Spaceman, merita davvero tutto questo successo?

Spaceman, il nuovo sci-fi romantico diretto da Johan Renck e uscito lo scorso primo marzo, è ora il secondo film più visto su Netflix, ma merita davvero tutto questo successo?

Presentato al Festival del Cinema di Berlino, ci racconta una storia che ha come protagonista l’astronauta Jakub Procházka, il quale, dopo sei mesi di missione nello spazio, affronta la crisi del suo matrimonio grazie a una misteriosa creatura a bordo della navicella.

Il ruolo principale, sebbene inaspettatamente, è ricoperto dall’amato attore americano Adam Sandler, che ci sorprende con un’interpretazione particolarmente drammatica nonostante la sua nota fama da comico. È quasi insolito, infatti, vederlo recitare senza scoppiare in un mare di risate ad ogni battuta, ma, a prova della sua bravura, notiamo quanto egli sappia adattarsi ad ogni tipo di ruolo, dal più al meno serio.

In aggiunta, anche se da un film di questo genere ci si aspetterebbe grandi effetti speciali, il regista sceglie invece di ambientarlo maggiormente in spazi emotivi, concentrandosi sulla mente e sulla sensibilità del protagonista. Jakub infatti, considerato “l’uomo più solo al mondo” si ritrova a porsi delle domande profonde sulla sua vita e in particolare sulla relazione con la moglie, aiutato da un ragno gigante che di certo metterebbe a dura prova chiunque soffra di aracnofobia, come la sottoscritta. Seguiamo quindi la solitudine del protagonista e proviamo empatia per questo, osservando le sue giornate all’insegna della noia e della stremante ripetitività. Benché però la realtà che il film descrive sia particolarmente attuale e immedesimabile e dunque l’idea sia brillante, non si può dire altrettanto sulla sua riuscita.

A parere di chi scrive, infatti, il film risulta assai noioso e difficile da seguire, ma soprattutto a tratti nauseante, ciò a causa delle varie scene con il ragno Hanuš che potrebbero urtare particolarmente lo spettatore o addirittura disgustarlo.

Per quanto quindi possa forse adescare i fan della fantascienza o, più verosimilmente, quelli di Adam Sandler, stento ancora a comprendere il tanto successo avuto negli ultimi giorni, essendo personalmente uno dei film che meno ho apprezzato quest’anno.

Virginia Porcelli




La finestra di fronte, il valore dei ricordi

È da soli pochi giorni che il film del 2003 di Özpetek, “La finestra di fronte”, è tornato su Netflix e ha subito riacquisito il successo iniziale, piazzandosi subito tra i contenuti più visti. La straziante pellicola romantica ci presenta la vicenda di Giovanna, la quale si ritrova a prendersi cura di un uomo anziano smarritosi per un vuoto di memoria. Cercando di indagare sulla sua identità, avrà anche lei modo di riscoprire sé stessa e i suoi sentimenti.

La scelta dei protagonisti da parte del regista è senza dubbio appropriata. I nomi di Giovanna Mezzogiorno e Raoul Bova, infatti, non ci sono per nulla nuovi. I due sono tra i migliori attori del cinema italiano e insieme sono semplicemente sensazionali, in particolare la Mezzogiorno rappresenta perfettamente le emozioni e i dubbi di una donna infelice e insoddisfatta della propria vita. Per non parlare di Filippo Nigro e Massimo Girotti, anch’essi grandi attori.

Il tutto è coronato dal romantico sfondo che presta la città di Roma, tra i luoghi più celebri, come il ghetto e i quartieri più intimi e nascosti. Altro elemento che di certo non passa inosservato è il commovente estratto della colonna sonora: “Gocce di Memoria” di Giorgia. La canzone, infatti, era stata pubblicata nel 2003 per il film e aveva avuto un incredibile successo. Anche a distanza di anni è conosciuta da tutti, ma solo chi ha visto il film può, a parere di chi scrive, capirla a pieno ed apprezzarla ancora di più.

Nel brano, dedicato al grande amore dell’artista, Alex Baroni, è racchiuso l’intero significato del capolavoro di Özpetek, ossia il valore dei ricordi. Ogni persona importante che ha fatto parte della nostra vita, infatti, ci lascia qualcosa, un insegnamento che porteremo sempre con noi. Il film è l’intreccio di due storie, è il racconto di un amore impossibile, da cui impariamo a non accontentarci mai di sopravvivere sacrificando noi stessi, ma al contrario a vivere seguendo le proprie passioni e la propria felicità.

