“Klimt. La Secessione e l’Italia”, in corso a Roma fino a fine marzo 2022

Alla scoperta del grande artista austriaco uno dei più significativi artisti della secessione viennese.

 

Gustav Klimt abita il nostro immaginario. Anche chi non è particolarmente esperto d’arte, al solo nome dell’artista sa evocare in sé immediatamente l’oro, la bidimensionalità, la passione, il talento, tutti elementi che lo contraddistinguono fortemente.

 

Gustav Klimt, Giuditta I
Foto da notiziarte.com

 

Precisiamo subito che la grandezza di Klimt trascende le immagini dorate che ne hanno decretato l’immensa fama e risiede soprattutto nel suo eclettico talento e nella sua instancabile ricerca del nuovo, che si esprimono in tutta la sua produzione, dai ritratti, alle allegorie, ai paesaggi, ai manifesti.

Certo, essere annoverati tra gli artisti più noti e “familiari” al grande pubblico non è poco, in quest’epoca di ricordi sommari e di memorie facilmente dilavabili in una sovrapposizione di immagini davvero velocissima.

Giova quindi fare quattro passi nel mondo di Klimt, la cui vicenda è incorniciata da Vienna, a cavallo tra fine ‘800 e inizi ‘900.

La città cambia volto proprio in quegli anni a opera dell’imperatore Francesco Giuseppe: fin dal 1857 egli avvia il progetto dell’abbattimento delle antiche mura – possente difesa contro i Turchi nel 1529 e nel 1683 – per costruire la grande strada alberata chiamata Ringstrasse, coronata dai più importanti edifici pubblici dell’intera Austria.
Il fermento è enorme e il centro storico è assai invitante per artisti attratti dai mille concorsi banditi per decorare le nuove architetture, con l’esplicito appoggio delle autorità. Vienna raggiunge in questi anni i due milioni di abitanti, è vivace e mondana, vive soprattutto una straordinaria fioritura culturale.

Tra caffè, circoli, sale da concerto, teatri, scuole e associazioni d’arte, circolano le idee più innovative e si celebra, non senza traumi, il tramonto di un’epoca e la nascita di un mondo nuovo.

Convivono e proliferano, in questo clima, personaggi come Freud, Wittgenstain, Mahler, Musil e moltissimi altri, che con le loro idee nutrono e stimolano la creatività degli artisti, e contribuiscono al montare della mareggiata che si abbatterà sulla sonnacchiosa “Austria felix” per dare voce a nuove, profonde, inconfessabili pulsioni.

L’Austria è in effetti come un giardino sopra un vulcano, metafora di grande successo per descrivere la situazione: covano fermenti sociali fatti di insoddisfazione, desiderio di rivalsa del mondo proletario, istanze politiche antiimperiali.

Tutto sta per sfaldarsi, ma si mantiene un clima sonnolento, ignaro di tutto quanto sta per accadere in un prossimo futuro che si rivelerà drammaticamente bellico e rivoluzionario.

Questo è l’ambiente in cui cresce Klimt, dotato di uno spiccato talento naturale, anche grazie al clima familiare determinato da un padre orafo e da due fratelli con i quali Gustav frequenta la Scuola di Arti e Mestieri, entrando in forte sodalizio con tanti artisti.

Sono giovani artisti tutti diversi, ma tutti accomunati da una prepotente voglia di infrangere le barriere del già noto, della tradizione, dell’ufficialità. Un’ufficialità che vuole fare dell’arte una sorta di porto sicuro, confortante, rassicurante.

Klimt intanto eccelle nella ritrattistica, con una cura del dettaglio quasi fotografica e la capacità di rinnovarsi continuamente e diventa ben presto celebre e molto richiesto.

Gustav Klimt, Ritratto di signora
foto da katarte.it

Accoglie completamente l’idea della Gesamtkunstwerk, l’opera d’arte totale, concetto wagneriano che vede l’arte esprimersi in ogni forma, senza disdegnare nulla, dalle architetture alle scenografie, dagli oggetti ai mobili, dal vasellame ai gioielli.

L’arte sposa così anche il design, la grafica, la scenografia: non è più privilegio delle classi più elevate, ma si rivolge a ogni livello della società.

In verità, il mondo politico e l’ufficialità contemporanea sembrano riservare attenzione e dar voce alle nuove espressioni artistiche.

Il motto è “a ogni tempo la sua arte” e Klimt e compagni vengono inizialmente molto coinvolti in creazioni artistiche influenzate dai forti venti incrociati dell’Art Nouveau e del Simbolismo, che circolano in Europa.

Si fa spazio l’istanza erotica, diventata, con Freud, chiave di lettura quasi universale per ogni vicenda. È un’istanza che emerge nell’arte come motivo espressivo sempre più esplicito. Certo, le autorità non possono che approvare che trapelino le novità espressive, condite con un che di erotismo. Il problema è che l’arte deve per loro restare pur sempre fondata sulle solide basi tradizionali, in particolare attraverso il rassicurante uso dell’allegoria classica e storica. Dunque, esprimersi, sì… ma mai in modo esplicito!

Ben presto matura una prepotente ribellione a tale atteggiamento ufficiale e nasce giocoforza la Secessione viennese, sorella di altri movimenti europei di ribellione artistica alle forme e agli stili classici, come la Secessione di Monaco e quella di Berlino.

La fondazione della Secessione viennese avviene il 3 aprile del 1897 per opera di un gruppo di artisti che nominano ben presto Klimt come presidente. Il manifesto da lui disegnato resta ancora oggi tra le immagini più eloquenti del movimento: Teseo combatte contro il Minotauro; il nuovo abbatte il vecchio.

Ma su questo manifesto cala una vera e propria censura che costringe Klimt a nascondere la zona genitale di Teseo dietro tronchi e cespugli.

Ecco di seguito i due manifesti, prima e dopo la censura.

 

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Nel frattempo Klimt viaggia, incontra l’Italia, il Lago di Garda, Trieste, Venezia, Firenze, Pisa, Roma, ma soprattutto Ravenna e i suoi mosaici. Ammira la maestosa eternità delle figure a due dimensioni e gli sfondi dorati. Ecco: uscire dalla tridimensionalità è la chiave per ribellarsi all’imperante naturalismo dell’arte tradizionale e per cercare nuove strade espressive che diano vita a immagini iconiche.

Le figure di Klimt “alloggiano” e si affacciano da sfondi preziosi e dorati, rese immortali dalla loro estraneità rispetto al mondo reale, dalla loro iconicità.

 

Gustav Klimt, Il fregio di Beethoven (particolare)
foto da skandorinasdiary.com

 

Grazie alla Mostra “Klimt. La Secessione e l’Italia”, in corso a Roma fino a fine marzo 2022, possiamo sperimentare di persona la complessità e la ricchezza di questa fase artistica viennese, che ebbe forti influenze anche nel mondo artistico italiano.

