Venezia 73 – Sorrentino non delude, Mel Gibson si veste da pacifista

venezia73A più di una settimana dall’inizio della 73.ma Mostra D’Arte Cinematografica di Venezia, è già tempo di bilanci

di Martina Farci

Vi avevo lasciato con la curiosità di scoprire cosa poteva nascondersi dietro le prime due puntate della serie televisiva The Young Pope di Paolo Sorrentino con Jude Law. Ebbene, le altissime premesse non hanno deluso le aspettative, ma anzi hanno alzato l’asticella per il proseguo della serie.

Divertente, ironica, visivamente impeccabile, The Young Pope ci parla di un mondo, quello della Chiesa, molto contradditorio, con un ipnotico Jude Law nei panni di Papa Pio XIII, il primo americano della storia, tra sigarette, Coca Cola Zero e richieste assurde. Nel cast troviamo anche Diane Keaton e Silvio Orlando. E se ne avete l’occasione, non perdetela su Sky Atlantic dal prossimo 21 ottobre.

In concorso, poi, è stato presentato il sedicesimo film di Francois Ozon, “Frantz“, con Pierre Niney e Paula Beer. Elegante e in bianco e nero, l’opera racconta la storia di una giovane ragazza tedesca che, finita la prima Guerra Mondiale, si reca tutti i giorni sulla tomba del fidanzato morto. Lì incontra un ragazzo francese che piange anche lui un amico. Tra i due nasce un’amicizia, ma le ferite della guerra sono ancora troppo profonde per entrambi. Frantz, che ha trovato consenso unanime da parte di critica e pubblico, è uno dei favoriti per il Leone d’Oro, oltre a candidare i propri protagonisti per la Coppa Volpi per le migliori interpretazioni.

Chi invece non concorre per nessun premio, ma è stato ugualmente capace di emozionare con il suo nuovo film da regista, è James Franco, con In Dubious Battle. Ambientato durante la Grande Depressione americana in un campo di agricoltori che si occupano della raccolta della mele, il film si rivela una visione corale molto realistica su un periodo della storia che ha lasciato dietro di sé molte ferite, sia fisiche sia psicologiche. Ad imprimere discorsi coinvolgenti e, per certi versi attuali, ci pensano un convincete James Franco e un sorprendente Nat Wolff. Nel cast, oltre a loro, anche Josh Hutcherson, Selana Gomez e i camei di Bryan Cranston e Robert Duvall.

Potrei stare qui ancora ore a parlarvi dei film visti, perché sono davvero tanti. E come ogni anno qualcuno ti resta nel cuore, qualcuno purtroppo si dimentica facilmente e qualcuno ti fa pensare, come Hacksaw Rodge di Mel Gibson con Andrew Garfield nei panni di Desmond Doss, che a Okinawa, durante uno degli episodi più cruenti della Seconda Guerra Mondiale, salvò settantacinque uomini senza mai sparare un colpo di pistola.

Temi non sempre facili quelli affrontati quest’anno, ma che indubbiamente portano a più di qualche riflessione. Ora, però, sfidando la stanchezza degli ultimi giorni, bisogna guarda quel che resta, sperando in qualche gradita sorpresa. Poi, sarà tempo dei pronostici.

Martina Farci




La Grande Bellezza, Il “Napoletano a Roma” trionfa a Los Angeles

E così Sorrentino vince tutto! Dopo il prestigioso Golden Globe e il BAFTA britannico, “The Great Beauty” si porta a casa la statuetta che fu di Fellini, De Sica, Petri, Tornatore, Salvatores e Benigni.

Ma che film è? E come mai è così piaciuto alla critica internazionale?

Molto difficile sintetizzare e relegare dentro schemi prestabiliti questo film, così visionario eppur adeso alla realtà decadente e quasi di fine Impero moderno di Roma.

La grande bellezza” della Città Eterna, tutta sotto gli occhi di uno scrittore o pseudo tale, che tanti anni prima aveva scritto un romanzo di successo e con quel successo si era accaparrato un posto di primo piano nei salotti buoni della ricchissima società capitolina.

E la voce fuori campo, o in controcampo di Jep Gambardella, lo scrittore campano senza talento, riflette, sentenzia, calcola la giusta distanza tra il successo e l’eccesso, con quel sorriso sornione e svuotato, mostrandoci l’effimero in tutto il suo orrore.

