ARRIVEDERCI E GRAZIE di Laura Avati

ARRIVEDERCI E GRAZIE

di Laura Avati

tratto dalla raccolta Tortellini

a cura di Daniele Falcioni

ed. Rapsodia

Era una delle prime giornate calde dell’estate e nella cucina del ristorante si iniziava a sudare. Anche in sala faceva molto caldo, e infatti avevamo deciso di indossare le nuove divise estive.

A me andava decisamente stretta: il camice mi strizzava come una camicia di forza. Non mi sentivo a mio agio: mi specchiavo continuamente nel vetro del frigo dei gelati, cercando di capire come fare per non far notare i chili di troppo.

I clienti cominciavano ad arrivare:

“Buongiorno signor Marcello”.

“Buongiorno Laura, inizia a fare caldo” disse asciugandosi la fronte con il fazzoletto di stoffa.

“Eh sì, è arrivata l’estate e purtroppo non possiamo accendere l’aria condizionata”.

“Come mai?”

“Dobbiamo fare la sanificazione dei filtri. Il tecnico viene domani”.

“Ah va bene, per oggi sopportiamo il caldo”.

Il signor Marcello era uno dei nostri primi clienti e tutti i giorni, da trenta anni più o meno, veniva a mangiare da noi: ero molto affezionata a lui.

“Che belle le nuove divise!” disse il signor Marcello.

“Ha visto che bei colori?” risposi, senza alzare lo sguardo dalla calcolatrice e cercando di allentare un po’ il camice, tirandolo da una parte e dall’altra.

“Sì, sono molto belle e mettono tanta allegria”.

“Grazie, lei è sempre tanto gentile. Buon pranzo, signor Marcello, e a domani”.

“Grazie e buon lavoro a te”.

I clienti scorrevano con i loro vassoi pieni di piatti stracolmi. Non avevo pranzato, lo stomaco mi brontolava, avevo una fame assurda e tanto caldo. Alzai lo sguardo, in fila c’era Paolo, il cliente per me più affascinante. Tiravo il camice verso il basso illudendomi di coprire le mie rotondità. Gli preparai la sua solita acqua liscia fredda e la macedonia.

“Ciao Paolo, buon pranzo” mi affrettai a dirgli, facendo in modo che non si fermasse più di tanto davanti a me, tanto lui pagava a fine mese.

“Grazie Laura”, e se ne andò a tavola, strizzando l’occhio e sorridendomi.

Forse è soltanto una mia fissazione, forse non si nota poi così tanto, pensavo, continuando a fare i conti e a tirare il camice. Ecco Nella, sempre sorridente, con una longuette gessata che la avvolgeva in tutta la sua magrezza. E guarda quanto mangia! Beata lei, pensavo mentre le facevo il conto.

“Mi daresti una porzione di tiramisù alle fragole?” chiese Nella.

“Certo” le risposi porgendole il dolce.

“L’hai fatto tu, vero?”

“Sì sì” risposi con l’acquolina in bocca.

Lei si può permettere anche il dolce, pensai.

“Buon pranzo, Nella” le augurai con tutta l’invidia possibile.

“Buongiorno Cinzia, mangi solo l’insalata o aspetti altro dalla cucina?”

“No, mangio solo questo, con questo caldo mi si chiude lo stomaco e non riesco a mangiare”.

“Capisco, buon pranzo”.

No, non capisco invece. Possibile che solo a me l’appetito non manca mai?

I clienti in fila erano ancora tanti.

“Buongiorno signor Giovanni”.

“Ecco la nostra signora Laura. Come sei bella con questa divisa bianca e rossa!” disse, con quell’accento siciliano che rafforzava la erre e che mi piaceva tanto.

“Grazie Giovanni, è sempre tanto gentile. Lo prende il caffè, o anche oggi è nervoso?”

“Oggi lo prendo, ma tu sai come”.

“Come al solito, ristretto e schiumato. Buon pranzo” gli dissi dandogli il resto.

Mi ero un po’ rilassata; nessuno si era accorto del camice stretto e ormai anche sudato.

“Buongiorno Marco, scommetto che aspetti il petto di pollo alla griglia”.

“Ciao Laura, lo so che sono monotono, ma io adoro il vostro petto di pollo alla griglia”.

“Sì, ma non so come fai a mangiarlo tutti i giorni, prima o poi ti cresceranno le piume”.

“Me lo dice sempre anche mia moglie” disse ridendo di gusto.

“Ecco la tua acqua liscia a temperatura ambiente, e buon pranzo”.

Mi divertivo a scherzare con i clienti abituali. Con molti di loro si era creata una bella amicizia, tanto che spesso andavamo a cena insieme e con alcuni anche in vacanza.

“Ciao Emilio, metto un po’ di peperoncino sulla pasta, come piace a te?”

“Tu mi vizi, poi mia moglie è gelosa”.

“Maria non è gelosa di me, lo sai”.

“Ecco a te anche il tuo mezzo litro di vino bianco. Buon pranzo”.

“Grazie, e buon lavoro”.

Il servizio era quasi finito. Avevo iniziato a fare le registrazioni di fine giornata quando entrò un cliente. L’ultimo è sempre quello un po’ malvisto, ma questo era un cliente che non vedevo da tanto tempo. Mi faceva sempre piacere rivedere i vecchi clienti.

“Buongiorno, bentornato” gli dissi appena arrivò in cassa.

“Grazie”.

“Cosa le preparo da bere?”

“Un quartino di vino bianco frizzante e acqua gassata”.

“È tanto tempo che non ci viene a trovare!”

“Eh sì, sto lavorando a Roma e non sono più capitato da queste parti”.

“Basta che si sta bene e si lavori. Vuole altro?

“Sì, un caffè e una grappa”.

“Ok. Sono 15 euro, grazie”.

“Ti trovo ingrassata”.

