si mise una mano in tasca. Tirò fuori il fermaglio e lo appoggiò sullo scrittoio.

“Albert, devi venire. A me sembra di conoscerla quella tizia!”
Il fratello era appena comparso sulla soglia. Sembrava molto agitato.
“Arrivo” rispose Albert.
Il fratello tornò in salotto. Albert aprì il cofanetto e iniziò a osservare i fermagli d’argento. Erano tutti diversi, ma lui conosceva un minuscolo dettaglio che li accomunava. Si mise a sedere e prese una lente d’ingrandimento dal cassetto dello scrittoio.
“Se le trovo, allora vuol dire che è proprio lui” disse.
“Albert! Albert!” fece il fratello dall’altra stanza.
“Cristo santo, prima o poi lo strozzo. Un attimo!”
“No, Albert! Devi venire!”
Albert si alzò di scatto e raggiunse il fratello.
“Mi spieghi che cazzo hai da urlare? Sto facendo una co…”
“Il cadavere di Sarah McIntyre, fotoreporter di alcune note riviste di attualità britanniche, è stato ritrovato questo pomeriggio…” diceva la televisione.
Albert cadde a sedere sul divano. Gli sembrava di non sentire più bene la televisione o il fratello che gli chiedeva se fosse davvero quella Sarah. Si mise una mano sulla faccia e si piegò in avanti.

I notiziari ripetevano continuamente le stesse parole da due giorni. Albert non ne poteva più: voleva sapere cos’era successo. Quella mattina era seduto sul divano, lo stesso divano consunto in pelle nera su cui si era accasciato qualche sera prima.
Suonarono alla porta. Albert era solo e ci mise un po’ a raggiungere l’ingresso. Lo specchio accanto all’entrata era sempre più annerito e lui sempre più pallido. Si guardò per un istante, poi poggiò la mano sul pomolo opaco e aprì la porta. Due agenti di polizia dall’aria seria gli si pararono davanti.

“È lei il signor Albert Gregson?” fece uno dei due.
“Sì”.
“Possiamo entrare? Dovremmo farle qualche domanda”.
Albert si voltò e si diresse verso il divano. I due poliziotti lo seguirono. La luce del paralume accanto al divano illuminava appena i loro volti. Uno dei due poliziotti si guardò intorno e si fermò ad osservare le finestrelle in alto sulla parete alle spalle del divano. Era una giornata molto soleggiata, eppure filtrava pochissima luce. Si vedevano a malapena i soggetti dei quadri appesi, nonostante fossero quasi tutti di dimensioni notevoli. Uno però era luminosissimo. Raffigurava una scena di caccia alla volpe, ed era appeso sopra una grossa credenza in legno scuro, di fronte al divano.

“Come avrà sentito in televisione, è stato ritrovato il corpo di una donna, che ci sembra di capire fosse di sua conoscenza” disse il poliziotto.
“Sì”.
“Ci risulta che poco prima del tragico evento voi due abbiate trascorso del tempo insieme, in una caffetteria poco distante dal luogo del ritrovo”.

Albert era immobile, in piedi davanti al divano, e non accennava a sedersi né a invitare i due a farlo.
“Sì” disse.
“Potrebbe cortesemente dirci cosa ha fatto dopo che la signora…”, il poliziotto tirò fuori una specie di piccolo palmare e lesse: “Sarah McIntyre, dopo che Sarah McIntyre è uscita dal locale?”

“Sì”.
I due poliziotti attesero qualche istante. Poi quello che fino ad allora non aveva detto nulla si fece avanti: “Signor Gregson, dovrebbe essere abbastanza rapido e preciso, stiamo indagando sull’accaduto e non abbiamo tempo da perdere”.
Albert si mise a sedere sul divano.

“Sì. Quindi… sono uscito dal locale poco dopo di lei e ho camminato nel parco vicino alla caffetteria, forse per mezz’ora, poi ho chiamato un taxi e sono rientrato a casa. Erano le sei, più o meno”.
“Qualcuno può testimoniare quello che ha appena detto?” fece il poliziotto.

