Di seconda mano di Chris Offutt

Raccolta di racconti editi da Minimum Fax

 

Di seconda mano è una raccolta di racconti dello scrittore americano contemporaneo Chris Offutt pubblicato dalla casa editrice romana Minimum Fax e uscito a luglio 2022 con la traduzione di Roberto Serrai.

Leggere racconti è un po’ come sedersi ad un tavolino di un bar e ascoltare di nascosto le chiacchiere dei vicini. Non arriverà l’intera storia ma solo uno stralcio. Non si conosceranno le vicissitudine prima e dopo quell’intervallo di tempo in cui si ha avuto modo di ascoltare e spesso non si saprà neanche come andrà a finire ed è proprio questo il fascino del racconto: riportare una storia succinta, incisiva, determinante senza entrare troppo nelle descrizioni, lasciando al lettore ampia possibilità di immaginare.

Di seconda mano raccoglie storie intime di solitudine, disagi e povertà dove non si trovano gli Stati Uniti stereotipati del sogno americano bensì quella degli ultimi, dei dimenticati, di coloro che non fanno notizia, in poche parole quelli di seconda mano, di coloro che fanno fatica ad andare avanti, coloro che non hanno più santi ai quali rivolgersi, coloro che si adattano e sopravvivono.

Chris Offutt ha una penna che non lascia spazio a alternative e i suoi personaggi sono pieni, tondi, indimenticabili.

 

 

Come la protagonista del primo racconto che dà il titolo al libro che impegna la cosa più preziosa che ha, un paio di stivali di pelle di struzzo, per regalare una bicicletta alla figlia del suo compagno per conquistarne la fiducia. Si può permettere solo un oggetto usato, da acquistare in un luogo dove «Ogni cosa, lì dentro, è appartenuta a gente al capolinea, e la loro disperazione la senti nell’aria» esattamente come lei che dichiara «I miei vestiti hanno già coperto il corpo di un altro. Anche il mio ragazzo prima era sposato» però è capace di rinunciare ai propri amati stivali perché «le mani di una bambina che tremano di gioia sono lo spettacolo più bello che abbia mai visto».

Chris Offutt ha un stile pungente e diretto che si intrufola nelle pagine senza inutili fronzoli per schermarsi nella mente del lettore togliendo il fiato perché sono personaggi sofferenti, soli e malmenati dal destino ma sono soprattutto persone reali, vere, concrete e sincere.

Il bello dei racconti è che non c’è bisogno di terminare il libro per fermarsi a riflettere; bastano poche pagine, anche sotto l’ombrellone, in riva ad un fiume o in cima ad una montagna, per leggere una storia e poi fermarsi a riflettere come Darla, la protagonista del terzo racconto che «si sdraiò nel letto basso del torrente, allargò le braccia e lasciò andare l’anello [fede nuziale]. L’acqua fredda le scorse sul volto, mescolandosi alle lacrime, e le sembrò che il torrente, adesso, sgorgasse dai suoi occhi

Non bastano questi brevi stralci per innamorarsi della scrittura di Offutt?




Vincoli. Alle origini di Holt di Kent Haruf

Vincoli è il primo romanzo dello scrittore americano Kent Haruf pubblicato nel 1984 e arrivato in Italia nel 2018 grazie alla casa editrice NNEditore che ha curato e pubblicato tutte le opere di Karuf con la traduzione attenta di Fabio Cremonesi.

È molto probabile che la conoscenza di Kent Haruf al pubblico sia legata al primo volume della Trilogia della Pianura, Canto della pianura. Un grande successo americano che lo portò, per fortuna, ad abbandonare finalmente il lavoro di insegnante per dedicarsi solo alla scrittura regalandoci opere di intenso valore sulla vita della provincia americana.

Personalmente ho scelto di lasciare intonso Vincoli nella mia libreria consapevole di come, se lo avessi letto, non avrei avuto nient’altro da leggere di Haruf. Rinunciare e rinviare per un po’ al piacere di immergermi nella lettura di Vincoli mi ha regalato il piacere immenso di scoprire per la prima volta la piccola cittadina fittizia di Holt, nelle pianure del Colorado, e riconoscere luoghi e paesaggi protagonisti di tutti degli altri lavori.

Perché una caratteristica dei libri di Haruf è proprio l’ambientazione: si svolgono tutti a Holt, la piccola e semplice cittadina entrata nel cuore e nell’immaginario degli amanti di Haruf.

 

 

Vincoli narra la storia di un legame forte, di quelli che segnano la vita di un uomo sebbene non ci sia alcuna parentela tra l’anziana Edith Goodnough, che giace inerme in un letto di ospedale, e la voce narrante del vicino di casa, Sanders Roscoe.