Un “Napoletano a Roma” si direbbe parafrasando, che scivola tra feste e locali, tutti pieni  degli stessi ricchi viziati, con tutto intorno a questo mondo pessimi e pessimisti pseudo-artisti, drammaturghi, attori, scrittori del nulla e che cadono ai piedi di questo deprecabile pensatore sfaccendato.

La serie di viste da cartolina di Roma si dipana, si vola con pirotecniche di ripresa di grandissima qualità e di grande effetto, scollandosi via via dalla narrazione, a far da contraltare con tanta “grande bellezza” alla “grande miseria” dei suoi personaggi.

E la Roma vera? Dove si trova? Quella è sempre assente, forse secondo Sorrentino e Umberto Contarello, che hanno scritto il film, è solo appena accennata dietro le parolacce gridate al telefono da cafoni di passaggio, o nel sorriso incartapecorito di Antonello Venditti, che ci regala un cameo di inusitata tristezza.

Davanti a tutto c’è Jep e la sua visione dissacrata e posticcia di questa borghesia disfatta, due occhi i suoi, sfacciati e saccenti, che colpiscono senza pietà queste mezze figure, che sfoggia soldi e dissolutezze morali senza un minimo di amor proprio. Mezza tacca tra mezze tacche.

Sorrentino dopo i voli pindarici e molto apprezzati dell’America di “This must be the place” inciampa ad appena 200 km da casa, cercando di raccontare la caduta della Roma che conta, senza riuscire ad esser mai convincente.

La sua storia si aggroviglia fino alla contorsione, alla ricerca vana di un filo narrativo, per poi cadere sovente nel luogo comune, raccontandoci la penosa voglia di botulino di poveri cristi ricchissimi e fuori dal mondo, o le malcelate contraddizioni di uomini di chiesa, per poi concludere la dissertazione noiosa e saccente di Jep con un serafico (e prolisso) ritratto di una suora in odor di santità con il suo stuolo di parassiti di contorno.

grandebellezzaverdoneservillo grandebellezzalocandina grandebellezzaservillo

grandebellezzaservillo2Un film presuntuoso e pretestuoso dunque, che parte facendo il verso a Federico Fellini per poi inciampare nell’imitazione di Wim Wenders, diventando un piccolo tentativo scoordinato di creazione di un “Cult movie”.

Toni Servillo è sempre straordinario nella sua recitazione senza concitazione, che però diventa qui troppo auto referenziata, slegata quasi dal contesto, arrivando al paradosso di un film a servizio del suo attore principale e non il contrario come è d’obbligo nel Cinema. Le sue sigarette e i suoi silenzi compiaciuti sono sempre troppi, come di troppo sono gli ultimi 40 minuti di film, incensati di amore sacro, assolutamente profano.

Molti i personaggi di contorno, piccolissime apparizioni, quasi una ”isola dei famosi” tra alti e bassi, con Iaia Forte e Roberto Herlitzka molto a loro agio negli ondeggiamenti strambi della storia, mentre male malissimo Isabella Ferrari che come al solito finisce la sua performance in una camera da letto e Serena Grandi, su cui il regista indugia senza pietà disintegrandole quel poco di credibilità rimasta.

Carlo Verdone è bravissimo e al cospetto del pigmalione-Servillo regge il confronto, si cala molto bene nel ruolo drammatico e avvilito di Romano, commediografo senza arte nè parte, restituisce una grandissima prova d’attore togliendosi la maschera del comico, mentre lascia senza parole la triste Sabrina Ferilli, sempre fuori luogo, sempre senza vestiti, sempre senza espressione. Servillo prova a scuoterla, a rianimarla con i sali dell’arte, ma niente, la bambola ormai cresciuta rimane pur sempre imbambolata.

Fotografia bellissima di Luca Bigazzi, la “grande bellezza” si esprime soltanto cosi, visivamente, anche la musica è ricchissima, con Lele Marchitelli che scrive partiture romantiche e di grande respiro, che contrastano efficacemente i rumori delle feste mondane, ma tutto il film seppur ben confezionato tracima di saccenza, di prolissa deferenza verso se stesso e il finale che non arriva mai distrugge anche quel poco di appassionato che aveva mostrato nella prima parte.

Un film spiazzante, molto “Americano” e che infatti Cannes non aveva neanche notato, punendo forse quell’edonismo specchiato di un autore presuntuoso che però invece. ha conquistato l’Academy.