Virginia Porcelli

 




La Tosca di Puccini

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Giacomo Puccini (1858-1924) è stato un compositore italiano, considerato uno dei più grandi esponenti dell’opera lirica del suo tempo.
Nato a Lucca, in Toscana, Puccini proveniva da una famiglia di musicisti e iniziò la sua formazione musicale con suo padre e con altri insegnanti di Lucca.

Dopo aver studiato al Conservatorio di Milano, Puccini debuttò nel 1884 con l’opera “Le Villi”.
Tuttavia, la sua fama internazionale arrivò con la messa in scena di “Manon Lescaut” nel 1893 e poi con le successive opere “La Bohème” (1896), “Tosca” (1900), “Madama Butterfly” (1904), “La Fanciulla del West” (1910) e “Turandot” (1926, incompiuta).

Le opere di Puccini si caratterizzano per l’originalità delle melodie, la ricchezza dell’orchestrazione e la forza emotiva delle storie.

Il compositore era particolarmente attento alla rappresentazione dei personaggi femminili, che hanno spesso un ruolo centrale nelle sue opere.

La sua musica ha avuto un grande impatto sulla cultura popolare, influenzando il cinema e la musica leggera.
Anche oggi, le sue opere continuano ad essere rappresentate nei teatri di tutto il mondo, attirando un vasto pubblico di appassionati di musica lirica.

La Tosca

 

La Tosca di Puccini è un’opera lirica in tre atti su libretto di Luigi Illica e Giuseppe Giacosa, basata sulla pièce teatrale “La Tosca” di Victorien Sardou.

La prima rappresentazione ebbe luogo al Teatro Costanzi di Roma il 14 gennaio 1900, ottenendo un enorme successo di pubblico e critica.

La trama ruota attorno alla storia d’amore tra la cantante Floria Tosca e il pittore Mario Cavaradossi, minacciati dalla malvagia azione del capo della polizia, il barone Scarpia, che vuole possedere la Tosca per sé.

La figura di Tosca è un’immagine emblematica dell’opera romantica: una donna passionale, impetuosa e gelosa che difende l’amato fino alla morte. La sua aria “Vissi d’arte” è uno dei momenti più toccanti dell’opera, in cui la protagonista si interroga sulla giustizia divina e sulla sua stessa vita dedicata all’arte.

La vicenda si sviluppa attraverso la storia d’amore tra i protagonisti ed esplora i temi della gelosia, della vendetta, della passione e della morte.
Fulcro della trama è la congiura contro il governo francese in cui Cavaradossi è coinvolto e che Scarpia vuole sventare a tutti i costi.

Il finale, tragico, vede la morte di tutti e tre i protagonisti. Nella celebre scena finale la protagonista si getta dalla cima del Castel Sant’Angelo per evitare di essere arrestata e condannata a morte.

La Tosca è una delle opere più celebri di Puccini e viene apprezzata soprattutto per le sue arie, tra cui spiccano “Vissi d’arte”, cantata dalla Tosca, e “E lucevan le stelle”, eseguita da Cavaradossi. La partitura è caratterizzata da un’orchestrazione ricca e variegata, che sottolinea gli aspetti drammatici della vicenda.

La sua bellezza e intensità emotiva sono dovute non solo alla musica, ma anche alla trama avvincente e alle forti personalità dei personaggi.

La Tosca, dunque, è un’opera lirica di grande bellezza e intensità emotiva, con personaggi profondamente caratterizzati.
Grazie alla sua storia d’amore travagliata e alla sua forza drammatica, continua a conquistare il pubblico di tutto il mondo.




La Salomè

La figura di Salomè

Forse molti di voi hanno sentito parlare della figura di Salomè.
Ebbene, Salomè è un famosissimo personaggio biblico, la bellissima figlia di Erodiade, principessa giudaica tanto affascinante quanto terrificante ed anche una delle prime danzatrici (parleremo più avanti della sua danza dei sette veli).

La figura di Salomè ha da sempre ispirato numerose opere d’arte, dal Cinquecento fino nel Novecento – basti pensare alla formella “Banchetto di Erode” di Donatello o al celeberrimo “Salomè o Giuditta” di Gustav Klimt – ma anche di opere teatrali.

Oggi andremo a vedere, infatti, la Salomè di Richard Strauss, composta nel 1905.

Strauss basa il suo dramma sull’omonimo in francese di Oscar Wilde, tradotto in tedesco da Lachmann e riadattato dunque da Strauss per la sua opera.

Già a partire dal 1900, anno della pubblicazione dell’Interpretazione dei sogni di Freud, si era sviluppato un grande interesse per la psicologia dei personaggi, famosi e non, che erano talvolta passati alla storia come “negativi”.