Vincoli potrebbe rientrare nel genere noir anche se, andando avanti nella storia, si delineano di più i contorni di una saga familiare che parte dai genitori di Edith e di suo fratello Lyman agli inizi del XX secolo.

Vincoli ha il ritmo di una vicenda che raccoglie stralci del passato per comprendere il presente dove la vita abitudinaria contadina si alterna solo alle cadenze delle stagioni e alla brutale, violenta e cupa figura del padre Roy e per i due fratelli quella casa diventa il luogo dal quale è impossibile fuggire.

“Così, quando dico che erano intrappolati, non intendo un pochino intrappolati. Non come se avessero messo un piede nel fango o per uscirne bastasse fare uno sforzo, e una volta fuori, l’unica perdita cose quella di un bel paio di scarpe nuove nel fango. No, intendo totalmente intrappolati.”

Il personaggio di Edith è di una bellezza struggente. Costretta a provare sulla propria pelle le devastanti ripercussioni di legami familiari malati e disfunzionali. Edith incarna la rassegnazione di una donna sola. “Non era sola per un pomeriggio o per un mese, lo era un anno dopo l’altro, costantemente, e non aveva alcun motivo di credere che le cose sarebbero mai cambiate di una virgola.”

La sua vita è rinuncia, rassegnazione e dedizione ed è impossibile per il lettore non amare con slancio la figura integra, buona e generosa di Edith e in certi momenti si vorrebbe allungare la mano per strapparla via e portarla in altri lidi, verso un futuro diverso per poterle regalare momenti sereni e felici.

Ti faceva venire voglia di averla accanto a te in macchina su una strada di campagna, di stringerla, abbracciarla, baciarla, sentire l’odore dei suoi capelli, parlarle, dirle tutte quelle cose che non avevi mai detto a nessuno, tutte quelle cose che stanno oltre le battute e gli aspetti superficiali che gli altri vedono di te, cose che tu stesso non sapevi con certezza di provare o pensare finché non ti sei ritrovato a dirgliele mentre la abbracciavi al buio, nella macchina ferma, perché chissà come era giusto che lei le sapesse e in quel modo sarebbero diventate vere.”

Vincoli è una storia d’amore e di amicizia, di dolore e di profondo senso del dovere. È una storia di legami che uniscono e allontanano, che costruiscono e distruggono.

Vincoli è un piccolo capolavoro che lascia presagire la potenza della scrittura semplice e diretta di Kent Haruf che si ritroverà ancora più raffinata e matura nelle opere successive.

 

 

SINOSSI

È la primavera del 1977 a Holt, Colorado. Edith Goodnough giace in un letto d’ospedale, e un poliziotto sorveglia la sua stanza. Pochi mesi prima, un incendio ha distrutto la casa dove Edith abitava con il fratello Lyman. Un giorno, un cronista arriva in città a indagare sull’incidente e si rivolge a Sanders Roscoe, il vicino di casa, che non accetta di parlare per proteggere Edith. Ma è proprio la voce di Sanders a raccontarci di lei e del fratello, di una storia che inizia nel 1906, quando Roy e Ada Goodnough sono arrivati a Holt in cerca di terra e di fortuna.
La storia di Edith si lega a quella del padre di Sanders, John Roscoe, che ha condiviso con loro la dura vita nei campi, in quella infinita distesa di polvere che era la campagna del Colorado.
La Holt delle origini è l’America rurale, dove vige un codice di comportamento indiscutibile, legato alla terra e alla famiglia, e dove la felicità si sacrifica in nome del dovere e del rispetto. Nel suo romanzo d’esordio Kent Haruf racconta i suoi personaggi senza giudicarli, con la profonda fiducia nella dignità dello spirito umano che ha reso inconfondibile la sua voce letteraria.




Tomato Red di Daniel Woodrell

La vita gioca duro quando sei nato dall’altra parte della ferrovia e vivi sull’altopiano degli Ozarks, nel Missouri, nella cittadina di West Table. Un’ambientazione che non regala nulla e, fin dalle prime pagine, segna con fermezza i limiti entro i quali si muovono i protagonisti di Tomato Red di Daniel Woodrell edito da NNEditore

Nascere in una baracca nella zona più degradata della città; vivere a ridosso delle rotaie con il passaggio del treno che ne scandisce il tempo; condividere il quotidiano con chi non ha altra compagnia se non quella dell’alcool e delle droghe; elementi che non permetteno di immaginare nessun altro futuro se non quello che un destino beffardo ha già disegnato per loro.