 

Possiamo così approfondire la conoscenza di Klimt, uno spirito sempre in ricerca, capace di ribellarsi in ogni circostanza della sua vita d’artista, rischiando in prima persona e contribuendo a operare quel passaggio rivoluzionario che ha traghettato l’Europa fin dentro un secolo tormentato, il Novecento, i cui echi risuonano ancora fortemente, come a voler risvegliare questo nostro assopito presente.

 

di Maria Cristina Zitelli

 




Ricominciamo a vivere

Un viaggio nella storia delle terme nell’antica Roma

 

Il nuovo anno appena iniziato ci trova ancora un po’ assonnati, forse. Sicuramente tutti desiderosi di un nuovo “bel vivere” quotidiano!
In questa materia, sappiatelo, siamo sempre stati maestri e per convincercene profondamente, ci basta rivolgerci, per esempio, al nostro passato antico romano…

 

Pompei – Casa dei Vettii
Foto da Altervista

 

Ma scusa, direte voi, la storia dell’antica Roma non è caratterizzata dal desiderio di conquista, dalla visione strategica, dall’attitudine pratica e costruttiva, dall’applicazione della legge: Dura lex, sed lex … (“Sebbene dura, la legge è necessaria”)?
È vero, questa è la lente privilegiata attraverso la quale normalmente guardiamo ed esaminiamo la civiltà romana.
Dunque, è difficile credere che la contemplazione della Natura fosse considerata dai Romani uno dei più grandi piaceri cui aspirare nella vita.
Fu il fascino della cultura ellenica, entrato nel mondo italico attraverso gli Etruschi fin dall’VIII sec. a.C., a sedurre e trasformare gradualmente il volto semplice ed essenziale degli antichi abitanti dell’Italia.

Per quel che riguarda Roma, dopo la conquista della Grecia, portata a termine nel 146 a.C., la bellezza, la grazia, il genio greco aprirono la mente del conquistatore allargandone i confini, raffinandola e risvegliandone la dimensione contemplativa, fino ad allora soffocata da una imperiosa istanza di affermazione corroborata da uno straordinario senso pratico.

Graecia capta ferum victorem cepit et artes intulit agresti Latio (“La Grecia, conquistata, conquistò a sua volta il selvaggio vincitore e introdusse le arti nel Lazio campagnolo” racconta Orazio nelle Epistolae).

Intendiamoci: questa evoluzione culturale riguarda principalmente il mondo romano più aristocratico, patrizio, colto. Un mondo sorretto da una solida base sociale fatta di servi, schiavi, attendenti, clientes.

 

Affresco dalla Villa di Livia a Prima Porta
Foto da Itinera Barbarae – Overblog

 

Un mondo che seppe concepire il concetto di Otium.
Un concetto molto distante dall’idea che abbiamo noi di Ozio. Il nostro proverbio dice infatti che l’ozio è il padre dei vizi…
L’ozio è nemico dell’anima, secondo San Benedetto da Norcia, che per esorcizzarlo raccomandava l’Ora et labora incessantemente…

Invece Otium per i Romani antichi è la più nobile delle dimensioni, in cui il vuoto si riempie di studio, letture, meditazioni, contemplazione del bello, piaceri dello spirito, equilibrio tra corpo, mente e anima.
Una dimensione ideale: basti pensare che la realtà opposta, fatta di lavoro, occupazioni, affari, impegno politico, fatica, è denominata Negotium, cioè “negazione dell’Otium”…

Quando sono nella mia villa di Laurento – scrive Plinio – non ascolto nulla che mi dispiaccia di avere ascoltato, non dico nulla che mi penta di aver detto: nessun desiderio, nessun timore mi turba.”

E per Cicerone non è un uomo libero quello che non ozia di tanto in tanto.
Orazio col suo Carpe Diem (“Cogli il giorno”, tema di una delle più celebri Odi del poeta di Età Augustea) ci guida entro la sua visione epicurea: affannarsi serve a poco. Nella tragica consapevolezza della propria precarietà, conviene cogliere il giorno conferendo valore, dignità e piacere a ogni istante.
Se l’Otium e la visione filosofica del Carpe Diem si coltivano nella sfera sociale più aristocratica, tra giardini e domus sontuose, tra abiti e ornamenti lussuosi, tra originali e costosi manicaretti cucinati dall’Archimagirus (lo chef privato presente in molte domus e ville patrizie) e tra ottime degustazioni di vini pregiatissimi, c’è però uno specifico aspetto del bel vivere degli antichi Romani che può essere praticato da ogni classe sociale.

Parliamo delle Terme, un luogo di vero piacere del corpo e dell’anima, oltre che di igiene, apprezzato in tutto l’Impero.
Recarsi alle Terme è un’abitudine molto gradita al popolo romano, forse più del circo e dei giochi gladiatori.

 

Ricostruzione Vasca delle Terme di Caracalla
Foto da Turismo Italia news

 

Durante l’Età Repubblicana i Romani apprendono dai Greci l’abitudine di allestire una stanza da bagno nelle case di chi può permetterselo.
Ma l’indole romana principalmente organizzativa, pianificatrice ed estremamente pratica comincia a immaginare una dimensione pubblica dei Bagni, strettamente correlata alla presenza dell’acqua.
Si finisce così, nei secoli, con l’edificare, nella sola Roma, 11 grandi complessi termali pubblici (gratuiti o quasi) e 856 stabilimenti balneari privati. Quanto all’acqua, si arriva a 11 Acquedotti che riforniscono la città con un’abbondanza davvero eccezionale.
Le prime Terme vengono create a Roma da Agrippa, genero di Augusto, nel 25 a.C. e dopo di lui gli imperatori romani fanno a gara per superare i predecessori con Terme sempre più grandiose.
Così la Roma imperiale si abbellisce di impianti termali, che diffonde in tutte le sue province, come testimoniano i numerosi e imponenti resti archeologici diffusi su tutto il territorio conquistato.
Le straordinarie architetture termali conferiscono grande prestigio a ogni città, assicurando benevolenza e consenso popolare all’imperatore di turno.

 

A Roma ricordiamo le Terme di Agrippa, le Terme Neroniane o Alessandrine, le Terme di Tito, le Terme di Traiano, le Terme Surane, le Terme Eleniane, le Terme Commodiane, le Terme di Caracalla, le Terme Deciane, le Terme Aureliane, le Terme di Diocleziano e le Terme di Costantino.
Quasi tutta la città passa una volta al giorno dalle Terme: immaginiamo, quindi, gli avventori tutti in fila all’entrata e lungo i percorsi studiati appositamente per evitare ingorghi. Basti pensare che le Terme di Caracalla potevano ospitare almeno 1.600 persone all’ora…
Le Terme diventano quasi un simbolo dell’Urbe e della sua filosofia di vita: il bagno precede il banchetto pomeridiano e nei giardini che sorgono intorno alle vasche si passeggia, si amoreggia e si concludono affari.

