Tomato Red di Daniel Woodrell

La vita gioca duro quando sei nato dall’altra parte della ferrovia e vivi sull’altopiano degli Ozarks, nel Missouri, nella cittadina di West Table. Un’ambientazione che non regala nulla e, fin dalle prime pagine, segna con fermezza i limiti entro i quali si muovono i protagonisti di Tomato Red di Daniel Woodrell edito da NNEditore

Nascere in una baracca nella zona più degradata della città; vivere a ridosso delle rotaie con il passaggio del treno che ne scandisce il tempo; condividere il quotidiano con chi non ha altra compagnia se non quella dell’alcool e delle droghe; elementi che non permetteno di immaginare nessun altro futuro se non quello che un destino beffardo ha già disegnato per loro.

“Il nostro futuro a West Table è stato deciso e stabilito lo stesso giorno in cui siamo nati […] Perciò un qualsiasi altro posto andrà benissimo”

L’io narrante di Tomato Red è il giovane Sammy Barlach che, dopo una giornata a drogarsi con altri ragazzi, si introduce in un’abitazione ricca per rubare ma i compagni lo abbandonano e finisce per addormentarsi su una poltrona. Sarà svegliato da Jamalee, la ragazza dai capelli rossi, la Tomato Red del titolo, e il fratello Jason. I fratelli Merridew si sono intrufolati nella stessa casa ma non con l’intento di rubare bensì con l’idea di fingersi ricchi e abituarsi a vivere nel lusso e nel benessere. Usciranno insieme da quella casa per dare l’avvio ad una convivenza sconclusionata, claudicante e assurda ma che rappresenta, ciascuno per una caratteristica diversa, quanto di più vicino ad una famiglia i tre possano mai ambire.

Tomato Red potrebbe essere un noir, un giallo o un punto di partenza per un hard boiled come suggerisce la nota del traduttore Guido Calza. In qualsiasi genere lo si voglia inserire nella sua trama è inserita la morte di un personaggio solo che l’evento non è di per sé il fulcro del romanzo  stesso quanto un ulteriore elemento scontato di una vita di inevitabili e ineluttabili sconfitte.
Non è più rilevante risolvere quella morte e scoprire se sia un omicidio, un suicidio, un regolamento di conti o un semplice incidente. Quella morte rappresenta un altro elemento nefasto da aggiungere ad una vita che null’altro può offrire se non quell’appiccicoso degrado e quell’accanita povertà che pervade ogni cosa.

 

 

Daniel Woodrell è abile con il suo stile asettico, immediato e privo di inutili fronzoli a scaraventa il lettore in una realtà così brutale e spietata da non far filtrare alcuna possibilità di riscatto riuscendo ad offuscarne anche il semplice pensiero di un eventuale futuro alternativo. Tutto risulta fermo, immobile, ovvio, scontato e ogni avvenimento non sorprende ma appare come una naturale conseguenza.

Magistrale la sua capacità di trasformare gli oggetti inanimati in elementi integrali e funzionali alla drammaticità della realtà che vivono i protagonisti. Woodrell anima gli oggetti come per addensare ancora di più quelle grate entro le quali i personaggi sono relegati, imprigionati

“La parte peggiore di luglio era piombata sulla città in anticipo, nell’ultima settimana di maggio, e rovinava piani ovunque andasse”

“Avevo parcheggiato di fronte alla chiesa. Era una struttura acuminata, di un bianco lucente, e sembrava pronta a strapazzarmi con prediche, rimproveri e spaventosi passi della Bibbia se solo avessi camminato su quel marciapiede”

“Il caldo aveva reso gli alberi lungo le strade tronfi e avari della propria ombra. Per giunta avevano fatto un accordo con il vento perché non soffiasse, così il valore di quell’ombra era salito alle stelle”

Il mese di luglio, un marciapiede, l’ombra degli alberi. Elementi di contorno ai protagonisti che sembrano delimitarne ancora di più il futuro, posizionati come paletti dei confini entro i quali muoversi, per immobilizzarli al loro posto senza soluzione di continuità.

“Sammy, a te non piacerebbe combinare qualcosa? In futuro? Contare qualcosa?” […] Nah. Io penso solo che tirerò avanti, accumulerò giorni, capisci, fino a quando farò una cazzata così grossa che il futuro verrà disdetto. O magari deciso da qualcun altro al mio posto. Ci sono buone probabilità anche per quello.”

Tomato Red rappresenta un’eccellente presentazione di come la casualità della nascita di un individuo possa determinarne inequivocabilmente il destino. Sintetizza in poco meno di 200 pagine, con scene indelebili quasi fossero fermi immagini, i turbamenti, i timori, i sogni e i turbamenti di qualsiasi generazione che guardi al futuro quando ogni cosa attorno non faccia altro che additarli come falliti, inconcludenti e perdenti.

Tomato Red appare come un manifesto di sconfitta per la cecità della società stessa, malata per il suo sistema automatico di infliggere e condannare senza indugio, incanalando il destino degli esseri umani.
Il romanzo è un grido di dolore che mette in luce l’intima desolazione e disarmante impotenza di chi, semplicemente, vive dall’altra parte della ferrovia.




L’ISOLA DEGLI ALBERI SCOMPARSI di Elif Shafak

L’ISOLA DEGLI ALBERI SCOMPARSI

di Elif Shafak

Ed. Rizzoli

 

 

Il tempo umano è lineare, un continuum uniforme tra un passato teoricamente finito e concluso e un futuro che si ritiene intatto, immacolato.

Il tempo arboreo è ciclico, ricorrente, perenne; passato e futuro respirano in un unico istante, e il futuro non scorre per forza in un’unica direzione…

Sono incompatibili, il tempo umano e il tempo vegetale.