“Il nostro futuro a West Table è stato deciso e stabilito lo stesso giorno in cui siamo nati […] Perciò un qualsiasi altro posto andrà benissimo”

L’io narrante di Tomato Red è il giovane Sammy Barlach che, dopo una giornata a drogarsi con altri ragazzi, si introduce in un’abitazione ricca per rubare ma i compagni lo abbandonano e finisce per addormentarsi su una poltrona. Sarà svegliato da Jamalee, la ragazza dai capelli rossi, la Tomato Red del titolo, e il fratello Jason. I fratelli Merridew si sono intrufolati nella stessa casa ma non con l’intento di rubare bensì con l’idea di fingersi ricchi e abituarsi a vivere nel lusso e nel benessere. Usciranno insieme da quella casa per dare l’avvio ad una convivenza sconclusionata, claudicante e assurda ma che rappresenta, ciascuno per una caratteristica diversa, quanto di più vicino ad una famiglia i tre possano mai ambire.

Tomato Red potrebbe essere un noir, un giallo o un punto di partenza per un hard boiled come suggerisce la nota del traduttore Guido Calza. In qualsiasi genere lo si voglia inserire nella sua trama è inserita la morte di un personaggio solo che l’evento non è di per sé il fulcro del romanzo  stesso quanto un ulteriore elemento scontato di una vita di inevitabili e ineluttabili sconfitte.
Non è più rilevante risolvere quella morte e scoprire se sia un omicidio, un suicidio, un regolamento di conti o un semplice incidente. Quella morte rappresenta un altro elemento nefasto da aggiungere ad una vita che null’altro può offrire se non quell’appiccicoso degrado e quell’accanita povertà che pervade ogni cosa.

 

 

Daniel Woodrell è abile con il suo stile asettico, immediato e privo di inutili fronzoli a scaraventa il lettore in una realtà così brutale e spietata da non far filtrare alcuna possibilità di riscatto riuscendo ad offuscarne anche il semplice pensiero di un eventuale futuro alternativo. Tutto risulta fermo, immobile, ovvio, scontato e ogni avvenimento non sorprende ma appare come una naturale conseguenza.

Magistrale la sua capacità di trasformare gli oggetti inanimati in elementi integrali e funzionali alla drammaticità della realtà che vivono i protagonisti. Woodrell anima gli oggetti come per addensare ancora di più quelle grate entro le quali i personaggi sono relegati, imprigionati

“La parte peggiore di luglio era piombata sulla città in anticipo, nell’ultima settimana di maggio, e rovinava piani ovunque andasse”

“Avevo parcheggiato di fronte alla chiesa. Era una struttura acuminata, di un bianco lucente, e sembrava pronta a strapazzarmi con prediche, rimproveri e spaventosi passi della Bibbia se solo avessi camminato su quel marciapiede”

“Il caldo aveva reso gli alberi lungo le strade tronfi e avari della propria ombra. Per giunta avevano fatto un accordo con il vento perché non soffiasse, così il valore di quell’ombra era salito alle stelle”

Il mese di luglio, un marciapiede, l’ombra degli alberi. Elementi di contorno ai protagonisti che sembrano delimitarne ancora di più il futuro, posizionati come paletti dei confini entro i quali muoversi, per immobilizzarli al loro posto senza soluzione di continuità.

“Sammy, a te non piacerebbe combinare qualcosa? In futuro? Contare qualcosa?” […] Nah. Io penso solo che tirerò avanti, accumulerò giorni, capisci, fino a quando farò una cazzata così grossa che il futuro verrà disdetto. O magari deciso da qualcun altro al mio posto. Ci sono buone probabilità anche per quello.”

Tomato Red rappresenta un’eccellente presentazione di come la casualità della nascita di un individuo possa determinarne inequivocabilmente il destino. Sintetizza in poco meno di 200 pagine, con scene indelebili quasi fossero fermi immagini, i turbamenti, i timori, i sogni e i turbamenti di qualsiasi generazione che guardi al futuro quando ogni cosa attorno non faccia altro che additarli come falliti, inconcludenti e perdenti.

Tomato Red appare come un manifesto di sconfitta per la cecità della società stessa, malata per il suo sistema automatico di infliggere e condannare senza indugio, incanalando il destino degli esseri umani.
Il romanzo è un grido di dolore che mette in luce l’intima desolazione e disarmante impotenza di chi, semplicemente, vive dall’altra parte della ferrovia.




I frutti del vento di Tracy Chevalier

Romanzo storico della prolifera scrittrice americana

 

I frutti del vento è la saga della famiglia Goodenough che, nella prima metà del XIX secolo, si trasferisce dal Connecticut nell’Ohio in cerca di fortuna e si ferma nella cupa Palude Nera. Qui vige una legge che prevede di diventare proprietario della terra se si riesce a piantarvi un frutteto di almeno cinquanta alberi.