Alzai lo sguardo dal registratore di cassa e fissai per qualche secondo quel cliente. Brutto ciccione che non sei altro, ma ti sei guardato, con quella pancia che a stento sta in quella camicia sudicia e con quei capelli ridicoli e unti?, gli avrei voluto rispondere. Ora, non è che io con questo cliente avessi mai avuto confidenza o amicizia; non era un cliente assiduo, e con lui avevo sempre scambiato battute convenevoli e di circostanza, niente di più. Come ti permetti, tu che non sai neanche il mio nome! Feci un respiro profondo e cercai di recuperare quel poco di autocontrollo che mi era rimasto: era pur sempre un cliente, e non potevo rispondergli male.

Stizzita, mi avvicinai come per fargli una confidenza e quasi sussurrando gli risposi:“Sa, ho una malattia abbastanza grave, sto facendo una cura di farmaci molto aggressiva e prendo anche molto cortisone. Questo è tutto gonfiore” gli dissi pizzicandomi il bicipite.

Lui, imbarazzato e forse anche dispiaciuto per la mia salute, balbettando disse: “Ah, mi dispiace, spero che vada tutto bene”.

Immagino quanto ti dispiace, brutto insolente! “Lo spero anch’io” gli risposi garbatamente e sfoderando uno dei miei migliori sorrisi.

Lui prese il resto, il vassoio e andò a tavola. Lo guardavo allontanarsi un po’ claudicante, soddisfatta della menzogna appena raccontata.

Più di una volta incrociai il suo sguardo compassionevole mentre mangiava, ma ero troppo contenta della mia piccola vendetta e poco mi importava se lui fosse preoccupato per me.

“Alla prossima, e spero di avere buone notizie” mi disse il ciccione andandosene.

“Arrivederci e grazie”.




COSA HAI COMBINATO IN MIA ASSENZA? di Laura Avati

Cosa hai combinato in mia assenza?

di Laura Avati

tratto da Voci Nuove

a cura di Daniele Falcioni

ed. Rapsodia

“Non so se ho fatto bene ad accettare l’invito di Luca, non vorrei dargli false speranze, ma di certo non potevo perdere questa occasione” pensava Eleonora, come al solito in ritardo, camminando di fretta sui tacchi a spillo, che sui sampietrini la facevano sembrare ubriaca. Aveva impostato l’indirizzo sul cellulare per evitare di girare a vuoto. “Il civico è questo” pensò, ed entrò esitante in un piccolo locale desolato, a metà tra un negozio di cianfrusaglie cinesi e un kebab. “Lo sapevo, si è vendicato quello stronzo” disse a denti stretti Eleonora. Era disorientata, il forte odore di spezie le dava la nausea mentre un paio di indiani stavano friggendo delle verdure. Nel vederla suonarono un campanello.

Da quella che sembrava una cella frigorifera uscì un uomo talmente inamidato che le sembrò di avere di fronte Lloyd, il barista fantasma di Shining. “Posso aiutarla, signorina?” disse con voce cavernosa. “Avevo un appuntamento con un mio amico, ma credo di aver sbagliato indirizzo” rispose e sorrise, imbarazzata, Eleonora. Si avviò verso l’uscita.

“O forse no, si accomodi signorina Eleonora” rispose l’ipotetico Lloyd, spostandosi dalla porta e facendole segno di entrare.
Eleonora si ritrovò in un ripostiglio pieno di scope, stracci, detersivi e secchi ammucchiati. “Ma dove diavolo sono capitata? E come fa a sapere il mio nome?” si chiedeva, impaurita e un po’ preoccupata, mentre Lloyd apriva una seconda porta e ad Eleonora sembrò di aver varcato le porte di Narnia. Una cappa di fumo di sigarette e sigari rendeva l’atmosfera ancora più misteriosa, ma il locale era davvero particolare ed affascinante come le avevano raccontato le sue amiche. Sulla destra, un tavolo con una macchina da cucire Singer anni Cinquanta fungeva da tavolino per una coppia di giovani, e la debole fiamma di una candela illuminava un angolo in fondo alla stanza, facendo risaltare una carta da parati con disegni geometrici in rilievo di velluto nero; al centro della sala c’era un pianoforte a coda e un’affascinante ragazza bionda che suonava musica jazz.

Sdraiato su una chaise lounge in fondo al locale, Luca sorseggiava il suo drink; appena vide Eleonora le andò incontro. “Ormai pensavo non venissi più” le disse, dandole un bacio sulla guancia.
Un cameriere con straccali, coppola scozzese e baffi rigirati all’insù li fece accomodare su vecchie poltrone in legno di un cinema, in una zona riservata del locale. Eleonora si sentiva a disagio perché era finalmente riuscita ad entrare al Jerry Thomas, lo speakeasy più famoso di Milano, dove solo su invito di altri tesserati potevi accedere. Stavolta aveva dovuto accettare l’invito di Luca, che più volte aveva declinato sempre con scuse più o meno credibili: quell’uomo non le piaceva molto, era sempre molto misterioso e sulle sue.

Eleonora era nervosa, ma decise di godersi la serata e chiese la carta dei cocktail: era su carta riciclata e usurata, il che le dava un’aria antica, vissuta. Pensò a quante mani l’avevano sfogliata prima di lei; abbozzò un sorriso e sulle guance le si formarono le due fossette che piacevano tanto a Luca.

“Questo posto è fantastico, meglio di come lo immaginavo, a parte l’entrata enigmatica…” disse Eleonora, e aggiunse: “Un po’ mi ero spaventata, ad essere sincera”.
“Sì, è vero, ma mai giudicare dalle apparenze!” rispose Luca.

“Anche tu mi hai sorpresa, stasera: non hai il doppiopetto!” disse Eleonora osservando Luca, che indossava jeans attillati, camicia bianca, giacca di lino azzurra e una pashmina blu al collo che faceva risaltare ancora di più i suoi occhi verdi.
“Non sono in servizio”.