 

L’argomento delle Terme romane è variegato e assai interessante, ma per ora ci fermiamo.
Ci basti l’immagine di questi bellissimi impianti termali antichi: ci riempirà di una straordinaria frescura e ci farà sentire molto vicini ai nostri avi nel comune desiderio di riposo e bel vivere, in questo timido inizio d’anno!

 

Ricostruzione Terme di Diocleziano
Foto da video.corriere.it

 

 

Maria Cristina Zitelli




Natività di Gesù: le immagini più antiche

A quando risale la prima rappresentazione della natività di Gesù?

Le più antiche testimonianze le troviamo nelle Catacombe di Priscilla, sull’antica via Salaria, a Roma. Esse risalgono a un periodo tra il II e il III secolo dopo Cristo.

Eccole a voi: una è l’Adorazione dei Magi, l’altra è la Madonna col Bambino e il profeta Balaam che addita una stella, ricordandoci la sua profezia: “una stella spunta da Giacobbe e uno scettro sorge da Israele” (Num. 24,15-17).

Quest’ultima è anche la più antica immagine di Maria che ci sia pervenuta!

Immagine dal web: romafelix.it

 

 

Immagine dal web: ilmattino.it

 

Le catacombe di Priscilla sono tra le più antiche di Roma e si dipanano su vari livelli per circa 13 chilometri.

Ci troviamo a circa 20 metri sotto terra, tra i cunicoli e le interminabili gallerie realizzate a partire dal II secolo utilizzando ambienti preesistenti, come l’ipogeo con le tombe degli Acili Glabrioni.

La Gens degli Acili Glabrioni era la famiglia di Priscilla, colei che concesse l’area per la realizzazione del cimitero cristiano.

Romana, moglie di un senatore, Priscilla protesse i primi cristiani dalle persecuzioni e ne accolse i corpi in queste cave di tufo di sua proprietà.

Molte furono le donne patrizie o comunque di alta estrazione sociale, che nell’antica Roma imperiale furono profondamente toccate dall’annuncio evangelico del Cristo e si profusero in donazioni e forme varie di partecipazione e sostegno alla nuova religione dal richiamo escatologico, che prometteva una vita di gioia e di ricompensa oltre il travaglio della vita terrena.

Una seconda tappa di questo ideale viaggio romano alla ricerca delle più antiche immagini del Natale ci porta alla basilica paleocristiana di S. Maria Maggiore.

Nell’anno 431 il Concilio di Efeso proclama Maria definendola con l’appellativo di “Theotòkos”, cioè Madre di Dio.

Il papa Sisto III ricostruisce immediatamente l’antica basilica già iniziata da Papa Liberio nel 352, dedicandola proprio a Maria e rivestendola di splendidi mosaici d’oro.

Nella navata centrale scorrono, in splendidi mosaici del V secolo, le storie dell’Antico Testamento.

Gli episodi evangelici sono rappresentati nell’arco trionfale, con colori vivaci e una grande vitalità, realizzati sempre nel V secolo.

Il mosaico dell’abside risale invece alla fine del XIII secolo, a opera di Jacopo Torriti, esponente della scuola pre-giottesca romana.

Qui ammiriamo gli episodi più importanti della vita di Maria e dell’infanzia di Gesù, culminanti nell’Incoronazione della Vergine.

Ma ecco il nostro punto di attenzione: sotto il catino absidale compare la scena della Natività.

Immagine dal web: Hypotheses.org

 

Ai più attenti di voi non sfuggirà l’assoluta innovazione di questa rappresentazione, cui spetta il primato per la realizzazione di un “Presepe” vero e proprio.

Il Bambino, la mangiatoia gemmata, le bianche vesti, i quattro angeli, la stella, i Magi in abiti preziosi. Tutto è simbolico e allo stesso tempo vivo e concreto.

Maria è semi-sdraiata, come è naturale per  una donna che ha appena partorito, ma nello stesso tempo appare circonfusa di umana regalità.

Giuseppe, seduto in basso, è rappresentato come sovrastato dalla potenza divina di quanto sta avvenendo…

Ecco affermarsi in questa iconografia il senso del compimento: si compie una promessa che potremmo laicamente definire apocalittica, ovvero di rivelazione:

 

“Un bambino è nato per noi, sulle sue spalle è il segno della sovranità ed è chiamato: Consigliere ammirabile, Dio potente, Padre per sempre, Principe della pace. Grande sarà il suo dominio sul trono di Davide” (Is.9,5-6).

 

 

di Maria Cristina Zitelli 




All’origine degli orologi

La misurazione del tempo nell’antica Roma

 

 

“Maledicano gli dei colui che per
primo inventò le ore
e collocò qui la prima meridiana.
Costui ha mandato in frantumi il
mio giorno di povero diavolo.

Quando ero giovane, infatti, l’unico
orologio era lo stomaco
…assai più preciso e migliore di
questo aggeggio moderno.”

(Plauto citato in Aulo Gellio, Notti attiche, III, 3, 5)

 

E sì, un bel cambiamento nello stile di vita dei Romani antichi, quello testimoniato da Plauto!
Il famoso commediografo romano muore nel 184 a.C. e ci lascia quindi il suo ricordo risalente al II sec. a.C. Non sapeva che, come ci racconta Vitruvio nel De Architectura, presto sarebbero state introdotte addirittura le meridiane portatili!

Tra il I e il VII secolo questi geniali oggetti circolavano nell’Impero e alcune meridiane erano dette “pros pan clima” cioè “per tutte le latitudini”, in quanto potevano essere regolate su latitudini differenti.

Particolarmente curiosa è la meridiana a sospensione detta “Prosciutto di Portici”.
Si tratta di un esemplare unico, ritrovato a Ercolano, negli scavi della Villa dei Papiri e si presenta a forma di prosciutto, con un quadrante inciso su di un lato.

 

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Dall’hora all’horologium

L’invenzione dell’ora è di probabile origine caldea.
Il concetto passò ben presto in Grecia: le Horae compaiono in mitologia come le tre figlie di Zeus e di Themis. Esse erano considerate le signore delle nubi e come tali, aprivano e chiudevano le porte dell’Olimpo.
Nel V sec. a.C. Metone, astronomo, matematico e geometra greco, aveva creato per gli Ateniesi un quadrante solare  che consisteva in una calotta di pietra (polos) al centro della quale era fissato uno stilo o gnomone che, non appena il sole sorgeva all’orizzonte, ne tracciava l’ombra nella pietra concava. In base a calcoli geometrici si ottenevano così le horae, segnate dalla posizione dell’ombra del sole nel suo cammino nel corso dell’anno.
Così, anche le altre città greche vollero avere i loro quadranti ma, variando il cammino apparente del sole con la latitudine, l’ora variava da città a città e ci si dovette adeguare di volta in volta alla posizione geografica.
I Romani avrebbero presto adottato il quadrante solare chiamandolo horologium, cioè “conta-ore”.