Il padre, James Goodenough, ha una fortissima passione per le mele e, facendosi largo nel bosco selvatico e nel fango che ricopre tutti i terreni, tenta, anno dopo anno, da raggiungere l’agognato traguardo dei cinquanta meli.

Il romanzo è intriso di miseria e povertà. Si fanno figli per aiutare nella conduzione della famiglia e questi muoiono inverno dopo inverno per le febbri e la malaria e il tutto viene accolto con disarmante normalità.
I personaggi sono descritti in modo minuzioso e si respira davvero l’atmosfera piena di privazioni di intere generazioni di coloni americani.

Ad un certo punto si scatenerà un evento determinante che muterà per sempre il destino della famiglia Goodnough e il figlio Robert, anch’egli appassionato come il padre delle piante e delle mele, fuggirà attraverso l’America per giungere fino in California dove lavorerà al fianco di uno stravagante signore inglese per la raccolta di semi, pigne e piantine delle famose sequoie giganti americane ancora sconosciute, a quel tempo, in Europa.

 

 

Tracy Chevalier è una prolifera scrittrice americana di romanzi storici che ha raggiunto una popolarità mondiale nel 1999 con il suo secondo romanzo La ragazza con l’orecchino di perla, che ha venduto oltre cinque milioni di copie e con I frutti del vento si conferma un’abile scrittrice meritoria di tanto successo.

In I frutti del vento, edito in Italia nel 2016 da Neri Pozza, ci racconta sì una saga familiare dove però il rapporto con la natura e con gli alberi diventa un elemento primario e fondante dell’intera trama.

È bello scoprire che due personaggi, John Chapmann e William Lobb, che entreranno nella trama nella seconda parte del libro, sono realmente esistiti svolgendo proprio ciò che verrà raccontato nel romanzo. Ovvio che non posso rivelarvi di cosa si occupano esattamente per non togliervi il gusto della lettura, ma apprezzo moltissimo i libri che giocano sempre sul filo tra immaginazione e realtà.

 

I frutti del vento è un romanzo che si legge con estrema facilità, che regala il gusto dei profumi della natura, che ci avvicina al mondo della botanica e delle mele anche se il tutto contornato dalla crudeltà della vita che non sempre è giusta, che troppo spesso è spietata e violenta ma che non possiamo fare altro che apprezzarla e ammirarla nel suo instancabile percorso.




Furore di John Steinback

Capolavoro della letteratura americana del novecento

 

Furore di John Steinback uscì nel 1939 negli Stati Uniti con il titolo The Grapes of Wrath e divenne in brevissimo tempo un best seller da oltre 4milioni di copie.

Insieme al successo, però, nacque una grande discussione tra chi affermava che Steinbeck avesse messo in luce un versione sbagliata delle grandi industrie proprietarie terriere e conserviere e delle manovre della banche e chi, al contrario, appoggiava in toto la versione del grande scrittore americano.

In Italia il libro approdò nel 1940 grazie a Elio Vittorini che lo segnalò a Bompiani e subì la rigida censura fascista ma venne comunque pubblicato perché, secondo il pensiero del regime, il romanzo smontava il sogno americano come terra promessa.

Furore di John Steinbeck – Bompiani

 

Trama

Furore narra la storia della famiglia Joad costretta ad abbandonare la terra che coltivano nell’Oklahoma a causa delle dust bowls, tempeste di sabbia e dagli esiti della crisi del ’29, i quali, per raggiungere il miraggio di una terra ricca e fertile come veniva raccontata la California, caricano su un vecchio autocarro tutti i loro averi e si incamminano lungo la Route 66, la famosa strada che congiunge i due oceani degli States.

La famiglia Joad non è sola in questa impresa. Migliaia di altre famiglie hanno fatto la stessa scelta e sono in viaggio verso la terra promessa, peccato che sia tutto un miraggio per attrarre in California manodopera in abbondanza e sfruttare i lavoratori i quali, invece di potersi rifare una vita, saranno costretti a subire angherie e soprusi di ogni genere. La loro dignità sarà azzerata e le loro speranze spazzate via in quel terribile dispregiativo con il quale verranno bollati come gli Okies.

Riflessioni

Furore sviscera una delle pagine più drammatiche dei primi anni del novecento americano e la grandezza di Steinbeck è proprio nell’aver reso universale il dolore e la ferita di un popolo.