“Mi puoi consigliare qualcosa, visto che qui sembri di casa?”
“Io non bevo cocktail, non mi piace il miscuglio di sapori, preferisco il whisky. Questo giapponese è fantastico, il mio preferito” rispose Luca, mandando giù un altro sorso.
Dopo aver letto tutti i cocktail disponibili e i loro ingredienti, Eleonora decise per un “Improved Aviation”, un cocktail a base di gin e liquore alle viole.

Per una ventina di secondi ci fu un silenzio pesante e imbarazzante, poi per fortuna Lloyd le portò il suo cocktail, servito in una coppa di cristallo con dentro una viola e una scorza di limone.
“Grazie” disse Luca al cameriere, dandogli una pacca sulla spalla. Eleonora ebbe l’impressione che fossero vecchi amici.

“Allora, Luca, raccontami qualcosa. In fin dei conti, si può dire che non so niente di te”.

“Non c’è molto da dire su di me, ho avuto una vita abbastanza normale” rispose Luca. “La cosa più interessante che mi è capitata è stata trasferirmi a Milano e iniziare a lavorare alla New Pack”.
“Cosa ti ha spinto a trasferirti?”

Luca si irrigidì e, dopo averci pensato un po’ su, disse: “Discutevo sempre con mio padre, il mio piccolo paese mi stava stretto”.
Eleonora gli confessò di aver avuto una sola storia importante, con un uomo più grande di lei, finita molto male perché aveva scoperto che era sposato e con dei figli. Luca le confessò cinicamente di essere stato fidanzato più volte, niente di serio, e che non aveva mai sofferto per una donna. Continuarono a chiacchierare e a raccontarsi, finché Lloyd si avvicinò e li avvisò con gentilezza che a breve avrebbero chiuso.

“È stata proprio una bella serata, grazie per avermi invitata” disse Eleonora salutando Luca all’uscita del locale.
“Grazie a te per aver finalmente accettato il mio invito, cominciavo a pensare di non aver nessuna chance” rispose lui.

“Vorrei sdebitarmi con te, magari invitandoti a cena. Che ne dici?” disse Eleonora. “Solo se cucini tu” rispose Luca.
“Ok, ci sto. Ci vediamo in ufficio, buonanotte e grazie ancora” disse, e si allontanò soddisfatta.

Per un po’ di giorni, in ufficio Luca ed Eleonora non si incontrarono: lui era in trasferta all’estero, tuttavia si spedirono qualche e-mail. Quando Luca le fece sapere che era di nuovo a Milano, Eleonora lo invitò a cena da lei. Lui accettò e lei iniziò subito a pensare al menù: voleva stupire Luca con una delle sue ricette speciali, ma non sapeva i suoi gusti e la cosa le metteva ansia. Decise per un filetto di maiale in crosta con mele e prugne, la ricetta che meglio le era riuscita al corso di cucina per single, per cui lo chef le aveva fatto i complimenti.

Luca arrivò puntuale. Entrando rimase sorpreso dal calore e dall’atmosfera che si respirava in quella casa. Notò subito la particolarità del lampadario: era una ruota di bicicletta fissata al soffitto dalla forcella, con le lampadine inserite nel tubolare. “Metti qui il giacchetto” disse Eleonora, indicando l’appendiabiti ricavato da rami inseriti in una cornice incollata al muro.

“Ti ha aiutata un architetto ad arredare casa?”
“No, sono tutte mie creazioni: amo il bricolage e i materiali di recupero. Credo che questi siano per me!” disse Eleonora, prendendo dalle mani di Luca un mazzo di fiori e una bottiglia di vino.
“Sì, scusami, ero stato distratto dalle tue opere d’arte” rispose Luca, adesso rapito da un’altalena attaccata al soffitto il cui seggiolino era stato ricavato da una mezza botte. “Mettiti pure comodo sul divano, dieci minuti e la cena è pronta”.
Anche il divano era una chicca: un assemblaggio armonioso di pallets e comodissimi cuscini beige a righe marroni. Luca, vergognandosi, non poté fare a meno di fare i confronti con il suo divano, ricoperto di cartoni di pizza, lattine di coca-cola e vaschette del take-away.
“Hai davvero talento e buon gusto, Eleonora, credo che ti ingaggerò per sistemare la mia topaia” disse Luca sorridendo, mentre la padrona di casa arrivava dalla cucina con due calici di vino bianco.
“La cena è pronta, ci possiamo mettere a tavola” disse Eleonora, che era un po’ in ansia. Aggiunse: “Ho preparato il mio cavallo di battaglia, spero ti piaccia”.
Il cavallo di battaglia era impiattato molto bene e aveva un profumo davvero invitante. Altro che quei piatti della rosticceria! pensò Luca mentre mangiava lentamente per assaporare al meglio il suo filetto.
“Non solo sei una bravissima arredatrice, sei anche un’ottima cuoca” le disse. “Grazie, sono contenta che ti sia piaciuto. E invece qual è la tua specialità?”

“Il pollo arrosto con le patate del fast food sotto casa, sono bravissimo a comprarlo e a mangiarlo” rispose Luca, guardando Eleonora che rideva. “Per non parlare della pizza e del sushi consegnato direttamente a casa” continuò Luca, “credo di aver acceso il gas di casa solo per fare il caffè”.

“Non ci credo” disse Eleonora, ridendo di gusto.
“Sediamoci sul divano, così finiamo il vino e stiamo più comodi” disse lei sprofondando nei cuscini.
Come delle vecchie pettegole, avevano parlato molto durante la cena, soprattutto di lavoro e dei colleghi, e l’avevano fatto senza risparmiare nessuno!
Eleonora a un certo poggiò ingenuamente una mano sulla gamba di Luca. Inaspettatamente lui si alzò e disse che si era fatto tardi, doveva andare via perché l’indomani aveva una trasferta a Milano. I saluti, frettolosi e freddi, lasciarono Eleonora perplessa.
La trasferta di Luca fu più lunga del previsto e, dopo qualche settimana, Eleonora seppe che si era licenziato dalla New Pack, senza dare il preavviso e senza nessuna spiegazione, lasciando tutti i colleghi molto sorpresi. Lei aveva provato a contattarlo, ma non c’era stato modo: sembrava sparito nel nulla.