 

Quadranti solari

Il primo quadrante solare fu portato a Roma da Catania al tempo della prima guerra punica (263 a.C.), ma era regolato sulla latitudine di Catania, quindi per un secolo Roma visse con un’ora non sua. Finalmente nel 164 a.C. Marco Filippo fece adottare un nuovo quadrante costruito da un astronomo greco sulla latitudine di Roma.
Da allora i quadranti divennero numerosi: nel I sec.a.C. Gellio ci dice che Roma ne era invasa.
Il più maestoso era l’orologio solare di Augusto, concepito da Facundo Novio secondo una simbologia di tipo cosmogonico e astrologico.

 

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La clessidra

A Roma la prima clessidra fu introdotta nel 155 a.C. da Scipione Nasica per misurare il tempo accordato a ciascun oratore in tribunale. Così vennero limitati i lunghissimi tempi dei processi.
Plinio il giovane parlava di parecchie clessidre per sottolineare quanto tempo ci aveva messo a preparare una lunga difesa o arringa …
Attico misurava in clessidre il tempo che ci voleva per scrivere cento righe da parte di un copista. Il nome deriva dal greco klepsýdra, che significa “ruba-acqua”.
Fu probabilmente il primo strumento di misura del tempo indipendente dalle osservazioni astronomiche. Uno dei più antichi esemplari fu ritrovato nella tomba del faraone Amenhotep I, risalente al XV secolo a.C.
In Grecia l’uso della clessidra fu introdotto agli inizi del IV sec. a.C., sotto forma di contenitori in pietra di forma tronco-conica che facevano fuoriuscire acqua a un ritmo costante da un foro praticato sul fondo.
Altre clessidre avevano forma cilindrica o a coppa e venivano lentamente riempite da un flusso costante di acqua. Alcuni segni sulla superficie interna del contenitore indicavano il trascorrere delle ore al salire del livello del liquido.

 

 

Gnomos e polos

Pratica greca molto antica fu misurare il tempo utilizzando la variabilità delle ombre, a cominciare dalla stessa ombra del corpo umano. Poi venne introdotto lo gnomon, strumento inventato dai Caldei, che consiste in una punta o stilon eretto su un piano orizzontale.
Il polos è invece un emisfero con la parte concava rivolta verso lo zenith. Al centro vi era piantato uno stilo.

Orologio solare orizzontale. Da Wikipedia

 

 

Un concetto di ora diverso dal nostro

A Roma l’ora era considerata innanzi tutto un’unità di tempo utile per le attività, specialmente nella vita civile e politica. In verità, ancora nel V sec. a.C. il concetto di ora non compare, neanche nelle leggi delle XII Tavole. Anche in città prevaleva l’usanza rurale secondo la quale il tempo era segnato dalla posizione del sole nel cielo secondo i vari momenti della vita agricola.
Nel 338 a.C. venne ufficializzato il Meridies, il Mezzogiorno. Un messo dei consoli era incaricato di segnare il passaggio del sole al meridiano e annunziarlo al popolo. Dunque, alla fine del IV secolo a.C. a Roma si divideva semplicemente la giornata in due parti: prima e dopo mezzogiorno.

I Romani adottarono la divisione del giorno in ore nel 273 a.C., ma con una concezione diversa dalla nostra: le nostre sono le ore equinoziali, tutte uguali nel corso dell’anno, in un ciclo giorno – notte diviso in 24 parti. Certo gli astronomi antichi conoscevano le ore equinoziali.
Ma altro conto è per i Romani la vita pratica: il giorno naturale, cioè dalla levata al tramonto del sole, era sempre diviso in 12 parti. Il che comportava ore di diversa lunghezza in estate e in inverno.
Anche la notte era divisa in 12 parti raggruppate tre a tre, per formare quattro unità chiamate vigiliae (veglie). Infatti il soldato di guardia svolgeva un turno notturno di tre ore.

 

La durata dell’hora

La parola poteva designare tutta l’ora, ma anche solo il momento del suo inizio. La sua durata cominciava a crescere a partire dal solstizio d’inverno e raggiungeva la sua massima durata nel solstizio d’estate. La prima hora romana iniziava al levar del sole.
Quindi possiamo dire che, orientativamente, al solstizio d’estate iniziava alle 4 e 27 minuti, mentre al solstizio d’inverno alle 7 e 33 minuti
La durata oscillava così da un’ora e 15 minuti d’estate a 45 minuti d’inverno. Ma le variazioni non erano percepite generalmente dalla gente.

 

Nel dare un appuntamento, parecchi scrittori latini precisano

“hora aestiva” (ora estiva)
“hora brumalis” (ora invernale)

 

L’ora del bagno e del pasto, per ragioni probabilmente fisiologiche, era ritardata d’inverno. Il bagno si faceva alla nona hora in inverno (16,30) e all’ottava in estate (12,30 circa)
Ma generalmente, a una variabilità quantitativa corrispondeva una invariabilità qualitativa.
La settima ora segnava invariabilmente, per tutto l’anno, la fine delle attività di lavoro (il negotium), poiché la durata del tempo consacrato agli affari pubblici e privati era, a quanto sembra, proporzionata alla durata del giorno naturale. La visita mattutina al patronus da parte dei clientes aveva sempre luogo alla prima hora. Era impossibile pensare ad una remunerazione dei lavoratori in base all’ora, vista la sua variabilità.
Esisteva tuttavia un’unità di tempo stabile data dal passaggio dell’acqua in una clessidra. A questa si faceva probabilmente riferimento per il pagamento adeguato di un lavoratore.
Ma i Romani preferivano retribuire le attività in base al lavoro compiuto, più che al tempo impiegato.

 

Come sapere l’ora?

Anticamente l’ora era proclamata a gran voce a mezzogiorno, quando si vedeva il sole raggiungere, nel Foro Romano, lo spazio situato tra i Rostri e la Graecostasis (dove venivano ricevuti gli ambasciatori stranieri).
Per la convocazione di comizi e udienze, per feste e distribuzioni d’acqua o altro, venivano mandati dal pretore gli assistenti a gridare pubblicamente l’annuncio alla terza, alla sesta e alla nona ora, in diversi luoghi della città. Quindi la maggior parte dei Romani conosceva l’ora ascoltando questi annunci gridati. E Giovenale ci fa sorridere quando dice di compiangere il sordo, perché non sa mai l’ora…

 

di Maria Cristina Zitelli




L’Insula dell’Ara Coeli

Un premio allo sguardo che scende: l’Insula dell’Ara Coeli

 

 

Passeggiare al centro di Roma ci conduce spesso a piazza Venezia e a piazza dell’Ara Coeli.

Qui, alzando gli occhi, lo sguardo viene rapito da due scalinate che conducono in vetta al Colle Capitolino, il Campidoglio.

 

Le due scalinate (Sito Parrocchia San Marco Evangelista)

 

La “Cordonata” di Michelangelo conduce alla piazza del Campidoglio, mentre l’altra Scalinata porta alla Basilica dell’Ara Coeli.