Leggendo Furore nella nuova edizione integrale di Sergio Claudio Perroni per Bompiani, è facile paragonare la spinta verso l’Ovest negli anni ‘30 del Novecento con il flusso migratorio che sta affrontando l’Europa e l’Italia in particolare.

Leggendo lo stile magistrale e minuziosi con cui Steinbeck descrive la fame, la miseria, la speranza e la determinazione di andare avanti, si può immaginare lo stato d’animo che alberga nel cuore di chi è costretto a lasciare tutto, anche quando quel tutto è quasi niente, pur di sperare un futuro migliore per sé stessi e per i propri figli.

 

La vita randagia li cambiò; le grandi arterie, i bivacchi lungo la strada, la paura della fame e la fame stessa li cambiarono. I figli affamati li cambiarono, l’interminabile vagare li cambiò. Erano emigranti. E l’ostilità li cambiò li saldò, li unì; l’ostilità che induceva i centri abitati a raggrupparsi e a equipaggiarsi come per respingere un invasore, manipoli armati di manici di piccone, garzoni e bottegai armati di fucili, per difendere il mondo contro gente del loro stesso sangue.

Nell’Ovest si diffuse il panico […] e si convinsero a vicenda che loro erano buoni e che gli invasori cattivi, come fa ogni uomo prima di andare a combattere un altro.

A oltre settant’anni dalla sua stesura, Furore, riesce ancora a parlare ai lettori che non possono fare a meno di riconoscersi nei temi centrali di cui le pagine sono intrise: il dolore, la morte, la giustizia, la colpa, il riscatto e la ricerca del paradiso.

Furore non è un romanzo ma un capolavoro della letteratura del novecento che merita una lettura pacata e parsimoniosa per dare modo alle pagine, così intrise di verità, umanità e di storia che, purtroppo, si ripete immutata nel tempo, di sedimentarsi per bene nel profondo dell’animo di ciascuno di noi.

Tutti hanno diritto a sperare e lottare per un futuro migliore.

 

Non ci sarebbe mai stato nessun crollo finché la paura fosse riuscita a trasformarsi in furore.




COLAZIONE DA TIFFANY

COLAZIONE DA TIFFANY

di Truman Capote

ed.Garzanti

 

Mi piaceva iniziare questo tanto atteso 2021 con un personaggio particolare, un personaggio che è l’esternazione della bellezza, della classe e allo stesso tempo della fragilità, un personaggio che tanti di noi hanno amato e che è impossibile dimenticare. Sto parlando di Holly, la protagonista di Colazione da Tiffany, film famosissimo tratto dal meno conosciuto romanzo di Truman Capote, e interpretato magistralmente dall’intramontabile e indimenticabile Audrey Hepburn.

 

Non si può dare il proprio cuore ad una creatura selvatica. Più le si vuole bene e più diventa ribelle, finché un giorno se ne scappa nella prateria o vola in cima a un albero.

 

Se avete amato però il film, nel momento in cui vi accingerete a leggere il libro, dovete dimenticarvene. La storia scritta è molto più cruda della transposizione cinematografica, e Holly è bionda. Truman Capote però riuscirà a farvi di nuovo immergere nella magia di New York, riuscirà a farvi innamorare ancora di questa donna, una via di mezzo tra una Lolita un po’ cresciuta e una giovanissima zia Mame (da Il Time). Tra le righe troverete un’eroina che, nonostante conduca vita particolare, non scade mai nel volgare, talmente la sua classe è innata.

Il testo forse risulterà un po’ leggero e con un profumo decisamente vintage, ma non sempre si ha voglia di leggere testi impegnati; qualcuno lo ha definito un degno antipasto prima di arrivare al piatto forte di Capote “A sangue freddo”.

 

Era una serata calda, quasi estiva, e indossava un fresco e slanciato abito nero, sandali neri, una collana di perle. Nonostante la sua raffinata magrezza, aveva l’aria sana di una ragazza acqua e sapone…La bocca era grande, il naso rivolto all’insù. Un paio di occhiali neri le cancellava gli occhi.

 

SINOSSI

Il romanzo breve di Truman Capote narra la vita di Holly Golightly, una ragazza allo stesso tempo dolce, ribelle e sognatrice a New York. La narrazione in prima persona è condotta da un aspirante scrittore. La storia prende avvio dal ritrovamento di una statua africana che sembra ritrarre la giovane.

 

Se io trovassi un posto al mondo che mi facesse sentire come da Tiffany, comprerei i mobili e darei al gatto un nome!