Si sentirono dei passi sulle scale esterne che davano accesso alla casa. I due poliziotti si voltarono e videro un uomo entrare dalla porta principale.
“Lui era a casa quando sono tornato. Può confermarvi l’orario del mio rientro. Per tutto il resto potete chiedere alla cameriera e al tassista” disse Albert. Il fratello chiuse la porta e si avvicinò senza dire nulla.

L’interrogatorio durò meno di dieci minuti. I poliziotti fecero qualche domanda al fratello e chiesero ad Albert di presentarsi in centrale il pomeriggio seguente, ma lui non aveva intenzione di farlo.

I poliziotti se n’erano andati da almeno mezz’ora. Albert e il fratello erano seduti sul divano. Il primo fissava il tappeto, l’altro si tormentava il pollice della mano destra.
“Mike, chiama quel tuo amico e vedi se riesci a farti dire qualcosa” disse Albert.
“Ma chi, Ian? Non ci parlo da secoli, che vuoi che mi dica?!”

“Almeno provaci. Sono sicuro che lavora ancora in quell’ufficio”.
Mike tirò fuori il cellulare dalla tasca dei jeans. Albert si alzò e si diresse in cucina. Aprì il frigorifero e fissò per qualche istante il ripiano centrale: era vuoto. Sul ripiano in alto c’erano invece una vaschetta di formaggio spalmabile, un barattolo di olive aperto da qualche giorno, crème fraîche e mezzo limone chiuso in un vasetto di vetro. Aprì il cassetto in basso e tirò fuori due peperoni rossi. Poi prese un barattolo di acciughe sottolio dallo sportello e le olive. “Albert, ho provato a chiamare ma non mi risponde” disse il fratello dall’altra stanza.
“Prova ancora!”
Albert prese una pentola dalla credenza, la riempì d’acqua fino ai manici e accese il fornello più grande. Ci poggiò sopra la pentola, poi prese una tavoletta e si mise a tagliare i peperoni. Diede uno sguardo all’orologio appeso sull’unica parete vuota della cucina: mezzogiorno meno dieci.
“Pronto, Ian?” disse il fratello. Albert si fermò e rimase in ascolto.
“Ciao, sono Mike. Mike Gregson. Scusa se ti disturbo, ma è proprio una cosa importante. Hai sentito la notizia di quella fotoreporter trovata morta pochi giorni fa?”
Albert deglutì, poi poggiò il coltello accanto alla tavoletta e rimase immobile a fissare le maioliche bianche e nere davanti a lui. Passò qualche istante. Silenzio.

“Sì, esatto” riprese il fratello. “Non so, magari sai dirmi qualcosa a riguardo?”
Di nuovo silenzio.
“No, certo che no. Capisco benissimo. Magari però potresti dirmi se c’è già qualche idea a proposito del…” stava dicendo Mike, ma Albert uscì dalla cucina e gli disse: “Chiedigli se sa la causa della morte”.
“Ian, sai per caso la causa della morte?”
Albert fissava il fratello come fa un malato con il dottore in attesa di sapere il nuovo dosaggio per la sua cura.
“Capisco. Un’arma contundente, quindi” disse Mike guardando Albert, e provò una specie di senso di colpa.
Albert abbassò lo sguardo e tornò in cucina. Strofinandosi il naso sentì l’odore dei peperoni sulle dita. Di solito gli piaceva, ma in quel momento provò un senso di nausea. Si lavò le mani, prese un contenitore e ci fece scivolare dentro le listarelle che aveva tagliato. Chiuse poi il coperchio e mise il contenitore in frigo, insieme alle altre cose che aveva tirato fuori. Il fratello ringraziò il suo amico al telefono, lo salutò e riagganciò.
“Mike, io non ceno. Spengo il fornello?” disse Albert. “Anzi, lascio così. Metti a posto tu se non mangi, per favore”.
“Ok, ok. Poi vedo” disse il fratello.
“Me ne vado in camera”.
Albert si buttò sul letto. Il suo viso era illuminato appena dal sole che filtrava dalla finestrella sopra lo scrittoio. Si girò dall’altra parte e si addormentò subito.