Questo superbo teatro racconta lo stratificarsi di tante e tante storie e proprio per questo gli occhi raramente scendono per soffermarsi su un nascosto angolo che giace ai piedi della Scalinata dell’Ara Coeli, sulla sinistra.

Peccato, perché proprio lì si trova un tesoro unico: quello che resta di un grandissimo “condominio” dell’antica Roma imperiale.

 

L’Insula dell’Ara Coeli (Archivio personale)

 

Nel 1928, durante i lavori per l’isolamento del Campidoglio, sulla piazza furono abbattute o “smontate” diverse costruzioni antiche e antichissime.

Lì c’era la Chiesa di Santa Rita da Cascia, costruita su progetto dell’architetto Carlo Fontana intorno al 1653: nel 1928 venne smontata, per l’appunto, per poi essere ricostruita più tardi in via Montanara, presso il Teatro di Marcello.

La chiesa celava un’altra piccola chiesa medievale, San Biagio de Mercato o de Mercatello (in quanto in epoca medievale si teneva in zona un famoso mercato), incastonata a sua volta tra i muri di un antico caseggiato, in parte abitato continuativamente fino ai primi del Novecento.

 

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Venute allo scoperto queste costruzioni nascoste, si scoprì che i muri più antichi erano di età imperiale, tra I e II sec. d.C.

Si trattava di una parte di un’insula (termine da cui deriva la parola isolato), un grande caseggiato condominiale di 5 o 6 piani, in cui è stato calcolato che abitassero circa 380 persone.

Per nostra fortuna, nonostante l’enorme campagna di demolizioni che si stava mettendo in atto per l’apertura della via del Mare (l’attuale via del Teatro di Marcello), si decise di mantenere questa importante testimonianza della vita popolare antica romana, proprio a fianco dell’area dei Fori imperiali.

Ebbene sì, la Roma splendida dei Fori, delle Basiliche, dei Templi conviveva con una Roma buia e angusta, in cui il popolo abitava in minuscoli e scomodi locali, pagando l’affitto a ricchi proprietari e profittatori.

Moltissime erano le insulae nei quartieri malfamati, come ad esempio la famosa Suburra, che si estendeva nella zona dell’odierno rione Monti.

Un brulichio di gente povera affollava strettissimi vicoli tra queste alte insulae, spesso fatiscenti, per poi sfociare nelle luminose piazze della Roma monumentale.

E lungo i vicoli si aprivano, a pian terreno, una serie di tabernae (botteghe) che animavano il percorso con i loro rumori, gli odori, i colori.

Sopra le tabernae c’erano quasi sempre le abitazioni dei loro gestori, artigiani, osti, commercianti,

E poi, dal secondo piano in poi, si salivano ripide scale che conducevano ad abitazioni sempre più povere e fatte di materiali sempre più leggeri e traballanti: Marziale, poeta trasferitosi a Roma dalla Hispania Tarraconensis, si lamentava di dover salire 200 gradini prima di arrivare nella sua piccola casa in affitto.

Giovenale a sua volta narra di frequenti crolli e incendi che creavano spesso il panico.

Dunque, accostandoci con una nuova attenzione all’Insula dell’Ara Coeli possiamo scorgere, 9 metri più in basso dell’attuale piano di calpestio, le tabernae e il primo piano del caseggiato, che si sviluppava anche nell’area sotto l’attuale via del Teatro di Marcello: quando camminiamo a Roma, spesso i nostri piedi passano sopra un vero tesoro sepolto.

 

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Al di là dei più famosi monumenti che sono arrivati a noi attraverso varie e fortunate vicissitudini, il volto più antico e verace della Roma popolare è davvero quasi tutto obliterato. È assai più facile immaginare la vita quotidiana degli antichi Romani andando fuori Roma, visitando ad esempio Ostia antica, Pompei, Ercolano.

Al centro di Roma rarissime sono le occasioni di poter camminare ancora tra i piani di un caseggiato popolare della città antica.

Con un permesso speciale della Soprintendenza archeologica capitolina ho condotto molti gruppi all’interno dell’Insula dell’Ara Coeli e amo condividere il più possibile emozioni così indimenticabili.

 

 

Dott.ssa Maria Cristina Zitelli




Roma ieri come oggi

 

Appena dopo questa calda estate, Roma si troverà proiettata nel bel mezzo delle elezioni per il nuovo Sindaco.
Avvertiamo molto forte il turbinio di una lunga campagna elettorale che, volenti o nolenti, investe tutto il nostro Paese e ne stiamo già sentendo di tutti i colori sui difetti di una delle città più complesse del mondo da amministrare. Dunque, può giovare creare un po’ di distanza, fermarsi a respirare rievocando qualche aspetto della Roma dei primi secoli dopo Cristo. Ritroveremo sensazioni assai familiari, questo è certo…
Già: pensate che in epoca imperiale Roma era una città…  affollata e sporca, multirazziale e caotica, sfarzosa, ma poco raccomandabile, ricca e monumentale. Aggettivi familiari? – De ppiù! – (come si dice a Roma)

 

Vi invito a chiudere gli occhi ed entrare insieme a me per pochi minuti in quest’Urbe di circa 2000 anni fa, dalle mille facce: frenetica ma anche assai pigra, austera e tollerante, nobile e corrotta, sobria e gaudente. Troviamo gli stessi contrasti di una moderna megalopoli e ne faremo solo un piccolo assaggio.

Un milione e mezzo di abitanti brulica tra i monumenti pubblici e le grandi dimore private, in mezzo ad un mare di casupole affacciate su strade anguste e maleodoranti, gremite e chiassose di giorno ma semideserte e pericolose di notte.

Tutto sembra privo di criterio urbanistico e in questo disordine si affaccendano non solo tantissimi Romani: è notevole nella popolazione la componente etrusca, sannitica, italica in generale. Ma non mancano Galli, Iberi, Africani, Greci, Siriani, Egizi, Ebrei, Cilici, Traci, Sarmati, Germani, Etiopi.
Roma, meta di migliaia di viaggiatori e migranti, vero e proprio mito per molte popolazioni dell’Impero, non conosce il concetto di discriminazione razziale!
Ricchezza ed esuberanza trasudano dagli spazi pubblici: i Fori e i Templi.

Le grandiose piazze che sorgono al centro della città sono non solo la sede del governo e della giustizia, ma anche i luoghi in cui si concludono gli affari, si acquistano merci e generi alimentari, si incontrano amici, si discute, si partecipa a cerimonie e manifestazioni.

 

Accanto alle piazze sorgono le basiliche, imponenti edifici con decine di ambienti, dove si tengono comizi, letture, processi, ma anche dove trovano riparo migliaia di nullatenenti. (Il nostro termine basilica deriva da questi edifici e ha assunto per noi una connotazione prettamente religiosa).

Continuando a passeggiare notiamo come abbondino i templi, dai quali le divinità pagane dominano e tutelano la più popolosa Metropoli della Terra: la Roma imperiale!