 

L’isola degli alberi scomparsi di Elif Shafak è una bella lettura; la copertina mi aveva colpito mentre spulciavo in una libreria del quartiere romano del Testaccio. Lì per lì non l’ho acquistato, ma mi è rimasto dentro; poche settimane dopo l’ho ritrovato a casa di una cara amica, preso in prestito e letto, subito, tutto d’un fiato.

L’immagine rappresenta una pianta di fico, nata e cresciuta a Cipro, al sole, al caldo, tra amori, guerre, felicità e disperazione.

La pianta viene trapiantata in Inghilterra, rappresenta un filo che mantiene unite persone e ricordi di una terra lontana; il freddo e la nebbia non le hanno impedito di continuare a vivere, silenziosa testimone di dolori e gioie, nascite e morti.

Elif Shafak ci racconta le storie di famiglie, di amanti e di amici a Cipro, nella sua capitale Nicosia: l’unica città al mondo ancora divisa in due da una guerra che non ha riportato vittorie, ma solo sconfitti.

Due sono le voci narranti in questa storia: inizia Ada figlia di un amore che non conosce confini, etnie e religioni. Poi segue la pianta di fico, che fa da filo conduttore, osserva e vede tutto, ricorda. Un velo di mistero circonda questa pianta che sembra avere un’anima umana.

 

L’amore è una spavalda affermazione di speranza, e quando comandano morte e distruzione non si abbraccia la speranza.

Non si indossa il vestito più bello e non ci si infila un fiore tra i capelli quando si è circondati da schegge e rovine.

Non si regala il cuore quando ogni cuore deve restare sigillato, e soprattutto non a quelli che non credono nella nostra religione, non parlano la nostra lingua, non sono del nostro sangue.

 

L’isola degli alberi scomparsi  è scritto in modo liscio, non stucchevole né tantomeno lamentoso.

Ci immerge in vite segnate, a volte mortalmente, da un conflitto senza ragioni, perché la guerra non ne ha mai.

Elif Shafak ci fa commuovere, sperare e anche assaporare usi e costumi di popoli in effetti neanche troppo lontani; in questa bella storia, non ci sono né greci, né turchi, ma solo isolani, ciprioti.

Dopo il primo breve capitolo che fa da introduzione e anche quasi da riassunto, ci ritroviamo in una classe di un liceo, a fine 2010, a Londra: Ada, una delle due voci narranti, 16 anni all’improvviso emerge dal suo silenzio, e urla.

Un urlo che sconvolge chi ha intorno, un urlo che chiede verità, perché solo la verità potrà permettere ad Ada di superare la perdita e guardare fiduciosa verso il suo futuro.

Ho riflettuto molto sul titolo di questo romanzo, perché a Cipro non sono scomparsi gli alberi, a Cipro sono scomparse le persone.

 

 

SINOSSI

Siamo a Londra, e qui vive Ada, figlia sedicenne di Kostas, esule greco fuggito da Cipro durante la guerra.

Nella loro casa c’è una pianta di fico, sopravvissuta grazie ad una talea, trasportata nella stiva di un aereo e trapiantata a Londra; unico legame con quella terra dilaniata dal conflitto, e con quelle famiglie divisa da usi e religione.

A casa di Ada e Kostas arriverà improvvisamente Meryem, sorella di Dafne la madre turca cipriota di Ada, morta da pochi mesi.

Grazie alla zia, inizialmente quasi odiata, Ada prenderà consapevolezza delle sue origini e acquisterà quella coscienza di sé che gli era stata inibita da anni di silenzi.

 




OLIVA DENARO di Viola Ardone

OLIVA DENARO

Di Viola Ardone

Ed. Einaudi

 

 

 

“La femmina è una brocca: chi la rompe se la piglia, così dice mia madre”.

 

Viola Ardone è una scrittrice contemporanea dalla penna che scava, e non ha remore mentre scrive e denuncia; nel suo ultimo romanzo “Oliva Denaro” ci fa calare in un tunnel buio e aspro che sembra non avere fine.

Di miseria si parla, ma soprattutto di donne, anzi di femmine, al plurale perché al singolare non si può neanche dire.

 

“La donna singolare non esiste. Se è in casa, sta con i figli, se esce va in chiesa o al mercato o ai funerali, e anche lì si trova insieme alle altre. E se non ci sono femmine che la guardano, ci deve stare un maschio che la accompagna.”

 

Il sostantivo femmina la dice lunga, non donna, ma femmina, come una pecora, o una vacca. Fino ai primi anni ‘60 questa era la condizione delle donne, al pari di un animale, o di un oggetto; asservite ad una società patriarcale, bigotta, nella quale anche il solo alzare lo sguardo, era peccato.

Oliva ci viene subito tracciata con due personalità opposte: la prima è quella di una persona che si rende conto di avere un proprio pensiero, e di volerlo esternare a dispetto di tutto e tutti. La seconda è invece quella di una figlia che tenta di non far addolorare sua madre, di somigliarle, di fare e dire solo ciò che si deve. E il dire, secondo la mentalità del periodo, per una donna, anzi femmina, è veramente ridotto al niente.

Ci sembra, oggi, così naturale leggere di autrici e poetesse, politiche e dottoresse. Ma l’essere donna e non femmina è il risultato di lunghe battaglie e di atroci sofferenze tutt’ora non del tutto sopite.

Leggendomi noterete che ripeto e ripeto ancora quel sostantivo animalesco, non è un refuso e neanche un errore o una svista.

Voglio sottolineare, scrivendolo più volte, la sua accezione dispregiativa che fa male; considerate che parliamo di situazioni vissute fino a poche decine di anni fa, e non di medioevo o prima ancora.