“Questo posto è sempre bello ed enigmatico; sono anni che lo frequento e ogni volta noto un nuovo particolare che mi colpisce” disse Eleonora ai suoi amici, osservando una lampada ricavata da una bottiglia di rum e sorseggiando uno dei suoi drink preferiti del Jerry Thomas. Una donna al bancone del bar la stava fissando già da un po’: Eleonora non la conosceva, ma in lei aveva qualcosa di familiare e non riusciva a capire se e dove l’avesse vista prima. Seduta su una poltrona da barbiere con i cuscini un po’ rigidi, Eleonora non riusciva a stare ferma, si muoveva nervosamente, ma la scomodità della poltrona non era l’unico motivo della sua inquietudine: quella donna la turbava. Chiese a Lloyd se la conoscesse, lui rispose: “È una vecchia cliente”. Eleonora prese il suo boulevardier e si avvicinò al bancone del bar. “Ci conosciamo?” chiese alla donna misteriosa. Notò che da vicino era ancora più bella, aveva gli occhi verdi e penetranti.

“Ciao Eleonora” rispose la donna. “Sì, ci conosciamo. Sono… anzi, ero Luca” rispose la donna tutto d’un fiato.
Eleonora sgranò gli occhi, non riusciva a parlare. Bevve un sorso del suo drink sperando che la aiutasse. “Luca?” disse, incredula.

“Sì…”
“Forse è il caso di parlare un po’, ma non qui e non stasera” disse Eleonora, continuando a fissare il suo amico e non credendo ai suoi occhi.
“Mi potresti preparare un’altra cenetta, magari, e ti prometto che questa volta non scapperò” rispose Luca.
“Ok, domani sera, l’indirizzo lo conosci”.

L’indomani, Eleonora cucinava nervosamente e stavolta non per paura che le sue pietanze potessero non piacere, ma perché non le era mai capitata una situazione del genere e non sapeva come comportarsi.
Eleonora accolse il suo ospite con un sorriso imbarazzato.

“Ciao, chiamami Arianna” disse il suo ex collega.
Eleonora non riusciva a staccarle gli occhi di dosso: il suo viso, che già da uomo aveva dei lineamenti dolci, adesso le sembrava ancora più bello. Indossava un tailleur rosso fragola con pantaloni che facevano risaltare le gambe lunghe e armoniose, e poi scarpe con tacco non esagerato; gli occhi verdi, sempre bellissimi, erano messi in risalto da una matita blu e dal mascara, e un filo di rossetto evidenziava le labbra sicuramente rifatte: Arianna era bellissima. Eleonora si guardò di sfuggita allo specchio e si sentì, in confronto, la brutta copia di Cenerentola.
Iniziarono a cenare, “Mi sono sempre sentita uno, nessuno, centomila…” fece Arianna.
“Perché non me ne hai parlato?” chiese Eleonora.
“Volevo farlo quella sera a cena, ma quando hai poggiato la tua mano sulla mia gamba…”
Eleonora si sentì mortificata e si scusò. Prese la mano di Arianna, che stavolta non reagì allontanandola, e restarono in silenzio.

“Non mi dici niente?” chiese Arianna.
“Sì, ti dico che ho bisogno di bere qualcosa di forte” disse Eleonora, capendo che non era certo il momento di fare domande. “Ti va un whisky?” le chiese.
“Sì, grazie, anche se non avrai il mio preferito” disse Arianna, sorridendo e lasciando andare la mano di Eleonora.
“Ho sempre pensato che in te c’era qualcosa di diverso: eri più sensibile rispetto agli altri uomini che avevo conosciuto, più attento ai particolari, gentile…” disse Eleonora, mentre serviva da bere alla sua ospite.
“Cosa hai combinato in mia assenza?” chiese Arianna.
“Vediamo un po’: ho costruito altri pezzi d’arredamento, ho cambiato la macchina e mi sono fidanzata con un uomo di cui sono molto innamorata e che tu devi assolutamente conoscere” rispose Eleonora.
“Questa sì che è una bella notizia!” esclamò Arianna. “Da quanto tempo state insieme?”
“Da quasi tre anni. Si chiama Teodoro, e credo proprio che sia quello giusto! Aspetto solo l’anello e la proposta di matrimonio”.
Chiacchierarono a lungo prima di salutarsi e darsi appuntamento al Jerry Thomas per il venerdì successivo.
Eleonora decise di fare una sorpresa ad Arianna: le voleva far conoscere Teodoro, era sicura che si sarebbero piaciuti.

Arianna era seduta al bancone del bar a chiacchierare con Lloyd. Quest’ultimo, appena vide Eleonora, fece un gesto con la testa alla sua vecchia cliente per indicarle che era arrivata la sua amica. Arianna si girò e, come se avesse visto un fantasma, iniziò a sudare freddo.

“Ciao cara, ti presento il mio Teodoro” disse Eleonora facendo le presentazioni. “Piacere, Arianna” rispose lei, con lo sguardo basso.
Arianna voleva fuggire da quella situazione imbarazzante: Teodoro era stato un suo cliente quando era già fidanzato con Eleonora e, soprattutto, questo era accaduto prima dell’operazione. Teodoro guardò per tutta la serata Arianna insistentemente: c’era qualcosa in quella donna che lo indisponeva, ma non riusciva a capire cosa né perché. La serata non fu certo un successo.

“Che ne dici di Arianna?” chiese Eleonora al suo fidanzato mentre, abbracciati, tornavano a casa.
“Simpatica, ma un po’ scontrosa” rispose lui.
“Sì, stasera era un po’ strana in effetti”.