 




Il postino suona sempre due volte di James Cain

Un classico noir della letteratura americana

Chi non ha visto, almeno una volta, una delle versioni cinematografiche de Il postino suona sempre due volte? Immagino in tanti, e sebbene conoscessi bene anch’io la trama, quando mi è capitato tra le mani una vecchia edizione Oscar Mondadori con la traduzione di Giorgio Bassani, non ho resistito e ho voluto leggerlo.

Il postino suona sempre due volte è la storia di Frank Chambers, un girovago senza lavoro e senza casa e di Cora, la moglie bellissima e sensuale del greco Nick Pappadakis, titolare della Taverna delle due Querce. L’attrazione fatale tra i due è travolgente e si innesca sin dalle prime battute.

“Eccetto che per il corpo, non si poteva dire una gran bellezza; ma aveva una cartaria imbronciata, e le labbra sporte in fuori in modo tale da farmi venire subito voglia di mordergliele”

La scrittura di Cain è scarna, immediata, senza fronzoli. Esattamente come i personaggi del libro: sono tre e non c’è spazio per nessun altro. È tutto bianco o nero, non esistono sfumature ed è con questa certezza che viene cadenzato il ritmo serrato e avvincente del romanzo. La passione che diventa totalizzante, il crimine inevitabile e il destino immutabile.

Frank e Cora non accettano la realtà che vivono e sembra quasi che, nella loro individuale ricerca della felicità, scambino quella loro passione travolgente, nella spinta necessaria a darsi un futuro diverso per entrambi. Sono due personaggi tristi e persi che si accoppiano più per disperazione che per un reale sentimento e che, proprio per questa incapacità di adeguarsi e adattarsi al presente, corrono trafelati e ingenui verso l’ignoto, verso la fine.

Il postino suona sempre due volte venne pubblicato da James Cain nel 1934 in piena depressione economica arrivando in Italia solo nel 1946.
Il titolo sembra faccia riferimento ad un’usanza dei postini irlandesi di bussare sempre due volte per farsi riconoscere. Metafora del destino che passa a riscuotere il suo conto.
Il grande successo del romanzo fece di Cain uno dei maestri della scuola del noir e del giallo d’azione hard-boiled. Il romanzo ispirò grandi scrittori come Cesare Pavese e Albert Camus e diversi registi.

 

Versioni cinematografiche

Due registi hanno voluto trasportare sul grande schermo la loro visione del romanzo.
Il primo esce nel 1946 con la regia di Tay Garnett scegliendo Lana Turner nei panni di Cora e John Garfield nei panni di Frank.

Nel 1981 è la volta della regia di Bob Rafelson e due grandi attori americani: Jack Nicholson diventa Frank mentre la parte di Cora viene affidata a Jessica Lange.

 

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Film vs Libro

Ci sono sempre state ampie discussioni dividendo il pubblico tra chi è pro libro e chi pro film.
Personalmente sono favorevole alla lettura del libro perché amo immaginare le scene e non affidarle alla regia di un altra persona, senza nulla togliere all’arte della cinematografia che mi appassiona molto. . Affermo però, senza alcun timore, che se mi capita di vedere prima il film, difficilmente arrivo a leggere anche il libro perché il tocco del regista resta nella mia memoria influenzando troppo la lettura.
Se dovessi scegliere direi, in assoluto, prima il libro e poi film.

Nel caso de Il postino suona sempre due volte, ho visto la versione del 1981 con Jack Nicholson e Jessica Lange e spero di riuscire a breve a vedere anche la prima versione del 1946 dove, la pellicola in bianco e nero, regalerà di sicuro una magia particolare alla trama.




UOMINI E TOPI

UOMINI E TOPI

di John Steinback

Ed. Bompiani

 

“I topi come noi non hanno una famiglia, mettono insieme un gruzzoletto e poi lo sperperano. Non hanno nessuno al mondo a cui importa un fico secco di loro…ma noi no, perché io ho te e tu hai me.”

 

John Steinback è uno dei massimi esponenti della letteratura americana e mondiale, vincitore del Premio Pulitzer con Furore nel 1940 e del Premio Nobel per la letteratura nel 1962.

Dopo poche righe tratte da Uomini e topi, e quelle dedicate alla sua biografia, potrei anche terminare qui la mia recensione. Questo dovrebbe essere più che sufficiente per prendere in mano subito questo romanzo breve ed immergersi dentro.

Desidero comunque dedicare ancora spazio ad una storia narrata quasi esclusivamente con dialoghi, a due protagonisti che creano una coppia improbabile e originale che ci parla di amicizia e speranza.

Basandosi su un fatto realmente accaduto, Steinback con uno stile colloquiale e diretto, scrive la difficile vita di George, Lennie e pochi altri disperati, per denunciare e mettere in mostra un lato dell’America che il pubblico non conosceva, o che forse faceva finta di non conoscere.