Il tratto che usa la nostra Ardone, ha un forte sentore di sofferenza, i colori sono scuri, la paura è dietro ogni angolo.

 

E così sono le paure: sono porte che esistono solo fino a quando non abbiamo il coraggio di attraversarle.

 

I caratteri della Ardone cambiano quando descrive il padre di Oliva, o è lui che parla: un omuncolo a detta di molti nel paese, a volte anche sua moglie lo definisce così.

È invece un padre sui generis: lui la figlia la capisce più di tutti gli altri, e la sorregge, e l’aiuta a rialzarsi con una forza e con una determinazione che non sembra essergli propria.

Oliva Denaro non è un romanzo che ci lascia con delle domande, negli ultimi capitoli risponde a tutto ciò che il lettore vorrebbe. Sul finale poi, abbiamo due voci differenti, al contrario di ciò che accade prima, e che ci viene narrato esclusivamente in prima persona dalla protagonista.

Prima di chiudere il libro, o anche prima di iniziarlo, provate a fare l’anagramma del titolo.

 

SINOSSI

Oliva Denaro è una ragazzina che vive in un paese della Sicilia. Cosimino, suo fratello, può correre, fare tardi, può esercitare una libertà che a lei è negata. Perché Oliva Denaro è nata donna e come dice sempre la madre…

 




Tre giorni a Berlino di Christine de Mazières

Il Muro di Berlino attraverso gli occhi dei berlinesi dell’Est

Tre giorni a Berlino è l’esordio letterario di Christine de Maziéres pubblicato in Francia nel 2019 in occasione dell’anniversario dei 30 anni dalla caduta del Muro di Berlino e pubblicato in Italia nel settembre del 2021 grazie alla casa editrice Edizioni Clichy.

Nei Tre giorni a Berlino si vivono, attraverso le voci di diversi protagonisti, le emozioni, lo stupore e le speranze della notte del 9 novembre 1989 quando, nel corso della conferenza stampa, il funzionario Schabowski, del Partito Socialista Unificato della Germania nella Repubblica Democratica Tedesca, annuncia, per errore, la possibilità per tutti di attraversare liberamente il confine, dando il via alla pacifica caduta del Muro di Berlino.

Il primo narratore è Cassiel, l’angelo protagonista del film “Il cielo sopra Berlino” di Wim Wenders, che apre il romanzo con un incipit incisivo:

«Arrivano a piccoli gruppi, silenziosi, come se andassero a spasso, mani in tasca, facendo finta di niente. Affluiscono da tutte le direzioni verso il posto di confine di Bornholmer Strasse, curiosi ma un po’ timorosi»

Timorosi perché nessuno si aspettava un “tana libera tutti”, nessun cittadino da quella parte del muro era davvero pronto ad un evento del genere. La situazione era cambiata con l’arrivo di Gorbačëv al Cremlino e l’avvio delle riforme della perestrojka; si respirava un’aria di cambiamento ma nessun berlinese dell’Est poteva immaginare che quel momento tanto desiderato potesse capitare così, all’improvviso e addirittura con un messaggio lanciato dalla televisione.

Tre giorni a Berlino è un romanzo corale. Abbiamo Anna, una giovane francese innamorata di Berlino e della lingua tedesca; c’è Micha, figlio di un membro del Comitato centrale al quale hanno da sempre rifiutato qualsiasi domanda di espatrio; c’è Tobias, scomparso nel mare nel tentativo di attraversarlo a nuoto per fuggire e poi c’è Lorenz, Hanno, Niklas e c’è lo stesso Schabowski e tanti altri.

Le loro voci delicate sembrano prendere per mano il lettore per condurli dall’altra parte, nei loro sogni, in quella speranza di trovare oltre quel muro che li protegge dal mondo capitalista, uno stile di vita che possa ridare un senso e un significato alla vita stessa.

Sono uomini nati da quella parte del muro «Al sogno di un socialismo dal volto umano ci avevamo creduto, i miei amici e io» fino a quando, crescendo, hanno iniziato a ricevere informazioni, a vedere le scene della primavera di Praga, a iniziare a dubitare, a percepire in modo diverso quel mondo imperialista dal quale doveva difendersi.

«Visto che la ribellione aperta era un suicidio, molti si sono immersi in quella che abbiamo finito per chiamare l’emigrazione interiore; ciascuno si ritirava nella sua bolla, nella sua nicchia. Si leggeva, si faceva musica, ci si disinteressava della collettività»

Quello che amo di più nei libri è proprio quel condurmi in periodi storici, luoghi e emozioni che, in una sola vita, nessuno di noi potrebbe mai sperimentare. Entrare nelle pagine di Tre giorni a Berlino è vivere le stesse palpitazioni, quel medesimo senso di fratellanza e di gioia sconfinata che si è respirato a Berlino la notte di quel 9 novembre di più di trent’anni fa, quando per la prima volta Berlino divenne un’unica grande città, e cittadini sconosciuti si sono stretti l’uno all’altro finalmente liberi di muoversi senza controlli.

Ma, nello stesso tempo, Tre giorni a Berlino, è sentire tutte le paure che i berlinesi dell’est hanno vissuto per decenni, è percepire tra le righe cosa significhi non essere liberi, non potersi muovere e agire ed essere sempre sotto controllo, senza via d’uscita e senza possibilità di fuga.

 

Tre giorni a Berlino merita di essere letto perché il passato non va mai dimenticato.

 




TRE PIANI di Eshkol Nevo

TRE PIANI

Di Eshkol Nevo

Ed. Neri Pozza

 

 

Questa settimana vi propongo storie in una palazzina signorile di tre piani, all’esterno della quale non si sentono quasi rumori, solo ordine e silenzio, ogni tanto un po’ di musica. Ma dietro quest’apparente serenità, si celano vite mal vissute e segreti inconfessabili.