Arianna era seduta ancora al bar. Chiese un whisky doppio e, torturandosi nervosamente le mani, pensava a cosa avrebbe pensato di lei Eleonora se avesse saputo. Prima dell’operazione aveva fatto di tutto per potersi mantenere. Aveva dovuto lasciare il lavoro, le cure e i trattamenti erano costosi, e quel poco che aveva messo da parte era finito presto. Doveva dirglielo? Eleonora avrebbe accettato e capito? Sarebbero rimaste amiche? Del resto, lei che colpa aveva…

Teodoro, nel frattempo, non riusciva a dimenticare gli occhi di Arianna e aveva cominciato a far caso ad alcune coincidenze. Cominciò a sudare. Decise di tornare al Jerry Thomas, nella speranza di trovare ancora Arianna e chiarire il suo sospetto: su, non poteva essere Luca, era molto tempo che non riusciva più a contattarlo; inoltre, alcuni suoi amici gli avevano detto che era sparito.

Arrivò all’entrata ma, non essendo socio del locale, i ragazzi indiani in cucina non lo facevano entrare. Teodoro cominciò ad innervosirsi, poi passò ad insultare i due ragazzi. Ad un tratto, Arianna uscì da quella che sembrava la porta di una cella frigorifera. Vedendo Teodoro in quelle condizioni, si spaventò.

“Adesso mi dici chi sei!” urlò Teodoro, che si era lanciato contro Arianna come per aggredirla. I due ragazzi indiani cercarono di fermarlo, ma non riuscivano a staccarlo da Arianna.
“Si può sapere cosa vuoi da me?” fece lei.

“Solo sapere chi sei: sei Luca, vero?”
“Sì, ero Luca…”
“Sei tornato per rovinarmi la vita! Vero, brutta puttana?”

In quel momento uno dei due ragazzi indiani colpì con un bastone la testa di Teodoro, che si accasciò a terra. Arianna riuscì a scappare e a prendere un taxi, arrivò a casa che ancora tremava per la paura e per la rabbia.
Il telefono svegliò Eleonora in piena notte. “Pronto?” rispose lei con un filo di voce. “Eleonora, sono Arianna. Ti devo parlare. Sei sola?”

“Sì. Che succede? Ti senti male?” chiese Eleonora, che intanto s’era messa a sedere sul letto.
“Più o meno. Posso venire a casa tua?”
“Sì, certo. Ti aspetto”.

“Cosa hai fatto? Cosa sono quei segni sul collo?” chiese Eleonora ad Arianna appena la vide.
“Non so da dove cominciare, Eleonora. È stato… Teodoro, mi ha aspettata all’uscita del Jerry Thomas e mi ha aggredita”.

“Non ti credo, è impossibile!” fece Eleonora, a cui venne da piangere. Prese a camminare nervosamente avanti e indietro.
“Forse non lo conosci bene neanche tu” disse Arianna.
“Teodoro mi ama, e io amo lui. Non ti permetterò di parlare male di lui”.

“Ho fatto male a venire qui. Chiedi al tuo caro Teodoro la verità e poi decidi tu stessa a chi credere” disse Arianna prima di andarsene. Eleonora era spaventata. Provò a chiamare Tedoro, ma il telefono era spento, probabilmente già dormiva. Riprovò varie volte, ma fu inutile. Si rimise a letto, tuttavia non riuscì più ad addormentarsi. La mattina successiva, Eleonora fece una doccia fredda e bevve un caffè forte prima di uscire per andare a lavorare. Accese come sempre la radio della macchina, già sintonizzata sulla sua stazione preferita. Una notizia data al giornale radio le provocò uno spasmo: una donna era stata mortalmente aggredita nel parco vicino a casa sua; grazie alle telecamere di sorveglianza, l’aggressore era stato riconosciuto e arrestato. Non avevano dato le generalità della vittima e neanche dell’aggressore. Eleonora, inebetita, provò a chiamare per l’ennesima volta Teodoro, ma il cellulare era ancora spento. Provò a chiamare Arianna, ma il telefono squillò a vuoto più e più volte.

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IO NON SONO UN VULCANO

Laura Avati

Io non sono un vulcano

Caterina guardava dalla finestra il temporale che si era spostato in alto mare. I fulmini che cadevano nell’acqua creavano un gioco di ragnatele e luci che catalizzavano la sua attenzione: il fuoco in ogni sua forma l’affascinava. C’era stata anche una piccola scossa di terremoto, il che significava che la Montagna era in fermento e una colata di ricordi la travolsero. Pensò al suo paese, Nicolosi, nell’entroterra siciliano ai piedi dell’Etna. Sicuramente i paesani stavano ornando con candele gli altarini dedicati al vulcano, disseminati lungo le vie del paese in segno di devozione.

Abitava in una piccola palazzina di vecchia costruzione al porto di Giarre, in una zona un po’ squallida. Quella stamberga aveva un piccolo balconcino dal quale si vedeva il mare, e questo le era bastato per farla innamorare di quel tugurio. Con il tempo lo aveva sistemato e abbellito un po’: aveva pitturato le persiane e la ringhiera del balcone di azzurro, come quelle delle case di un paese della Grecia che aveva visto su una rivista e dove sognava prima o poi di andare in vacanza; aveva anche restaurato una vecchia credenza, che le ricordava quella della sua adorata nonna, ma non era mai riuscita a liberarsi dell’umidità e degli spifferi che rendevano la casa fredda.

Caterina aveva bisogno di respirare, le accadeva spesso in quel periodo. Decise di uscire. Scesa in strada, si girò per guardarlo: quella notte l’Etna stava dando spettacolo, e il suo pennacchio rosso fuoco si riusciva a vedere bene anche da Giarre. Sorrise. Aveva smesso di piovere da poco e una nebbia gelida saliva dal mare stranamente calmo, invadeva i vicoli deserti rendendo quasi impossibile orientarsi. In lontananza, una vecchia campana suonò ventuno rintocchi, rimbombarono per le strade fino a dileguarsi nel silenzio irreale di quella notte. Le botteghe a quell’ora erano tutte chiuse e l’unica insegna accesa era quella di un caffè i cui neon erano per metà rotti. Il solo punto di riferimento erano i lampioni dell’illuminazione pubblica, che tra la nebbia apparivano e sparivano come miraggi.