Pochi gli attori: un gruppo di migranti, il padrone della fattoria e la sua bella moglie. Poche le descrizioni e la narrazione ridotta al minimo indispensabile, in questo romanzo “si parla”.

George e Lennie vanno sempre in giro in coppia, sono diversi dagli altri migranti che per lo più vagano solitari e abbrutiti.  George è il trait d’union di tutto il romanzo e il protettore di Lennie, un omone grande e grosso con la mente di un bambino, vittima della propria possenza. Un sogno li accomuna e li sprona ad andare avanti, a non arrendersi, a lottare per riscattarsi da una vita di fatica, e Candy , il vecchio storpio addetto alle pulizie, renderà questo sogno quasi realizzabile, quasi…

 

Tornò a sedersi. Stavano tutti zitti, incantati dalla bellezza della cosa, ogni mente lanciata nel futuro, quando quella cosa stupenda si sarebbe avverata.

 

Si può dire di un romanzo, bevuto? Non so, ma per me è stato così.

 

 

SINOSSI

 

La storia, basata su un fatto realmente accaduto nel 1920,  di un’amicizia profonda tra due uomini, due braccianti stagionali in California che condividono un sogno.

George Milton si occupa da sempre con ferma dolcezza di Lennie Small, un gigante con il cuore e la mente di un bambino rimasto solo al mondo dopo la morte della zia Clara.

Il loro progetto è di mettere da parte un bel gruzzolo lavorando nei ranch per trovare e acquistare un piccolo posto tutto per loro, un po’ di terra da coltivare, conigli da allevare, frutta da raccogliere.

Ma le loro speranze sono destinate a sbriciolarsi in un’America gretta e gelosa, soffocata dalla crisi.




Il cacciatore di aquiloni di Khaled Hosseini

Un viaggio nella terra afgana

 

Leggere un libro è intraprendere un viaggio.

Un viaggio nella vita di un uomo e del territorio che lo circonda, così, visto che siamo ad agosto e tantissimi italiani ora sono sdraiati in spiaggia o affascinati dal verde delle nostre montagne, ho pensato di portarvi lontano con Il cacciatore di aquiloni di Khaled Hosseini viaggiando nei territori degli Stati Uniti, in Pakistan e in Afghanistan.

Il cacciatore degli aquiloni è uscito in Italia nel 2004 ed è il libro di esordio di Khaled Hosseini, nato in Afghanistan nel 1965 e naturalizzato negli Stati Uniti dove arrivò come rifugiato politico quando la sua terra fu invasa dalla Russia.

Il cacciatore degli aquiloni narra il legame di amicizia lungo i trent’anni di storia afgana e la trama parte dalla tradizionale caccia agli aquiloni che si tiene in primavera e che tutti i bambini del luogo attendono con trepidazione per poter dare la caccia ai migliori aquiloni non appena cadono al suolo.

I protagonisti sono due bambini: Amir e Hassan, amici e compagni di giochi e sebbene ci siano grandi differenze tra loro, l’uno padrone e l’altro servo, l’uno sunnita e l’altro sciita, la loro unione si rivelerà forte e salda fino al giorno in cui un evento drammatico non li allontanerà indirizzandoli verso destini diversi.

Amir è la voce narrante della romanzo e dimostra come nella vita sia sempre possibile riscattarsi dai propri errori. Hosseini dimostra una grande capacità di scrittura e non mancano i colpi di scena tanto da rendere il romanzo indimenticabile e, soprattutto, permette a tutti noi lettori, di entrare in contatto con il mondo afgano e di conoscerne lingua e tradizioni sfatando la nomea di popolo sempre e solo in guerra.

Alla sua uscita il libro fu considerato un caso letterario senza precedenti vendendo milioni di copia in tutto il mondo iniziando il suo percorso con il classico passa parola tra i lettori.

Azzeccata la scelta del titolo che appare quasi come una metafora della vita stessa che corre via portata dal vento, a volte in modo imprevedibile, ma che, se davvero lo si desidera, lo si può raggiungere laddove è caduto e riallacciare quel filo per farlo tornare di nuovo a volare.

Se ancora non avete avuto occasione di leggerlo, vi suggerisco di farlo. Il cacciatore degli aquiloni è un libro che resta irrimediabilmente dentro ogni lettore.