Eshkol Nevo, scrittore israeliano vissuto tra Israele e gli Stati Uniti, dopo una carriera da pubblicitario, oggi insegna scrittura creativa e ha vinto numerosi premi con i suoi libri.

In questo ultimo e coinvolgente romanzo, ci trasporta in una terra lontana, con famiglie medio borghesi, dalle abitudini e dai costumi tanto diversi dai nostri.

Con uno stile leggero ma non superficiale, affronta temi esistenziali propri a molti di noi, utilizzando l’escamotage dei tre piani dell’anima di Freud, ci fa addentrare nella parte più intima dei protagonisti.

 

Dopo mi sono ritrovata davanti al nostro palazzo, […] e d’un tratto mi è apparso, come dire, misero.

Non misero, oltraggioso.

Il parcheggio ordinatissimo. Numerato. Il logo del posto di lavoro appiccicato sul paraurti di tutte le auto. Le piante perfettamente potate all’ingresso. Il citofono appena rinnovato. Le caselle della posta, nemmeno una rotta. Nessuna con più di due cognomi. Le biciclette sorprendentemente ordinate. Sorprendentemente legate. Il silenzio che tanto ci piaceva. Non c’era musica ad alto volume. Da nessun appartamento arrivavano le voci di un litigio.

Insopportabile.

 

Tre piani, tre storie drammatiche di famiglie, apparentemente felici, serene.

Al primo piano l’Es di Freud, la personificazione di tutte le nostre pulsioni e istinti, il cui attore parla ad un caro amico, cui ha chiesto aiuto.

Al secondo abbiamo l’Io: la nostra protagonista scrive una lettera alla sua amica di sempre descrivendole fatti  e sogni della sua vita, spesso mischiati e confusi tra loro.

E all’ultimo piano, il terzo, si trova il Super-Io: sua altezza lo nomina il personaggio parlando con la segreteria telefonica.  Il Super-Io con severità ci obbliga a tener conto di quanto il nostro agire abbia influenza su ciò che ci circonda, sulla società.

Quando giriamo l’ultima pagina e ne troviamo una bianca, ci rendiamo conto improvvisamente che il libro è finito, che Eshkol Nevo ci ha donato un romanzo intenso i cui personaggi sono persone capaci di rialzarsi dopo i colpi che la vita sferra loro.

Chiudiamo con la conferma che se parliamo con qualcuno, non saremmo mai soli.

A meno di 100 pagine dalla fine, uno degli incipit più famosi di tutta la letteratura, a voi la capacità di trovarlo!

 

I tre piani dell’anima non esistono dentro di noi.

Niente affatto! 

Esistono nello spazio tra noi e l’altro, nella distanza tra la nostra bocca e l’orecchio di chi ascolta la nostra storia.

E se non c’è nessuno ad ascoltare, allora non c’è nemmeno la storia.

 

SINOSSI

In Israele, non lontano da Tel aviv, in una non ben definita località, sorge una palazzina di tre piani abitata da famiglie medio borghesi.

Al primo piano ci sono Arnon ed Ayelet con le loro due figlie, e i loro anziani dirimpettai: Ruth ed Hermann, ai quali i primi affidano spesso la loro primogenita Ofri.

Al secondo piano vive Hani, anch’essa madre di due bambini,  si sente molto sola, suo marito è spesso assente per motivi di lavoro.

Al terzo abbiamo Dovra, giudice in pensione rimasta vedova da un anno e il cui figlio si è escluso dalla sua vita da tanto tempo.

 




America non torna più di Giulio Perrone

Romanzo autobiografico sul doloroso rapporto tra padre e figlio pubblicato da HarperCollins

 

America non torna più è il nuovo romanzo di Giulio Perrone, editore dell’omonima casa editrice romana fondata nel 2005, pubblicato da HarperCollins e in tutte le librerie dal 16 settembre.

È un romanzo intimo e doloroso dove l’amore mai dichiarato in modo esplicito e le diverse aspettative e prospettive sulla vita tra Giulio e Giampiero, il padre,  creano un profondo e lacerante strappo al figlio che si acuisce nel momento in cui è costretto ad affrontare la lunga malattia e  infine morte.

Detto così può apparire una trama scontata invece America non torna più ha una forza dirompente nuova sia per lo stile intimistico che per le frasi secche e prive di fronzoli che non tentano di addolcire e intenerire il lettore ma, al contrario, lo prendono per mano per condurlo nel dialogo personale e profondo di un uomo.

 

Giulio Perrone riesce a denudarsi offrendo un romanzo inteso. Perché non si sceglie un padre. È quello. E non puoi fare altro che accettarlo anche se condiziona le tue scelte, ti indica la strada, ti costringe giorno dopo giorno a seguire i propri sogni e non quelli che senti preponderanti dentro di te. Una convivenza obbligata che crea uno scontro che si prolunga nel tempo, come un’abitudine, un modo di essere, uno stile di vita,  fino a quando ciò che non vorresti mai arriva improvvisa: una malattia con un finale inevitabile e allora ecco che torni con i ricordi a rubare piccoli momenti che avresti potuto vivere diversamente, silenzi che avresti potuto colmare, assenze che avresti potuto distillare.

«Ma per l’ennesima volta sento che sto dando ragione a mio padre e alle scelte fatte per accontentarlo.
Nella vita mi sono fermato sempre un passo prima del conflitto.»