 

Per immaginare l’aspetto dei Romani che danno vita a questo andirivieni cittadino, ci aiuta Pompei, sepolta dall’eruzione del 79 d.C. con tutti i suoi abitanti, con resti, affreschi e raffigurazioni.

Uomini e donne sono bassini, gli uni alti in media 1,66 metri e le altre 1,54. I primi pesano intorno ai 65 kg, le seconde circa 49. L’età media è di circa 40 anni… Le donne si sposano molto giovani, anche a 13-14 anni.

Torniamo alla folla: vogliamo sentire “realmente” la sua pressione? Ci viene in soccorso Giovenale, in una delle sue Satire:

“L’onda di gente che mi sta avanti mi ostacola, quella che mi sta dietro, mi preme alle spalle come una falange serrata” …

“qua uno mi dà di gomito, là mi colpisce duramente la stanga di una lettiga, uno mi sbatte in testa una trave…”.

 

Marziale poi ci rivela che a Roma gli inquilini possono quasi darsi la mano da un palazzo all’altro. E non ci è difficile immaginare questa situazione tra le “insulae”, veri e propri condomini a più piani, da cui deriva il nome dei nostri “isolati”.

 

 

In realtà si tratta di instabili alveari di 4 o 5 piani. Al pianterreno ci sono le botteghe, con un soppalco per l’abitazione del commerciante; sopra gli appartamenti, di 2 o 3 locali. Sono costruzioni prive di ogni comfort, calde d’estate e fredde d’inverno, ma costano un occhio della testa, anche in affitto…Frutto delle speculazioni delle classi agiate, le insulae sono costruite in prevalenza in legno e non di rado vengono divorate dalle fiamme, insieme ai loro occupanti.

 

Una caratteristica evidente della città, ieri come oggi, è il rumore, il frastuono…

 

Seneca, abitando sopra una struttura termale, ci fa arrivare il suo lamento:

”Mi circonda un chiasso, un gridare in tutti i toni che ti fa desiderare di essere sordo. Sento il mugolio di coloro che si esercitano affaticandosi con i pesi di piombo…. Quando poi arriva uno di quelli che non sanno giocare a palla senza gridare, e comincia a contare i punti fatti ad alta voce, allora è finita.

C’è il venditore di bibite, il salsicciaio, il pasticcere e tutti gli inservienti delle bettole, ognuno dei quali va in giro offrendo la sua merce con una speciale e unica modulazione di voce”

 

E di notte le cose non migliorano: ai mezzi che riforniscono la Roma dell’Impero è infatti vietato circolare di giorno (con rare eccezioni) per non rendere ancora più caotica la situazione. Così al calare del buio, la città, quasi del tutto priva di illuminazione, si riempie di carri e carretti. Come spesso accade, Marziale ci accompagna alla conclusione di questa breve passeggiata facendoci ridere:

”A Roma la maggior parte dei malati muore di insonnia, perché quale casa in affitto consente di dormire?”

 

 

 

Dott.ssa Maria Cristina Zitelli




La banca nell’antica Roma

Parlare di banca e di moneta oggi evoca un mondo finanziario complesso e spesso tortuoso, nel quale potresti facilmente perderti.

Eppure si tratta di concetti che ci appartengono e hanno accompagnato l’umanità da un certo punto dell’evoluzione sociale, senza abbandonarla più.

A Roma, sul Campidoglio esisteva, fin dal IV sec. a.C. il tempio di Giunone Moneta, l’Ammonitrice (dal verbo monére).

Circa un secolo dopo, nei pressi del tempio, venne edificata la prima Zecca (nella zona della basilica di Santa Maria in Aracoeli), proprio sotto la protezione di colei che ammonisce e desta l’attenzione di fronte ai pericoli.

Così il popolo iniziò a chiamare Moneta il tempio, la stessa Zecca e poi i pezzettini di metallo che vi si producevano.

Fin da allora il termine “moneta” cominciò a rivelare la sua vocazione ed è riuscito a mantenere vivo fino a noi quel profondo antico monito che si dovrebbe sempre affiancare al concetto di ricchezza, al fine di evitarne un uso distorto…

Va detto che la moneta antica era particolarmente vulnerabile, facile oggetto di abusi e frodi. Eppure essa rappresentò il mezzo di scambio internazionale più duttile ed efficiente.

Ogni barriera politica e geografica veniva superata dal potere d’acquisto delle monete anche fuori dai loro confini di emissione

In tale contesto si forma e si sviluppa la professione del cambiavalute, che si diffonde rapidamente dal mondo greco verso i centri più attivi commercialmente.

 

 

Una prima notizia della presenza di un cambiavalute (argentarius) nel Foro Romano risale alla seconda metà del IV sec. a.C.

Fin da allora si registra un’intensa attività commerciale e un cospicuo flusso di monete doveva passare di mano in mano. E’ un’epoca di crisi della vecchia società agricola e Roma si affaccia ai commerci mediterranei. Ecco che si ristruttura il Foro e molte taberne e botteghe si trasformano in uffici di cambiavalute, come testimonia Varrone.

Lo stesso Vitruvio, architetto e scrittore, illustra l’ideazione dei maeniana, ballatoi progettati da C. Maenius (318 a.C.),  sottolineando che i sottostanti portici erano utili per ospitare le attività gli argentarii.

Ed è facile immaginare il brulichio nel Foro, dove fervevano incontri d’affari, stipulazioni di contratti, rumorosi contenziosi…

Anche Tito Livio cita le tabernae argentariae in un Foro ormai divenuto autentico fulcro di affari economici internazionali. Intorno a tale potente fulcro si animava anche l’attività dei nummularii, esperti nel saggiare l’autenticità delle monete.

Gli argentarii giunsero a collocare le proprie mensae (tavoli, banchi) in tutti i luoghi dell’Impero: genti straniere garantivano un enorme afflusso e movimento di moneta e quindi lauti guadagni.

Una preziosa testimonianza della prosperità di questa categoria è l’Arco degli Argentarii, conservato in quanto incastrato tra le strutture esterne della chiesa di San Giorgio in Velabro, nei pressi della Bocca della Verità. Eretto in onore dell’Imperatore Settimio Severo, della consorte Giulia Domna e dei figli Caracalla e Geta, conserva una importante curiosità: il volto di Geta appare abraso, a testimonianza della damnatio memoriae cui lo sottopose, dopo averlo ucciso, il fratello Caracalla, la cui ambizione era essere imperatore unico e senza rivali.

 

 

Come sappiamo, la moneta antica aveva un valore intrinseco reale: argento, oro, bronzo avevano un’evidente differenza di valore commerciale che portò ad una loro specializzazione sociale. Alle grosse operazioni finanziarie si accedeva con oro e argento, mentre il bronzo, il rame e l’oricalco erano dedicati ai “vilia ac minuta commercia”.