 

 

Sinossi

Si dice che il tempo guarisca ogni ferita. Ma, per Amir, il passato è una bestia dai lunghi artigli, pronta a inseguirlo e a riacciuffarlo quando meno se lo aspetta. Sono trascorsi molti anni dal giorno in cui la vita del amico Hassan è cambiata per sempre in un vicolo di Kabul. Quel giorno, Amir ha commesso una colpa terribile. Così, quando una telefonata inattesa lo raggiunge nella sua casa di San Francisco, capisce di non avere scelta: deve partire, tornare a casa, per trovare il figlio di Hassan e saldare i conti con i propri errori non espiati. Ma ad attenderlo, a Kabul, non ci sono solo i fantasmi della sua coscienza. C’è una scoperta sconvolgente, in un mondo violento e sinistro dove le donne sono invisibili, la bellezza è fuorilegge e gli aquiloni non volano più.




La ferrovia sotterranea di Colson Whitehead

La ferrovia sotterranea, l’epopea degli afroamericani e dei bianchi.

Dopo l’uccisione di George Floyd ho sentito la necessità di leggere un romanzo sull’epopea degli afroamericani e la mia scelta è caduta su La ferrovia sotterranea di Colson Whitehead perché scritta da un afroamericano e perché vincitore di ben due premi: il National Book Award nel 2016 e il Premio Pulitzer nel 2017.

Il romanzo racconta la storia della schiava Cora che, a soli dieci anni, viene abbandonata dalla madre Mabel in una piantagione della Georgia nel primo Ottocento. Qualche anno più tardi anche Cora tenterà la fuga attraverso gli Stati Uniti in un Sud alle prese con la coltivazione del cotone e un Nord abolizionista; una situazione sociale che sfocerà poi nella guerra di secessione.

 

«La prima e ultima cosa che diede alla figlia furono delle scuse. Cora dormiva ancora dentro la sua pancia, piccola come un pugno, quando Mabel si scusò per il mondo in cui l’avrebbe fatta nascere. Cora dormiva accanto a lei sul solaio, dieci anni dopo, quando Mabel si scusò perché la stava per abbandonare. Nessuna delle due volte Cora la sentì»

 

Il libro è scritto molto bene. Ci sono pagine intense e l’evolversi della storia scorre magicamente senza stancare mai il lettore, ma ciò che mi colpito è un crescente e evidente stato di paura di cui è pervaso tutto il libro.

Da una parte c’è la popolazione degli schiavi, terrorizzati dalla violenza che subiscono da parte dei bianchi ma dall’altra è evidente la paura dei bianchi per una eventuale supremazia degli afroamericani che vedono assolutamente più forti e vigorosi della razza bianca e, soprattutto, in un numero sempre crescente.

L’antagonista e cacciatore di schiavi Ridgeway quasi alla fine del romanzo afferma:
«A mio padre piaceva fare i suoi discorsi da indiano sul Grande Spirito, ma dopo tutti questi anni, io preferisco lo spirito americano, quello che ci ha fatti venire dal Vecchio Mondo al Nuovo, a conquistare, costruire e civilizzare. E distruggere quello che va distrutto. A elevare le razze inferiori. Se non a elevarle, a sottometterle. Se non a sottometterle, a sterminarle. Il nostro destino prescritto da Dio: imperativo americano».

Parole che sembrano uscite da un discorso nazista anticipandole di un secolo e che evidenziano quanto fosse essenziale per la sopravvivenza dei bianchi americani di quell’epoca, distruggere, sottomettere e sterminare coloro che potrebbero vincerli « […] però non possiamo permettervi di essere troppo svegli. Nè così in forma da riuscire a correre più veloci di noi».

Dichiarazione che mi fanno venire i brividi e che appaiono alle mie orecchie come un abominio.

Il romanzo La ferrovia sotterranea merita di essere letto e sebbene l’idea di una ferrovia sotterranea sia solo frutto dell’immaginazione di Colson Whitehaed, la vicenda narrata offre interessanti spunti di riflessione.

C’è un popolo strappato dalla propria terra, sottomesso, torturato, schiavizzato che non chiede altro se non il diritto di vivere la propria vita alle stesse condizioni dei bianchi. E se nel romanzo sono raccontate anche le vicende dei tanti uomini bianchi morti perché contrari alla schiavitù, appare evidente il messaggio che il popolo degli afroamericani rivolge ai propri simili:

 

«Possibile che non lo capisci? I bianchi non lo faranno mai. Dobbiamo farlo noi, da soli»

 

Forse ha ragione la vecchia Amanda, protagonista secondaria del romanzo, quando afferma che «Il conflitto europeo era senz’altro terribile e violento, ma lei aveva da ridire sul nome. La Grande Guerra era sempre stata quella fra i bianchi e i neri. E sempre lo sarebbe stata»

 

 

 

La ferrovia sotterranea di Colson Whitehead edito da Edizioni Sur