America non torna più mette a nudo, con uno stile coraggioso, i pensieri intimi di un uomo.  È una delicata storia d’amore, un amore mai dichiarato apertamente che evidenzia una difficoltà, molto maschile, di esternare e di esprimere i sentimenti. Nei momenti di massimo dolore e rabbia Giulio reagisce con azioni di forte impatto come scaraventare la bottiglia di vino per terra o sfogarsi con un atto sessuale proprio nella stanza accanto al padre morente. Azioni che contrastano con la delicatezza del ritmo intimistico di Giulio Perrone ma che sono espliciti elementi del rovente dramma interiore.

«Siamo soli, ai due lati della stanza.
E stavolta non c’è soluzione.
Resta il silenzio che non hai la forza, la voglia, il desiderio di interpretare neanche tu.»

America non torna più, un padre e un figlio e il loro amore silenzioso, fatto di piccoli gesti, di sguardi rubati, a volte più di scontri che di incontri, che sbatte improvviso con la ineluttabilità della vita, nel suo scorrere lento verso la fine, una fine che arriva davvero perché «Siamo destinati a disperderci anche nella testa di chi ci ha amati»

E allora ecco che il ricordo che custodiamo delle persone care diventa il vero protagonista di questo romanzo aprendo una visione molto più ampia del semplice rapporto padre/figlio.

«Ricordi come possibili raccolte di ricordi.»

Un tema che mi ha piacevolmente ricordato Javier Marìas ne Gli innamoramenti e Due vite del premio Strega 2021 Emanuele Trevi quando dichiara: «Perché noi viviamo due vite, entrambe destinate a finire: la prima è la vita fisica, fatta di sangue e respiro, la seconda è quella che si svolge nella mente di chi ci ha voluto bene

America non torna più è un’autobiografia audace e coraggiosa che merita di essere letta e riletta.




Ragazza, donna, altro di Bernardine Evaristo

Prima scrittrice afro-discendente a vincere il Booker Prize nel 2019 insieme a Margaret Atwood

Ragazza, donna, altro di Bernardine Evaristo è un romanzo uscito a novembre 2020 per Edizioni Sur.

Raccoglie la storia di dodici donne nere che vivono una Londra frenetica, caotica e conservatrice. È sostanzialmente, un romanzo che, attraverso una scrittura che gratta via ogni inutile orpello, raggiunge l’anima intima di ogni protagonista mettendo a nudo le proprie origini, le proprie tendenze sessuali, le proprie sventure per innalzare ogni personaggio a puro e essenziale essere umano.

Un tipo di scrittura che già di suo dichiara di voler superare i limiti racchiusi nella scrittura stessa abolendo la punteggiatura e utilizzando i capoversi come vessilli poetici creando un flusso narrativo coinvolgente e sconvolgendo. Impossibile perderne il ritmo. Si viene completamente trasportati dalla forza della prosa e ciascun personaggio diventa, per quel capitolo, protagonista unico e insostituibile.

Dodici donne diverse per età, status culturale, classe sociale, orientamento sessuale e origini ma che riescono ad essere donne libere perché cariche della ricchezza di sentirsi, a prescindere dal proprio retaggio, esseri umani.

“devi trovare le persone che hanno voglia di diventare tue amiche, anche fossero tutte persone bianche”

Amma, Yazz, Dominique, Carole, Bummi, LaTisha, Shirley, Winsome, Penelope, Megan/Morgan, Hattie, Grace sono donne con il fuoco dentro e determinate a superare i propri limiti, a sfidare i preconcetti, ad abbattere i muri. Sono donne capaci di andare avanti, nonostante tutto e tutti.

La storia di ciascuna di loro si interseca con quella delle altre, a volte in grado di parentela, a volte legate da un senso di amicizia intensa, a volte solo per essere una la docente e l’altra la discente, ma, fondamentalmente, l’intreccio che le sostiene e le accomuna è quello spirito guerriero di esseri umani liberi.

Sono donne consapevoli dei propri difetti, delle proprie mancanze, con tutte le paure e le loro incoerenze che, grazie alla bravura della Evaristo, affrontano tematiche attualissime come l’orientamento di genere, la violenza di gruppo, il bullismo, il razzismo e la povertà.

Sono dodici donne cariche della consapevolezza a non lasciarsi abbattere e ricche di un’energia straordinaria così contagiosa per i lettori, al punto che non è possibile leggere Ragazza, donna, altro e non provare uno struggente senso di sorellanza e, ahimè, di nostalgia quando si giunge alla fine.

Consigliatissimo.

 

nessuno raccontava a gran voce di essere cresciuto in una palazzina di trenta e passa piani delle case popolari, con una madre vedova che lavorava come donna delle pulizie

nessuno raccontava a gran voce di non essere mai andato in vacanza in vita sua, neanche una volta

nessuno raccontava a gran voce di non aver mai preso un aereo, visto uno spettacolo a teatro o il mare, o mangiato in un ristorante, di  quelli con i camerieri

nessuno raccontava a gran voce di sentirsi troppo bruttoscemograssopovero o semplicemente fuori luogo, fuori contesto, un pesce fuor d’acqua

nessuno raccontava a gran voce di aver subito uno stupro di gruppo a tredici anni e mezzo




CUCCETTE PER SIGNORA

CUCCETTE PER SIGNORA

Di Anita Nair

Ed. Neri pozza

 

 

In Cuccette per signora abbiamo un treno e sei donne che viaggiano nello scompartimento a loro riservato, perché fino al 1998 in India le donne potevano viaggiare in treno solo così.

Tutto il romanzo si snoda attorno ad Akhila che, all’età di 45 anni, finalmente trova il coraggio di iniziare la sua vita. Salendo sul treno, la protagonista si ritroverà in compagnia di 5 donne, e tutte insieme cercheranno di dare risposta al dubbio che le assilla:

 

 

“Può una donna restare single e felice,

o ha bisogno di un uomo per essere completa?”