“Albert, io esco. Devo fare dei giri, se ti serve qualcosa mandami un messaggio. Albert, mi hai sentito? Sono le sette di sera, io esco” disse Mike.
“Mmm, lasciami stare. Meglio se dormo fino a domani. Meglio se dormo” disse Albert spostando il braccio che aveva sul viso.

Sentì i passi del fratello dirigersi fuori dalla camera e poi lungo il salotto, infine verso la porta d’ingresso.

Quando Albert si svegliò erano le undici passate. Buio pesto. Il braccio destro gli formicolava. Lo sfilò da sotto il cuscino e si mise seduto sul letto.
“Cristo santo, che cazzo di mal di testa. Mi ci voleva proprio” pensò.

Ricordò che aveva lasciato il fermaglio sullo scrittoio dalla sera in cui Sarah era stata trovata morta. Decise di dargli un’occhiata, giusto per capire se valesse la pena tenerlo. Si trascinò fino allo scrittoio e accese l’abat-jour.
Non impiegò molto a capire che il fermaglio era scomparso. Si mise una mano in tasca, in cerca del cellulare. Andò in salotto, accese la luce accanto al divano e vide che il cellulare era proprio lì, dove si era seduto quella mattina stessa.

“Mike, Mike, Mike” disse scorrendo l’elenco delle ultime chiamate. “Se l’ha preso lui mi incazzo proprio”.
Il cellulare suonava libero. Una, due, sei, dieci, quindici volte. Mike non rispondeva. Albert riagganciò, si infilò il telefono in tasca e andò in camera del fratello. Accese la luce spostando verso l’alto la levetta dell’interruttore.

“Che casino! Sembra ancora la camera di un ragazzino” disse. Scavalcò una catasta di vestiti e si avvicinò all’armadio di fronte a lui. Girò la chiave e aprì le ante di legno scuro. Sui ripiani c’erano abiti ammucchiati e oggetti di vario tipo: una sveglia rotta, carte da poker sparpagliate un po’ ovunque, scontrini, penne, un fermacarte piramidale di vetro, un cofanetto di legno. Albert prese il cofanetto e lo aprì. Dentro c’erano due piccolissimi dadi da gioco e delle pedine rotonde. Lo richiuse e continuò a cercare. Una sciarpa marrone, un paio di occhiali, due piccole monete provenienti da chissà dove, la foto del bisnonno sotto un accendino di madreperla. “Questo è mio! Che nervi” disse Albert, e si mise l’accendino in tasca.

Nessuna traccia del fermaglio. Si guardò intorno e andò a prendere lo sgabello accanto al letto. Lo piazzò davanti all’armadio e ci salì sopra. Da lì riusciva a vedere anche l’ultimo ripiano. “Almeno le coperte sono piegate” disse. Le spostò da un lato e notò una scatola nera di metallo, larga almeno due palmi. “E questa cos’è?” disse.

Afferrò la scatola e la fece scorrere verso di lui. Mise una mano sul coperchio per aprirlo, ma sentì dei passi: qualcuno stava scendendo le scale esterne. Controllò l’orario sul cellulare: era quasi mezzanotte.
“Dev’essere Mike” pensò. Spinse la scatola indietro e, dopo aver spostato le coperte, scese dallo sgabello e lo rimise a posto.

I passi si fermarono quando Albert era ormai davanti alla porta d’ingresso. Qualcuno suonò il campanello. Albert aprì la porta e si trovò davanti uno dei poliziotti che lo avevano interrogato quella mattina.
“Buonasera, dovrei farle un paio di domande” disse il poliziotto.

“A quest’ora?”
“Le dispiace se entro?” continuò il poliziotto.