Una musica travolse improvvisamente Caterina. La sentiva venire da lontano e le sembrò di riconoscere la ninna nanna che sua nonna le cantava la sera quando era piccola, seduta sulla sua sedia a dondolo proteggendola in un abbraccio per farla addormentare. Il freddo le penetrò le ossa. Strinse un po’ la cinta del cappotto e sprofondò con il naso nella sciarpa di lana che le aveva regalato sua mamma per Natale: l’aveva fatta lei ai ferri, la sera davanti al camino, e aveva infatti un odore un po’ aspro di lana e fumo, ma le dava calore e conforto. Seguendo la

musica e cercando di capire da dove arrivasse, Caterina si era allontanata molto da casa, arrivando così fino al centro della città, dove durante il giorno regnava la confusione, mentre in quel momento era tutto deserto. Si trovava in un posto di cui aveva sempre sentito parlare e sparlare, ma che non aveva mai avuto modo di visitare: il Parco Archeologico dell’Incompiuto. Era una delle tante opere pubbliche iniziate e mai finite della Sicilia; anzi, era stata definita “la capitale delle opere pubbliche abortite”, strutture iniziate a costruire nei primi anni ’80, poi abbandonate e ormai da buttare giù. Il cemento si sgretolava sotto le dita e la vegetazione si impossessava degli spazi abbandonati. I suoi studenti le avevano detto che molti adolescenti andavano in quel posto a fumare di nascosto o a fare l’amore.

Caterina si trovò davanti a quelle strutture fatiscenti, imperfette, enormemente grigie e tristi. In parte le sembrarono un paesaggio surreale e fantastico. S’inoltrò in quella giungla di cemento, come rapita da quei mostri che, a ben guardarli, non erano poi così ostili come a prima vista sembravano. Una bellissima bouganville dai fiori arancioni si arrampicava e addolciva le travi di quelle che avrebbero dovuto essere le tribune del campo di polo. Un grande cactus si era riappropriato del suo territorio, segno che la natura si stava riprendendo ciò che era suo, pensò Caterina. Tali e tante erano le forme e le ombre che si creavano che a Caterina sembrava di guardare attraverso un caleidoscopio.

“Professoressa Amabile, cosa ci fa lei qui a quest’ora?” fece a un tratto un suo ex alunno, appoggiato ad una trave.
“Rocco!” esclamò. “Mi hai fatto spaventare” disse portandosi la mano al petto, come se con quel gesto volesse normalizzare i battiti cardiaci. “Che ci fai qui a quest’ora?”

“Vengo spesso qui” rispose Rocco con voce calma e abbassando lo sguardo, quasi vergognandosi.
“Tutto bene, Rocco?”
“Sono tornato da poco a Giarre” rispose lui, aggrottando le sopracciglia. “Dopo la laurea, sono stato un po’ dai miei cugini al nord, ma non ce l’ho fatta ad ambientarmi”.

“Se ti può consolare, neanche io mi sono mai ambientata qui” rispose Caterina sedendosi accanto a lui.
“E poi, se è vero ca u munnu gira, ri cà avi a passari” fece Rocco sorridendo. Tirò dal mozzicone di sigaretta e buttò fuori il fumo dalle narici.

“Certo, ma non credo proprio che la fortuna si farà vedere in questo posto” rispose sarcasticamente Caterina.
“Lei, professoressa, non è cambiata per niente. Anche il taglio dei capelli è ancora lo stesso”. “Sono cambiata, invece, sicuramente sono invecchiata”.

Restarono in silenzio per un po’. Caterina ricordava che Rocco era sempre stato diverso dai suoi compagni, schivo e silenzioso, chiuso nel suo mondo accessibile solo a pochi amici e a pochissime amiche. Aveva provato più volte a coinvolgerlo in attività extrascolastiche, ma lui non aveva mai partecipato. I suoi testi erano davvero un piacere da leggere, sempre profondi ed emozionanti. Una volta aveva scritto sul tema dell’omofobia, e aveva raccontato di due ragazzi gay di Giarre soprannominati gli “Ziti”, trovati morti mano nella mano a causa di un colpo di pistola alla testa. Aveva parlato con sensibilità e delicatezza di quei dei ragazzi, che probabilmente venivano a nascondersi proprio qui, al Parco dell’Incompiuto, pensò Caterina. “Le faccio fare un giro, professoressa?”

“Sì, grazie” rispose Caterina. Si alzò, spolverandosi il cappotto. Notò una corda vicino a Rocco, poi salirono su delle gradinate da dove riuscivano a vedere tutte le opere. Una civetta cantava e a Caterina vennero in mente gli anatemi che sua nonna lanciava contro quel povero uccello ogni volta che lo sentiva cantare. “Porta scutra” diceva.

“Questa è la pista di atletica, e quello sotto i cassonetti dell’immondizia è il campo da polo” disse Rocco indicando una discarica a cielo aperto. “E quella laggiù è la piscina olimpionica, e ci sono anche una ludoteca, un teatro, una casa per anziani, un mercato per i fiori e una pista per le macchinine: come vede, professoressa, non manca niente”.

Caterina era allibita e senza parole: sarebbe stata davvero una bella realtà per grandi e piccoli se quel progetto fosse stato concluso.
Caterina sospirò, poi disse: “Ma che ci vieni a fare, tu, in questo posto?”
“Sto bene qui, nessuno mi viene a rompere le scatole” rispose Rocco.