 

 

Una scrittura delicata che ci trasporta in un mondo e in una società sconosciuta e lontana; attraverso la lettura si scopre una realtà contemporanea, spesso incomprensibile ai nostri cuori occidentali, e si apprezza la forza d’animo dell’autrice, che irrompe pagina dopo pagina.

Anita Nair scava nella psicologia di cinque donne molto diverse tra loro, senza mai cadere nel banale da stereotipo. Trasmette poi senza fronzoli la profondità della cultura indiana dai più piccoli particolari.

Scopriamo così ricette, antichi rituali, leggende di un popolo a noi molto lontano; nonostante le numerose differenze con la nostra cultura, leggendo, troviamo un pezzetto di noi in ognuna nelle storie di queste sei donne.

Desideri soffocati, umiliazioni subite per l’indifferenza dell’uomo, solitudini e sogni lasciati maturare nel corso di anni e anni di silenzi.

Sembra un romanzo destinato ad un pubblico prevalentemente femminile, e il genere maschile non ne esce molto bene, ma è invece un libro bellissimo, che ci fa venir voglia di viaggiare con la protagonista e raccontarsi, per sentirsi non più sole.

 

“È stato così da sempre;

l’odore di un binario di notte

invade Akhila con un senso di fuga”.

 

 

SINOSSI

Akhila non ha un marito, né figli, né una casa e una famiglia. Ha preso una sari rossa e nera dai colori molto intensi e l’orlo d’oro, ha comprato un biglietto di sola andata per un paese in riva al mare. Alle otto e mezzo di serra è arrivata alla stazione di Bangalore, con il cuore in tumulto è entrata nello scompartimento per signora, ha occupato il posto a lei riservato e, una dopo l’altra, conoscerà le sue compagne di viaggio.

Cuccette per signora è un romanzo intenso che con ironia e tenerezza narra della ricerca femminile della felicità.

Alla fine del libro, una raccolta di ricette di piatti indiani è la degna conclusione di una storia di sentimenti, profumi e colori dell’India.

 

 

 




La donna gelata di Annie Ernaux

Pubblicato in Francia nel 1981 è ora disponibile in Italia per L’Orma Editore

 

La donna gelata, romanzo della pluripremiata scrittrice francese Annie Ernaux, arriva in Italia quarant’anni dopo la sua pubblicazione ma i temi trattati e la freschezza della scrittura restano di feroce attualità.

Il romanzo, strutturato in forma autobiografia, scavalca l’intimità della protagonista narrando la situazione femminile in un contesto sociale e famigliare che non ha confini e, purtroppo, neanche tempo.

Nata e cresciuta in una famiglia dove i ruoli sono interscambiabili e dove l’unica cosa che conti davvero è la realizzazione professionale e la conquista della propria indipendenza economica, la piccola Annie cresce scontrandosi con tabù e limitazioni esterne che pesano come carico mentale millenario che vuole la donna realizzata solo nel matrimonio, nella nascita dei figli e nella cura e mantenimento della famiglia.

La protagonista vive in una famiglia dove i ruoli non hanno nulla di tradizionale, dove la madre tiene i libri contabili della drogheria e il padre cucina, legge le favole la sera e l’accompagna a scuola; la piccola cresce lontana dai retaggi che vogliono le bambine a giocare con le bambole e i maschi a fare gli eroi.

“Diventare qualcuno, per i miei, non aveva sesso… Mia madre è la forza e la tempesta, che mi dice di non aver mai paura di niente e di nessuno. Come avrei potuto, vivendo accanto a lei, non essere persuasa della magnificenza della condizione femminile, o persino della superiorità delle donne sugli uomini?”.

Lo stile di scrittura di Ernaux ha la forza di trasformare un pensiero personale in un pensiero collettivo, conducendo per mano ogni lettrice obbligata a soffermarsi spesso per riflettere tra sé e sé, che sì, anche lei ha pensato, vissuto e respirato quel pesante carico mentale da tutto l’ambiente interno e esterno in cui viviamo.

Dalla protagonista poco più che adolescente che si veste e si rende presentabile non per il semplice piacere di ammirarsi, per amor proprio, ma per catturare l’attenzione del maschio, quello che potrà sceglierla e, quindi, offrirle l’unico futuro possibile, quello di moglie, madre e regina del focolaio.

Alla donna ormai sposata e madre che si ritaglia a fatica spazi per riuscire a studiare per il concorso per l’abilitazione all’insegnamento, tra un salto dal macellaio tentando di fare le domande giuste da brava massaia, all’escogitare la cena sfiziosa per il marito che rientra dopo una faticosa giornata di lavoro al quale porgere il figlio, pulito, tranquillo e sistemato, da alzare in alto tra le braccia come un trofeo, per poi riconsegnarlo alla madre e dedicarsi al suo meritato relax.

La donna gelata è un libro che rivela la realtà dell’universo femminile, senza mezzi termini e senza tanti giri di parole.
Avrei voluto, con tutta sincerità, arrivare alla fine della lettura e dichiarare come il romanzo fosse antiquato e vecchio; purtroppo, per quanti passi avanti si siano fatti, sono ancora troppi i retaggi che la società si trascina dietro e il cammino, affinché una donna sia libera di realizzarsi nei propri sogni e obiettivi,  è ancora lungo e impervio.