 

L’archeologia ci fornisce un valido aiuto per capire i meccanismi di distribuzione, circolazione, attribuzione di valore delle varie monete, grazie al ritrovamento di vari “gruzzoli” di monete greche o dell’Italia antica restituiti dal sottosuolo. Si riscontra spesso, ad esempio, la presenza, in uno stesso gruzzolo, di esemplari provenienti da differenti centri. Era probabilmente una regola costante, per i più abbienti, maneggiare denaro “straniero”.

 

 

Monete in rame, bronzo o leghe sono nettamente distinte da monete di metallo nobile, spesso custodite o occultate come le argenterie e i gioielli.

Sappiamo che la moneta d’argento romana è il denario, il quale resterà per secoli alla base della monetazione successiva.

Testimonianza ultima del ruolo fondamentale rivestito da questo nominale è il nostro termine denaro, a dimostrazione del perpetuarsi della sua fama dal Medioevo ai giorni nostri.

Il denario traeva il suo nome dall’originario valore di 10 assi e mantenne tale nome, nonostante una rivalutazione, intervenuta in seguito, che lo equiparò al valore di 16 assi.

La sua emissione è da mettersi in relazione al forte impegno economico che Roma dovette sostenere per combattere contro i Cartaginesi.

Anche quando il denario non fu più emesso con regolarità, fu ancora usato come unità di conto.

L’ultima eredità del denario sopravvive nel nome arabo di una moneta, il dinar, coniato nel secondo decennio dell’VIII secolo, e spesso ancora utilizzato per indicare la propria moneta da diverse nazioni arabe.

L’aureo d’oro valeva 25 denari e non era frequentemente usato nelle transazioni comuni, a causa del suo alto valore: si pensa, ad esempio, che fosse usato per pagare gratifiche alle legioni alla salita al potere di un nuovo imperatore.

L’aureo era approssimativamente dello stesso formato del denario, ma più pesante a causa della più alta densità dell’oro.

Generalmente, si ritiene che il vero e proprio aureo sia stato emesso nel 49 a.C. da Giulio Cesare, raffigurante la testa di Venere o della pietà al diritto.

Prima di Giulio Cesare l’aureo, quindi, è stato battuto molto raramente, solitamente per grandi versamenti provenienti dai bottini catturati.

Costantino I introdusse il solido (solidus) nel 309: ecco l’origine del nostro termine soldi.

Il solido si diffuse soprattutto nell’Impero d’Oriente.

In quel periodo nell’Impero d’Occidente si assiste a una lenta decadenza e, incredibile a dirsi, dai fasti delle monete, del denaro, dei soldi si fece spazio l’antico metodo del baratto…

 

 

Dott.ssa Maria Cristina Zitelli




Natale di Roma: 21 aprile

XXI aprile 753 a.C., la fondazione di Roma

 

Eccolo, Romolo, un ragazzo forte, nel fiore degli anni: sembra di vederlo, i muscoli tesi nel governare l’aratro di bronzo, cui ha aggiogato un toro e una vacca bianchi.

Il vomere penetra la terra sul colle Palatino, nell’atto di tracciare il profondo solco di fondazione della nuova città che sta nascendo,

Sudato, il fondatore si è vestito con il cintus gabinus, una veste sacra, secondo la tradizione proveniente dall’antica Gabii, centro sito al XII miglio della via Prenestina.

Seguiamo la testimonianza di Tito Livio: individuata l’area della fondazione, sulla sommità del Palatino, Romolo parte da nord-ovest, procedendo in senso antiorario verso sud-est e tracciando un solco, ai lati del quale stabilisce l’area del pomerium, lo spazio sacro nel quale vengono fatte ricadere le zolle man mano estratte dall’aratro.

Le prime mura di Roma sono una sorta di cerchio magico che protegge la città e la rende inviolabile.

Per questo, in corrispondenza delle porte, Romolo solleva l’aratro, così da interrompere il cerchio, rendendo accessibile la città soltanto attraverso quei passaggi.

Una volta terminato il rito, ecco avvicinarsi Remo, il gemello che ha dovuto cedere, perché il fondatore deve essere uno solo.

Come ci ricorda la tradizione, egli osa sfidare il fratello violando la regola sacra e scavalcando il solco. Per questo Romolo lo uccide.

Il destino fatale di Roma nasce con un delitto e procederà nella storia fondando le premesse della sua immortalità, della quale anche noi oggi possiamo dirci testimoni.

 

 

Il giorno del Natale di Roma, tramandatoci dalla tradizione, è il 21 aprile dell’anno 753 a.C..

Molti studiosi pensarono per secoli che questa fosse una data simbolica e che la fondazione fosse solo una leggenda creata a tavolino quando Roma era già grande.

Ma se fosse stata una data simbolica, perché scegliere proprio il 21 aprile? Probabilmente sarebbe stato più logico scegliere, per esempio, un giorno del mese di marzo, in cui iniziava l’anno nel più antico calendario romano.

Oggi si propende invece per la storicità di quella data, ritenendo che sia stata scelta proprio per realizzare il famoso solco, con tutto il rito di fondazione, avvenuto in un solo giorno.

Una testimonianza a supporto di questa ipotesi è fornita dagli importanti scavi archeologici svolti dal prof. Carandini presso il Palatino, dove sono state ritrovate evidenti tracce della sacralità riconosciuta nei secoli al luogo del primo tracciato realizzato in età romulea (metà dell’VIII sec. a.C.).

Carandini ricorda che, in tempi antichissimi, proprio in quei giorni di aprile si celebrava sul colle Palatino la festa della dea Pales, legata ai riti di fecondazione e riproduzione, al fiorire della primavera, alle nuove nascite. Un tempo propizio per una nuova fondazione…

Ritorniamo dunque alla storia di Romolo e Remo e, saltando indietro di fotogramma, ritroviamo i gemelli a osservare il cielo e il volo degli uccelli, perché siano gli dei con i loro segnali a indicare chi dei due sarà il fondatore della nuova città.

La scelta cade su Romolo, che riceve segnali di gran lunga più favorevoli.

Il giorno 21 aprile, sul Palatino Romolo svolge dunque il rito di fondazione, in un’unica giornata, come momento primigenio di Roma.

 

Siamo a metà dell’VIII sec. a.C.: in questo periodo vengono fondate molte città in area mediterranea, secondo un rito che dà forma di città ad agglomerati di piccoli popoli già precedentemente stanziati nel territorio di riferimento.

Allo stesso modo, prima di Roma, è attestata per secoli una rilevante presenza di abitati sui colli, nonché una forte frequentazione del guado del Tevere costituito dall’Isola Tiberina.

Quindi Romolo fonda Roma sul Palatino creando un luogo di riferimento sacro e civile per le genti stanziate nel territorio, che riconosceranno entro quella piccola area la propria identità, i propri dei, l’autorità comune da cui farsi guidare. Un primo vero Stato.