“Hai un lavoro?”
“No, qui non c’è un cazzo da fare. O vai a lavorare la terra o fai il pescatore, oppure diventi un criminale” rispose, e aggiunse: “Siccome d’inverno in campagna non c’è molto da fare, sto a casa”.
Caterina notò che Rocco si era rabbuiato. All’improvviso, però, disse: “Si ricorda di Mimmo?” “Sì! Come sta?”
“Si è suicidato: non voleva diventare come il padre, don Ciro. Lei sa chi è. E Carmela… se la ricorda?”
“Carmela era quella ragazzetta tutta pepe, anche un po’ strafottente, biondina. Voleva girare il mondo…”
“Sì, proprio lei. Sa… si è dovuta sposare un latitante, adesso ha tre figli e fa la vita di una carcerata”.
Caterina deglutì a fatica.

“Posso continuare, se vuole. Ne ho da raccontare!”
Caterina fu distratta di nuovo da quella canzone. Chiese a Rocco: “La senti anche tu questa musica?”
“Quale musica? Io non sento niente”.
“Mi sembra che provenga da quella parte” disse Caterina, indicando la piscina olimpionica. “Ok, allora andiamo a vedere se c’è una festa da quelle parti, magari ci offrono da bere” rispose in modo beffardo Rocco, accendendosi un’altra sigaretta.
Scesero la scalinata e si avviarono: “Stia attenta a dove mette i piedi, il pavimento non è ancora finito” disse Rocco con tono scherzoso.
Arrivarono ad una grande buca, immensa, sul cui fondo erano spuntate piante di ogni genere, che evidentemente avevano avuto la meglio sul cemento ormai tutto crepato: “Qui non c’è nessuna festa. Sente ancora la musica, professoressa?” chiese Rocco sorridendo.
“Sì” rispose lei, un po’ infastidita dal tono canzonatorio di Rocco.
Caterina cominciò a camminare intorno a quella pseudo-piscina. C’era qualcosa di mistico in quel posto che l’attraeva, e che faceva di quell’ammasso di cemento un posto sorprendente: forse era questo che si intendeva con la teoria dei non-luoghi, e forse per questo Rocco andava a rifugiarsi lì. Caterina lo guardò: ormai era un uomo, non era più il ragazzo che lei ricordava. Si strinse la cinta del cappotto e si sedette sul bordo della piscina lasciando dondolare le gambe nel vuoto, come faceva da bambina quando il nonno la faceva sedere sul vascone usato dalle donne del suo paese per lavare i panni.
“Lì fuori non c’è posto per me, professoressa. Mi sento incompiuto, come questo posto” confessò Rocco, che si era seduto nel frattempo accanto a lei.
“Non stai bene neanche qui?” chiese Caterina.
“Non riconosco più questo paese come il mio paese” disse Rocco, che fissava il fondo della piscina.
Caterina ricordò con nostalgia quando lei da ragazza trascorreva ore e ore seduta sul muretto della fontana nella piazza di Nicolosi a chiacchierare spensieratamente con i suoi amici, guardandosi in faccia e ascoltandosi davvero.
“Rocco, c’è ancora tanto da scoprire, perfino in questa nostra piccola realtà”.
“Ma si rende conto di che mondo c’è lì fuori?”
Caterina non seppe come replicare, in effetti Rocco non aveva tutti i torti. Viveva in un mondo molto diverso da quello in cui lei era vissuta quando era più giovane, con altri problemi e diverse dinamiche sociali.
La civetta continuava il suo canto e le piante si piegavano al vento, che si era improvvisamente

alzato e sibilava tra le fessure dei muri crepati.
“Cosa vorresti fare? Nasconderti tra queste miserie per tutta la vita?”
“Questa non è vita, professoressa” rispose glaciale il ragazzo.
“Rocco, io e te ci somigliamo in tante cose, capisco il tuo malessere, ma devi reagire: non risolverai alcun problema nascondendoti. Come si dice… Cu ’un fa nenti ’un sbaglia” disse Caterina, poggiando affettuosamente la mano sulla spalla di Rocco che, a testa bassa, si guardava le mani rovinate dal lavoro nei campi.
“Volevo fare l’architetto, sposarmi e avere dei figli. E invece…”
“Invece cosa, Rocco? Sei giovane e hai tutte le capacità per fare quello che senti di voler fare” incalzò Caterina, ma Rocco scuoteva la testa. Lei pensò alla corda che aveva visto prima e un brivido la raggelò. Ebbe la sensazione che quella sera con Rocco avesse fallito, che non fosse riuscita ad aiutarlo, come invece avrebbe voluto.
Caterina gli prese una mano e gli chiese: “Me la offri una sigaretta?”
“E da quando fuma, professoressa?” fece Rocco, evidentemente sorpreso da quella richiesta. Le porse la sigaretta e se ne accese una anche lui.
“Perché quella corda?” chiese improvvisamente Caterina, terrorizzata dalla possibile risposta. “È da un po’ che sta lì, mi fa compagnia…”
Caterina era adesso ancora più spaventata, sentiva che doveva fare qualcosa. Un colpo di tosse a causa del fumo la fece quasi strozzare.
“Tutto bene, professoressa?”
“Sì sì, tranquillo. È che non so fumare” rispose lei con un filo di voce.
Una scossa di terremoto fece tremare tutto, ma Rocco e Caterina rimasero tranquilli, abituati com’erano alle scosse della Montagna.
“Vieni con me” disse lei, alzandosi subito dopo e spegnendo con la scarpa la sigaretta.
“Mi porta a qualche altra festa?” chiese Rocco con tono beffardo.
Caterina non si curò di quelle parole e cercò un punto da dove l’Etna si vedeva bene. Lo raggiunsero senza dire nulla.
“Tu sei come lui, Rocco, una montagna piena” disse guardando estasiata le fiamme sul vulcano. “Devi buttare fuori tutto quello che hai dentro. Prendi il bello da ogni cosa e vivi per quello” disse, con gli occhi puntati sul vulcano e appena velati di lacrime. Con un nodo in gola, Caterina confidò a Rocco: “Sai, l’unica cosa a cui pensano i miei amici e i miei parenti è che sono una donna a metà, visto che non mi sono creata una famiglia. Ma non si sono mai chiesti il perché, probabilmente”. Poi aggiunse, guardando il vulcano: “Non lo trovi affascinante? Ogni tanto si ribella, vomita e distrugge quello che incontra sulla sua strada, senza curarsi di niente e

nessuno. Eppure, lungo le sue pendici spuntano ogni anno meravigliosi cespugli di ginestre. Perché non inizi a scrivere? Eri così bravo…”
“E poi lei mi metterà il voto e correggerà gli errori con la penna rossa?” chiese Rocco. Caterina non capì se fosse l’ennesima battuta sarcastica o una richiesta di aiuto.