Albert si fece da parte e vide il secondo agente scendere le scale. Quella mattina non aveva notato che era così alto. I due entrarono e Albert chiuse la porta.
“Non capisco. Ci siamo visti questa mattina” disse Albert.
“Signor Gregson, la polizia ha analizzato il filmato di videosorveglianza del locale dove lei ha incontrato la signora McIntyre. Prima di tutto, ci vuole dire il motivo del vostro incontro?” disse il poliziotto.

“In realtà mi trovavo lì per i fatti miei e lei è venuta a cercarmi per mostrarmi una cosa” rispose Albert.
“Una cosa?”
“Sì, un fermaglio d’argento che aveva trovato durante un viaggio in Sud Africa”.

“E perché voleva mostrarlo proprio a lei, signor Gregson?”
“Perché il mio bisnonno possedeva una collezione di fermagli d’argento abbastanza antichi, che ora appartiene a me. Manca un solo fermaglio nel cofanetto, e Sarah credeva potesse essere proprio quello che era venuta a farmi vedere alla caffetteria” disse Albert.
“Dal filmato risulta che la signora McIntyre indossava appunto un fermaglio quando è entrata nel locale. Quando è uscita, invece, non aveva più il fermaglio. Sa dirci il motivo?” chiese il poliziotto.
“Certo, lo aveva dato a me prima di uscire” disse Albert.
Nel frattempo il poliziotto più alto appuntava ogni dettaglio.
“Signor Gregson, in che rapporti era con la signora McIntyre?”
Albert si passò la mano fra i capelli e abbassò lo sguardo.
“Siamo stati insieme per cinque anni, tempo fa. Non la vedevo da quasi un anno”.
“Bene, signor Gregson. Dovrebbe consegnarci il fermaglio”.
Albert esitò un momento e si guardò intorno, come se stesse cercando qualcosa.
“C’è qualche problema?” disse il poliziotto.
“Mmm, no. Non proprio. Non so dov’è il fermaglio”.
I due poliziotti si guardarono, poi quello più alto si fece avanti.
“Signor Gregson, possiamo tornare con un mandato di perquisizione. Non ci faccia perdere tempo. Le diamo cinque minuti per calmarsi, prendere il fermaglio e consegnarcelo” disse il poliziotto.
Albert si sentiva andare a fuoco, era arrabbiato e agitato. Si tirò il collo della maglietta e piegò la testa da un lato, come per sgranchirsi il collo.
“Senta, io non ho bisogno di calmarmi. Dopo due giorni sono riuscito a chiudere occhio soltanto oggi pomeriggio, e sono stati due giorni di merda. Il fermaglio era qui. L’avevo lasciato

sullo scrittoio per dargli un’occhiata la sera che Sarah… quella sera. Oggi non c’è. Non c’è, e io non so dove sta. Qualcuno deve averlo preso” disse Albert, allargò le braccia e le lasciò ricadere, quasi senza controllo.
“Ok, se non vuole collaborare noi qui abbiamo finito. Torneremo con il mandato” disse il poliziotto, fece cenno con la testa all’altro e si voltò per andarsene.

“Vi ho detto che non so dov’è. Se non vuole collaborare… roba da matti” disse Albert.
I due poliziotti uscirono e chiusero la porta senza fiatare.
“Non ci posso credere, Cristo santo! Che cazzo di casino”.
Albert si lasciò cadere sul divano. Fissò il soffitto per qualche minuto, poi prese il telecomando e accese la televisione.

Il notiziario parlava di un fatto di cronaca: “Il corpo della vittima, un uomo di circa quarant’anni, non mostra segni di violenza. La polizia ha escluso il suicidio. Il cadavere è stato ritrovato lungo il canale questa sera intorno alle undici e trenta. Alcuni ragazzi hanno avvisato la polizia dopo aver visto il corpo vicino ad una siepe”.