 

E ancor oggi, da circa XX secoli, nei giorni intorno al 21 aprile, a mezzogiorno, si può assistere a Roma, dentro il Pantheon, a un effetto speciale ante litteram: il sole entra nel celebre oculus alla sommità della cupola, con un’inclinazione tale da creare un fascio di luce che cade perfettamente sul portale d’ingresso.

 

 

In antico, la magniloquente scenografia permetteva, a quell’ora esatta, una straordinaria visione: l’imperatore che varcava la soglia del tempio immerso nella luce.

Si perpetua così ancor oggi uno dei sogni luminosi dell’imperatore Adriano: glorificare Roma nel giorno della sua fondazione, facendo giocare l’architettura del Pantheon con il volgere eterno della luce solare.

 

Dott. Maria Cristina Zitelli

Elaborazione grafica immagini Cesare Restaino




CUORE DI DONNA ETRUSCA

In occasione della Festa della Donna dell’8 marzo scopriamo la donna nella civiltà etrusca.

 

La società etrusca colpiva gli osservatori contemporanei, in particolare quelli greci.

Li colpiva lo stile di vita delle classi aristocratiche, la ricchezza e il lusso, i meravigliosi gioielli che impreziosivano acconciature e vesti.

Ma ancor più li stupiva il comportamento eccezionalmente libero delle donne etrusche.

Infatti, nella generalità delle testimonianze riguardanti le antiche civiltà, la donna appare come subalterna all’uomo, dedita alla generazione dei figli, alla casa, alla filatura, a un comportamento morigerato, a una vita silenziosa e quasi invisibile.

Invece le donne etrusche partecipavano attivamente alla vita sociale, spesso sapevano leggere e scrivere, potevano essere titolari di attività economiche, mantenevano il patronimico (nome del padre) anche da sposate.

 

Sarcofago degli Sposi da Cerveteri. Elaborazione grafica di Cesare Restaino

Sarcofago degli Sposi da Cerveteri, presso Museo Etrusco di Villa Giulia

 

La più nota iconografia etrusca, dalle tombe dipinte, alle sculture, alle decorazioni vascolari, testimonia vivacemente questa realtà, raccontata da storici e scrittori greci e romani per manifestare ai posteri il loro grande scandalo a fronte di tanta libertà femminile.

Un simile contesto si riferisce in particolare al ceto benestante etrusco.

Pensiamo per esempio agli affreschi tombali di Tarquinia: mostrano per lo più scene di vita nobile e spensierata in cui donne raffinate ed eleganti partecipano insieme agli uomini a sontuosi banchetti.

E i corredi funebri femminili del ceto aristocratico ci restituiscono oggetti eccezionalmente ricchi e preziosi.

Le iscrizioni funebri ci parlano di donne dotate di nome proprio (Larthia, Thesathei, Velelia…), fatto davvero straordinario se si pensa che a Roma le donne, fino alla tarda età repubblicana, venivano denominate esclusivamente con il nome della gens, ovvero della famiglia alla quale appartenevano (Iulia, Claudia, Cornelia…Nella famiglia, poiché il nome femminile era sempre lo stesso, era necessario distinguere le donne aggiungendo  Maior, Minor, Prima, Secunda…).

Le testimonianze relative alla straordinaria posizione della donna etrusca si riferiscono in particolare al mondo italico del VI e del V secolo a.C., in connessione con la vigorosa ondata di benessere economico che interessò l’area dell’Etruria propriamente detta (Toscana, alto Lazio e Umbria).

Con il IV secolo a.C. la condizione sociale della donna etrusca perse gradualmente la sua autonomia e regredì assimilando i modelli di vita greci e romani, con i quali i contatti erano diventati sempre più intensi.

Danzatrice dalla Tomba dei Giocolieri

Danzatrice dalla Tomba dei Giocolieri

 

Le nobili donne etrusche dedicavano molto tempo alla cura della loro bellezza, come lasciano immaginare alcune iscrizioni e le testimonianze iconografiche.

Usavano specchi, strumenti di vario tipo e bellissimi unguentari; amavano vestire elegantemente, evidenziando le loro belle forme e indossando elaboratissimi e ricchi gioielli.

Molto varie e articolate sono le pettinature testimoniate nei ritratti nel VI secolo a.C.: lunghe trecce pendevano sul seno e sulle spalle delle donne, mentre in seguito troviamo l’uso di raccogliere i capelli in una reticella o in ciocche spesse e tirati all’indietro.

Consorti di uomini importanti, nobili, ricchi, colti, queste erano donne evolute, che uscivano spesso di casa, non rinunciavano a stare al fianco dei loro mariti, amavano i piaceri della vita, i banchetti raffinati, musica e danza.

Si dedicavano anche alla tessitura e la filatura, come testimoniano pesi di telaio, fuseruole e rocchetti, facendosi piacevolmente aiutare dalle ancelle.

Alcuni morsi di cavallo ritrovati nei corredi femminili lasciano immaginare anche un’autonomia di movimento della donna etrusca, che forse viaggiava senza essere necessariamente accompagnata.

Ritorniamo alle fonti storiche che ci parlano del mondo etrusco: sono fonti greche e romane che osservano e riportano tutto alla luce della loro morale.

Nella società greca e in quella romana, le uniche donne ammesse ai banchetti erano le meretrici e tali vengono considerate le donne etrusche da storici scandalizzati, come il greco Teopompo, vissuto nella metà del IV secolo a.C..

Velca, dalla Tomba dell’Orto a Tarquinia

 

Ecco poche frasi estratte dal racconto di quest’ultimo:

“… Esse (le donne etrusche) curano molto il loro corpo facendo esercizi sportivi da sole o con gli uomini. Non ritengono vergognoso comparire in pubblico nude, stanno a tavola non vicino al marito ma vicino al primo venuto dei presenti e brindano alla salute di chi vogliono, sono forti bevitrici e molto belle da vedere.”

In molti corredi tombali femminili sono stati ritrovati i calici, le brocche e gli altri utensili caratteristici del simposio, il banchetto in cui si beveva insieme: questa era un’usanza tipicamente greca, riservata esclusivamente agli uomini, mentre gli etruschi rappresentano tranquillamente anche le donne nella loro piena partecipazione alla festa accanto agli uomini.

E’ davvero affascinante immaginare un mondo così diverso, così autonomo nel contesto delle civiltà italiche, dotato anche di una lingua molto diversa da quelle dei popoli limitrofi.

Un quadro che continua ad alimentare un certo mistero che avvolge questo popolo, una nebbia che, attraverso ampi studi e ricerche, va diradandosi sempre più, svelandoci una tenera e inattesa familiarità con questi nostri antenati.  Per questo possiamo addirittura sentirci “Etruschi nel cuore”(*).

 

(*) Titolo del libro che scritto da Maria Cristina Zitelli e Cesare Restaino, pubblicato su Amazon.

 

 

Dott. Maria Cristina Zitelli
Fotografie: elaborazione grafiche di Cesare Restaino