 

 

 

SINOSSI

Una giovane coppia si sposa, condivide una casa, fa due figli. Anche se animata da ideali egualitari e progressisti, la famiglia presto si sbilancia e tutto il peso delle incombenze di ogni giorno ricade esclusivamente sulla moglie. Un’ingiustizia quotidiana, “normale”, che vivono moltissime donne. Con sguardo implacabile “La donna gelata” traccia un percorso di liberazione capace di trasformare l’inconfessabile orrore per la propria vita in coraggiosa e spietata presa di coscienza. Alternando l’impeto di una requisitoria alla precisione di un’indagine, Ernaux ci consegna un’analisi dell’istituzione matrimoniale che non ha uguali nella letteratura contemporanea.




ACCABADORA di Michela Murgia Ed. Einaudi

ACCABADORA

Di Michela Murgia

Ed. Einaudi

Fillus de anima.

È così che li chiamano i bambini generati due volte, dalla povertà di una donna e dalla sterilità di un’altra.

Un incipit così causa soltanto una reazione: prendi il libro in mano, e non lo lasci finchè non lo finisci.

Michela Murgia ti trascina in un mondo che la maggior parte di noi non conosce, fai quasi fatica a leggere i nomi dei protagonisti, a comprendere quel linguaggio che sembra provenire da una terra lontana.

Eppure con una scrittura limpida l’autrice ti catapulta dentro una piccola comunità, poche le persone che la compongono, ancor meno le parole che essi scambiano tra loro. Consuetudini di gesti e sguardi che esprimono più di tante parole.

Un romanzo “sussurrato” perché fatto di gente che parla poco e piano, perché affronta un tema delicato e doloroso come la malattia terminale e la richiesta di una morte assistita.

 

Io sono stata l’ultima madre che alcuni hanno visto.

 

In un posto quasi senza tempo, dove la tradizione e gli antichi rituali la fanno da padrone, tutti conoscono l’accabadora, e tutti sanno. Ma, sotto lo scialle nero, non c’è solo una donna che assiste coloro che stanno per morire, sotto quelle frange c’è una madre che la natura ha impedito che fosse.

Il  rapporto tra Maria e Tzia Bonaria Urrai è strettissimo, più di un legame di sangue, nonostante ciò,  “…in tredici anni che vissero insieme, nemmeno una volta Maria la chiamò mamma, che le madri sono una cosa diversa”.

Ad un certo punto quel legame sembra spezzarsi, Maria non accetta l’accabadora, la condanna, la rifugge, ma tornerà e capirà, la Bonaria l’aveva avvisata.

 

-Non dire mai: di quest’acqua io non ne bevo. Potresti trovarti nella tinozza senza manco sapere come ci sei entrata –

 

 

Il libro finisce, e all’ultima pagina già so che lo rileggerò perché Maria e Bonaria non sono due personaggi che ti lasciano andare tanto facilmente.

 

 

SINOSSI

 

Maria e Tzia Bonaria vivono come mamma e figlia, ma la loro intesa ha il valore speciale delle cose che si sono scelte. La vecchia sarta ha visto Maria rubacchiare in un negozio, e siccome nessuno la guardava, ha pensato di prenderla con sé, perché “le colpe, come le persone, iniziano a esistere se qualcuno se ne accorge”. E adesso ha molto da insegnare a quella bambina cocciuta e sola: come cucire le asole, come armarsi per le guerre che l’aspettano, ma soprattutto come imparare l’umiltà di accogliere sia la vita che la morte.

 

 




Una volta è abbastanza di Giulia Ciarapica

La storia di due sorelle e di un territorio: Casette d’Ete nelle Marche

Ci sono libri che oltre ad avere una trama intrigante e personaggi affascinanti, hanno la capacità di trasformare il territorio in un protagonista  elevandolo ad un ruolo importante e non solo come proscenio alle vicende narrate.

È ciò che mi è capitato leggendo il primo romanzo di Giulia Ciarapica, Una volta è abbastanza, pubblicato dalla casa editrice Rizzoli nel 2019, che fa parte di una trilogia, una vera e propria saga famigliare italiana.

Il romanzo si sviluppa entrando in punta di piedi nei ricordi del nonno, Valentino Verdini, che racconta alla nipote Oriana come abbia conosciuto la moglie Giuliana Betelli e sua sorella Annetta.

Una volte è abbastanza è la storia di due sorelle e del destino che si sono costruite nell’arco degli anni che vanno dal dopoguerra fino all’avvento della televisione. Anni di sacrificio in una paese marchigiano dove si inizia a lavorare all’alba e si finisce quando il sole tramonta dietro le colline, in scantinati bui e laboratori affollati dove tutti sono intenti a battere chiodi, incollare suole e a passare il mastice per costruire le scarpe.

Un romanzo che trasuda orgoglio e fierezza per le proprie radici, per i propri compaesani, per la loro determinazione e inesauribile forza che li spinge a costruirsi un futuro migliore nonostante le difficoltà e il periodo storico che vivono. Sono marchigiani, esattamente come lo è l’autrice, e si percepisce benissimo come quell’intorno che sovrasta la storia del libro non sia un semplice corollario per accomodare meglio i personaggi bensì rappresenti un profondo atto d’amore di Giulia Ciarapica verso la propria terra natia, Casette d’Ete nelle Marche.

Ma torniamo alle due sorelle.

Giuliana e Annetta sono una l’opposto dell’altra e, senza togliervi la sorpresa di appassionarvi a loro anticipandovi le loro gesta, eccomi che torna  la capacità di Giulia Ciarapica di mettere in chiaro come il rispetto tra due persone sia la base solida di ogni relazione. Si può vivere lontane o restare vicine; parlarsi sempre o restare in silenzio per lungo tempo, ma quando si ha realmente bisogno l’una dell’altra, è fondamentale esserci, nonostante tutto.