“Che schifo di settimana, meglio se continuo a cercare quel dannato fermaglio” disse Albert, e tornò in camera del fratello.
Salì di nuovo sullo sgabello, tirò giù la scatola e la mise sul letto. Per un attimo esitò, si sentiva come se stesse facendo qualcosa di sbagliato. Ma in fondo aveva già frugato in mezzo alle cose del fratello, non era la prima volta. Mise le mani sul coperchio e lo sollevò. Il cellulare del fratello era lì dentro, insieme al fermaglio e a un passaporto. Albert non riusciva a capire perché il cellulare fosse chiuso in quella scatola, insieme al fermaglio.

Prese il passaporto, lo aprì e vide la foto e i dati del fratello. Lo rimise a posto. Poi prese il telefono e diede un’occhiata alle ultime notifiche: la sua chiamata e un messaggio da un numero sconosciuto. Aprì il messaggio: “Ci vediamo alle dieci al solito posto. Portalo stasera”.
“Ma chi diavolo è? In che casino ti sei messo?” disse Albert.

Scorse l’elenco delle chiamate in cerca di qualcosa che neppure lui sapeva. Oltre alla sua telefonata trovò soltanto chiamate ricevute da contatti di lavoro e da un amico di Mike che Albert conosceva bene. Tornò ai messaggi, ma la cartella conteneva soltanto quello che aveva letto poco prima. Guardò di nuovo le chiamate e scorse ancora verso il basso.

“E la chiamata che ha fatto a Ian? Era oggi. Perché non c’è?” disse Albert, passando nervosamente il dito sullo schermo.
Intanto il notiziario in sottofondo stava di nuovo parlando della notizia dell’ultim’ora: “Il corpo della vittima è quello di Mike Gregson, architetto della Broxburn&Co. La polizia indaga”.

Albert sgranò gli occhi e sentì un grosso nodo alla gola. Allargò il collo della maglietta, poi il cellulare gli scivolò di mano. “Non è possibile” disse, e si precipitò in salotto.
Il notiziario parlava ormai di un incidente sulla statale. Albert prese il telecomando e cambiò canale. Un altro notiziario era appena cominciato. La foto del fratello comparve sullo schermo, insieme ad alcune riprese fatte lungo il canale. Albert strinse forte il telecomando.

“Cristo santo! Cristo santo, Mike” disse.
Il cellulare squillò. Albert si mise la mano in tasca, tirò fuori il telefono e cercò di premere il tasto per rispondere, ma non riusciva a vedere bene. Si strofinò gli occhi e realizzò che in realtà il suono non proveniva dal suo cellulare. Rimase in ascolto. Si voltò di scatto e corse in camera del fratello.
Albert raccolse il cellulare di Mike da terra e guardò lo schermo: numero sconosciuto. Premette il pulsante per rispondere.
“Pronto?” disse.
Dall’altra parte ci fu un attimo di silenzio.
“Pronto? Chi sei?” disse Albert.
“Albert?!” disse una voce di donna.
“Ma come? Sarah?!”
“Albert, devi uscire da quella casa. Devi sparire!” disse lei.
“Sparire? Ma di che diavolo parli? Mike è morto! Tu… hanno detto che eri morta. Che cazzo sta succedendo?”
“Lo hanno ammazzato, Albert. Hanno ammazzato Mike. Devi sbrigarti. Lascia tutto lì e esci subito!” disse la donna.
Albert si guardò intorno.
“Io non lascio proprio niente! Chi ha ammazzato mio fratello?” disse.
“Mike si era messo in contatto con dei trafficanti di diamanti mentre io ero in Sud Africa” disse la donna. “Quando ha saputo del fermaglio, ha pattuito uno scambio, ma poi non ha rispettato gli accordi. Adesso esci da lì per favore”.
Albert si passò una mano fra i capelli. Trafficanti di diamanti, scambio di merci, accordi… suo fratello era solo un architetto!
“Albert, mi hai sentita? Esci da quella casa, e di corsa!”
Albert riagganciò, prese in mano il fermaglio e andò verso l’uscita.
Nello specchio annerito il suo riflesso si fermò per qualche istante, poi Albert allungò la mano e aprì la porta.