“Mi farà piacere leggere quello che scriverai” rispose dolcemente Caterina. “Grazie” si limitò a dire a Rocco.
“Toglimi una curiosità, Rocco: quale era il mio soprannome al liceo?”
“A babba schietta”.

“Ah! Pensavo peggio. Avete avuto sempre poca fantasia” fece lei, sorridendo. Poi aggiunse: “Si è fatto tardi. Sarà meglio avviarmi verso casa, anche perché è una bella passeggiata da qui fino al porto”. Caterina guardò Rocco e disse: “Posso andare via tranquilla?”
“Certo, professoressa. Farò il bravo”.

Lui la salutò stringendole forte la mano. Caterina strinse la cinta del cappotto e si avviò. “Professoressa” urlò Rocco dopo un po’, quando lei già era lontana, “la sente ancora la musica?”
Caterina fece un gesto con un braccio per dire di no, non sentiva più la musica.

Rocco fumò l’ultima sigaretta e accartocciò il pacchetto, rimasto vuoto.
Il suolo tremò di nuovo e lui perse l’equilibrio. Si appoggiò ad un muretto per non cadere. Cercò di tenere dritta almeno la testa per non vomitarsi addosso. Adesso avrebbe voluto un’altra sigaretta per togliere l’amaro dalla bocca. Raccolse il mozzicone che aveva appena spento. Era una notte di luna nuova e sapeva che avrebbe aspettato l’alba fra quei ruderi, come tante altre volte aveva fatto.
“Io non sono un vulcano” disse, guardando la corda.
La civetta di prima cantò.

 

Laura Avati, Io non sono un vulcano, in Voci Nuove 7, a cura di Daniele Falcioni, Rapsodia, Roma 2020, pp. 49-56.




Raccolta di racconti e poesie: Voci Nuove

Lavoro finale del corso di scrittura creativa di Daniele Falcioni

Quando la mia amica Silvia mi ha portato il suo regalo di Natale si capiva fosse un libro, ma non capivo quel sorriso sicuro che le illuminava il viso «Questo non c’è nella tua libreria, contaci!» e solo dopo averlo scartato ho gioito e compreso: il libro in regalo è l’ultimo volume Voci Nuove edito da Rapsodia Edizioni uscito a dicembre.
Non poteva farmi regalo più bello, perché nel libro ci sono anche i racconti e le poesie a firma Silvia De Felice.

Voci Nuove volume 7 è una raccolta di racconti e poesie frutto di un anno di duro lavoro di otto autrici che seguono da alcuni anni il corso di scrittura creativa di Daniele Falcioni ad Aprilia.
Un lavoro certosino, fatto di idee, tagli, revisioni, fogli accartocciati, cancellature e frasi trasportate da pagina in pagina che si è svolto da remoto, visti i provvedimenti di distanziamento dovuti al Covid-19 e anche perché il loro docente è insegnante di Lingua Italiana all’Università di Edimburgo.

Incisiva e toccante la prefazione al libro del docente Falcioni il quale, prendendo a prestito le parole di Gottfriend Benn, afferma come durante quest’anno lui, insieme alle sue autrici

 

Abbiamo vissuto qualcosa di diverso, pensato qualcosa di diverso da ciò che ci aspettavamo, e ciò che rimane è qualcosa di diverso da ciò che avevamo in mente

 

Ho avuto il piacere di leggere i racconti di Silvia De Felice quando ancora erano in fase di revisione ma la forza della sua capacità narrativa è così insita nelle parole utilizzate che, leggendoli ora inseriti in un libro, mi hanno fatto dimenticare completamente chi fosse l’autrice spingendomi ad arrivare fino in fondo ad ogni racconto catturata dal ritmo incalzante.
Ha prevalso il testo rispetto al legame e credo che questo sia quanto di più bello possa sentirsi dire chi scrive per il puro piacere di creare storie, perché non conta chi sia a narrarle ma la capacità che hanno le parole di far viaggiare il lettore.

Ho amato il profondo senso di amicizia tra Elisabeth, Arthur e John in “Adagio” e sono rimasta piacevolmente catturata dall’energia di “Avventura di un’estate” mentre non oso dare un giudizio sulle poesie inserite nel volume in quanto considero l’arte della poesia come qualcosa di estremamente personale, capace di innalzare l’animo o di passare senza alcun smottamento interiore in relazione allo stato emotivo del lettore.

Ci tengo a inserire i nomi di tutte e otto le autrici del volume in ordine alfabetico: Laura Avati, Martina Belvisi, Meri Borriello, Ninni Caraglia, Cristina Cortelletti, Silvia De Felice, Valentina Pucillo e Silvia Zaccari.

Voci Nuove è volume che merita di essere letto per la grande capacità narrativa delle autrici, ciascuno con un proprio stile e, proprio per questo, capaci di soddisfare e di raggiungere il cuore di diversi tipi di lettori.

Voci Nuove è disponibile nelle librerie di Pomezia e Aprilia e mi auguro che presto possa esserci l’occasione di una bella presentazione in presenza.