Ed è questo profondo rapporto di sangue tra le sorelle, il radicale attaccamento alla famiglia che si rivela autentico e fresco nelle parole che Giuliana urla a Annetta, parole che chiunque vorrebbe sentirsi dire almeno una volta nella vita:

 

«Che se ora mi sbatterai fuori di casa, perché sei testarda, menefreghista e presuntuosa, io tornerò domani, dopodomani e domani l’altro. Tornerò fino a quando non mi farai neanche più entrare. Anche quando non potrà più metterci piedi, io aspetterò là fuori. […] io sarò lì accanto a te, pronta a rinfacciarti ogni gesto, ogni parola storta, pronta a dirti che non ci si comporta come fai tu, che non puoi governare la vita degli altri, che non sei il dittatore di nessuno, tranne che di te stessa.[…] Sei una delle donne più egoiste che io abbia mai conosciuto, riesci a passare sopra ai sentimenti della gente come un carro armato; non sono mai stata in grado di arginarti, sei ingombrante e spietata. […] Ma sei mia sorella, e se la mia famiglia. Io ti voglio bene perché mi appartieni, nel bene, e anche nel male. Che ti piaccia oppure no, non mi interessa. È così, e basta.»

 

Una volte è abbastanza merita davvero di essere letto per la sua freschezza e per lo stile con cui ci presenta un mondo materialmente lontano eppure così presente nei ricordi famigliari di tantissimi italiani perché sono i nostri nonni ad aver ricostruito l’Italia distrutta dalla seconda guerra mondiale, non dimentichiamolo mai!

 

Piccole chicche.

  • Nelle prime pagine di Una volte è abbastanza troverete l’albero genealogico così da non perdere alcun intreccio familiare;
  • Ogni capitolo è arricchito da un epigrafe di grandi autori e dalla data cronologica per meglio determinare l’azione;
  • Pare che sia imminente l’uscita del secondo volume della saga.
  • Ah, dimenticavo, se siete sempre alla ricerca di nuovi libri, non mancate di seguire su Instagram il profilo di Giulia Ciarapica: è un vulcano di iniziative con diverse dirette settimanali e, secondo me, è un po’ Giuliana e un po’ Annette.Foto libro Una volta è abbastanza di Giulia Ciarapica. Foto di Stefania Piumarta



“IO NON MI CHIAMO MIRIAM” di Majgull Axelsson Ed. Iperborea

 

Ho letto di questo romanzo spulciando notizie sull’etnia rom per un mio personale studio, poi grazie agli algoritmi mi sono comparse diverse recensioni e mi ha incuriosito sempre più. Devo ammettere che non è stata una lettura facile anzi, a tratti faticosa come si dovesse scalare una montagna, nonostante negli anni avessi letto diverse cose sul tema Olocausto. Non avevo però idea di ciò a cui i rom sono stati sottoposti durante quel periodo nero della nostra storia.

L’autrice scrive la storia di Miriam in prima persona, con uno stile intimo che scava negli strati più profondi dell’Io; frasi dolorose, ma senza mai scadere nel patetico.

 

Sono passata per l’inferno, so cosa significa vivere all’inferno, e per questo non concedo niente a chi si crea il proprio inferno amatoriale per poi fingere di non poterne uscire.

 

Dell’inferno di cui parla Malika, alias Miriam, non ero a conoscenza; tutti noi sappiamo bene cosa hanno dovuto subire gli ebrei con le deportazioni e i campi di concentramento, conosciamo i terribili numeri del genocidio. Quasi nessuno però sa cosa è stato inflitto al popolo rom: non avevano la divisa a righe e non venivano loro tagliati i capelli, non erano messi con gli altri, ma tenuti da parte. I bambini addirittura nutriti un po’ meglio, ma per un unico abominevole motivo: gli esperimenti scientifici.

L’autrice ci parla di come questi piccoli e indifesi esseri umani venissero trattati da cavie. Leggiamo increduli, delle atrocità commesse in nome della scienza da medici come il famigerato dottor Mengele.

Nonostante la fame e la paura, una sera di maggio del 1944 il popolo  rom si è ribellato ai nazisti in quella che è passata alla storia come “La notte degli zingari”.

Malika veste gli abiti di un’ebrea, vive una vita non sua, ha sempre paura di essere smascherata, si nasconde ogni giorno. In certi tratti della storia abbiamo veramente paura con lei. Finchè il giorno del suo compleanno, scartando un pacchetto con un sospiro svela la verità.

Majgull Axelsson ci racconta una storia sul coraggio, sulla fiducia e sull’aggrappamento alla vita, numerosi sono i riferimenti a fatti accaduti e a persone veramente esistite: la famiglia è il perno su cui ruota questo romanzo, una famiglia distrutta ed un’altra faticosamente costruita.

Continuare a leggere di quel periodo tristissimo non vuol dire solo non dimenticare, vuol dire tramandare quella paura per fare in modo che non succeda mai più.

 

Ai rom non era stato offerto nessun risarcimento. Non erano stati sterminati per ragioni razziali, avevano spiegato le autorità tedesche dopo la guerra, ma perché erano criminali.

 

SINOSSI

 

“Io non mi chiamo Miriam” dice la protagonista il giorno del suo ottantacinquesimo compleanno quando il figlio le regala un bracciale d’argento di un artigiano zingaro con inciso il suo nome. Una verità celata per quasi settant’anni: si chiamava in realtà Malika, non era ebrea ma rom questa ragazzina che, per non farsi fucilare, infilò i vestiti di una coetanea morta durante il viaggio di deportazione. Prima per sfuggire alla morte, poi alla discriminazione, Miriam finora non ha mai rivelato a nessuno questo terribile segreto, ma i fantasmi del passato non le danno tregua e i suoi cari dovranno sapere.