Sentì dei passi veloci sopra di lui. Si voltò verso le scale e vide una sagoma contro la luce del lampione, in cima alle scale.
“Sarah, che ci fai qui?” disse Albert.
La donna gli fece cenno di salire. Albert si girò e chiuse la porta alle sue spalle.

“Sbrigati, Albert!” disse lei sottovoce.
Quando Albert mise il piede sul primo scalino si sentì uno sparo. Sgranò gli occhi, rimase immobile per pochi istanti, poi cadde a terra. Riverso sul pavimento fra le scale e il portone di casa, l’ultima cosa che Albert vide fu il fermaglio che brillava nella notte, tra le sue dita sporche di sangue.

Foto di Christoph_mschrd

da Pixabay

 




Raccolta di racconti e poesie: Voci Nuove

Lavoro finale del corso di scrittura creativa di Daniele Falcioni

Quando la mia amica Silvia mi ha portato il suo regalo di Natale si capiva fosse un libro, ma non capivo quel sorriso sicuro che le illuminava il viso «Questo non c’è nella tua libreria, contaci!» e solo dopo averlo scartato ho gioito e compreso: il libro in regalo è l’ultimo volume Voci Nuove edito da Rapsodia Edizioni uscito a dicembre.
Non poteva farmi regalo più bello, perché nel libro ci sono anche i racconti e le poesie a firma Silvia De Felice.

Voci Nuove volume 7 è una raccolta di racconti e poesie frutto di un anno di duro lavoro di otto autrici che seguono da alcuni anni il corso di scrittura creativa di Daniele Falcioni ad Aprilia.
Un lavoro certosino, fatto di idee, tagli, revisioni, fogli accartocciati, cancellature e frasi trasportate da pagina in pagina che si è svolto da remoto, visti i provvedimenti di distanziamento dovuti al Covid-19 e anche perché il loro docente è insegnante di Lingua Italiana all’Università di Edimburgo.

Incisiva e toccante la prefazione al libro del docente Falcioni il quale, prendendo a prestito le parole di Gottfriend Benn, afferma come durante quest’anno lui, insieme alle sue autrici

 

Abbiamo vissuto qualcosa di diverso, pensato qualcosa di diverso da ciò che ci aspettavamo, e ciò che rimane è qualcosa di diverso da ciò che avevamo in mente

 

Ho avuto il piacere di leggere i racconti di Silvia De Felice quando ancora erano in fase di revisione ma la forza della sua capacità narrativa è così insita nelle parole utilizzate che, leggendoli ora inseriti in un libro, mi hanno fatto dimenticare completamente chi fosse l’autrice spingendomi ad arrivare fino in fondo ad ogni racconto catturata dal ritmo incalzante.
Ha prevalso il testo rispetto al legame e credo che questo sia quanto di più bello possa sentirsi dire chi scrive per il puro piacere di creare storie, perché non conta chi sia a narrarle ma la capacità che hanno le parole di far viaggiare il lettore.

Ho amato il profondo senso di amicizia tra Elisabeth, Arthur e John in “Adagio” e sono rimasta piacevolmente catturata dall’energia di “Avventura di un’estate” mentre non oso dare un giudizio sulle poesie inserite nel volume in quanto considero l’arte della poesia come qualcosa di estremamente personale, capace di innalzare l’animo o di passare senza alcun smottamento interiore in relazione allo stato emotivo del lettore.

Ci tengo a inserire i nomi di tutte e otto le autrici del volume in ordine alfabetico: Laura Avati, Martina Belvisi, Meri Borriello, Ninni Caraglia, Cristina Cortelletti, Silvia De Felice, Valentina Pucillo e Silvia Zaccari.

Voci Nuove è volume che merita di essere letto per la grande capacità narrativa delle autrici, ciascuno con un proprio stile e, proprio per questo, capaci di soddisfare e di raggiungere il cuore di diversi tipi di lettori.

Voci Nuove è disponibile nelle librerie di Pomezia e Aprilia e mi auguro che presto possa esserci l’occasione di una bella presentazione in presenza.