È il caso di Salomè.

 

La Salomè di Strauss

 

La storia di Salomè, nell’opera di Strauss, comincia con l’arrivo di Jochanaan (Giovanni Battista) nella prigione del palazzo di Erode, tetrarca di Gerusalemme.

Nella sala accanto alla cisterna dov’è prigioniero il profeta è in corso un banchetto dal quale Salomè scappa, incuriosita dalla litania continua che sente provenire dalla stanza accanto.

A guardia del prigioniero vi è Narraboth, capitano dei soldati, il quale inizialmente cerca di desistere dalla pressante richiesta di Salomè di liberare Jochanaan per farglielo conoscere.
Narraboth, tuttavia, innamorato di Salomè e ammaliato dal suo fascino, si lascia convincere.

Jochanaan viene liberato e comincia a condannare i peccati di Erode e di sua moglie, Erodiade, madre di Salomè.
La ragazza, invece, guarda affascinata il profeta dai lunghi capelli e dalle belle labbra ed immediatamente se ne innamora.

Cerca di sedurlo, di avvicinarsi, ma Jochanaan è irremovibile: la respinge.

Intanto, in disparte, Narraboth assiste a questo atto di seduzione da parte della sua amata, e non potendo più sopportare tale visione, si uccide in silenzio.

Salomè neanche se ne accorge, tant’è presa dal desiderio di baciare Jochanaan, che tuttavia la allontana ferocemente. Egli la maledice e ritorna nella cisterna, sprezzante.

Erode, Erodiade ed il loro seguito, nel frattempo, cercano Salomè.
Una volta trovata Erode offre alla giovane vino, frutta ed un posto al suo fianco, sotto lo sguardo furente della madre, ma lei rifiuta.

Solo quando le offre in cambio qualunque cosa lei desideri, Salomè accetta di danzare.

La principessa esegue questa danza perturbante, movimentata, selvaggia: i suoi veli cadono uno ad uno mentre lei volteggia estatica di fronte ad Erode.

 

Il Finale

 

Alla fine della danza Erode le chiede quale sia la ricompensa da lei voluta e Salomè, orgogliosa, risponde: la testa di Jochanaan su un piatto d’argento.

Inorridito, Erode cerca di farle cambiare idea, ma invano, ed infine le offre la testa del Battista.
Salomè, al colmo della gioia, canta, afferra la testa del profeta e bacia, finalmente, la sua bocca.

Erode, dopo tanto orrore, ordina ai soldati di uccidere la figliastra.

Si conclude così una delle storie più perturbanti, che sin dall’antichità ha il potere di destare stupore, curiosità ma anche orrore e repulsione.




Le Tre Sorelle di Čechov

Anton Čechov nasce a Taganrog, in Russia, nel 1860.
Nonostante fosse un medico di professione, per tutta la sua vita Čechov ha coltivato l’amore per la letteratura.

Infatti, pubblica la sua prima raccolta di novelle intitolata “Le fiabe di Melpomene” nel 1884, lo stesso anno della sua laurea in Medicina.

Successivamente, dal 1887, inizia a pubblicare i romanzi più famosi – che tuttavia iniziano ad essere caratterizzati da una vena pessimistica – probabilmente in corrispondenza con i primi sintomi della tubercolosi.

Il suo romanzo più celebre è Il Gabbiano, scritto nel 1895, lo stesso anno in cui conosce Lev Tolstoj con cui instaura una profonda amicizia. Successivamente, nel 1901, sposa l’attrice Ol’ga Knipper, ma pochi anni più tardi, nel 1904, Čechov muore di tubercolosi.

Oltre a lavorare ai romanzi, Čechov scrive anche drammi teatrali, come Zio Vanja e Il giardino dei ciliegi, suo ultimo dramma prima della morte.

Le Tre sorelle è il suo penultimo dramma teatrale, scritto nel 1900 e diviso in quattro atti.

La struttura del dramma è più simile ad un monologo, dove gli atti sono slegati tra loro quasi a rappresentare dei flash che l’autore apre sugli stadi d’animo dei personaggi in scena.
Non c’è una vera e propria trama, non succede nulla di concreto.

Protagoniste di quest’opera sono tre sorelle: Ol’ga, Maša e Irina, le quali vivono una frustrata e inappagante vita in una città di provincia senza nome, sognando un giorno di poter andare via, a Mosca.

La città, Mosca, è un personaggio sempre presente ma non esistente. Rappresenta la metafora dell’agognata libertà a cui aspirano le tre sorelle, vittime dell’oblio e dell’insoddisfazione di una vita grigia.

Assieme a loro vive il fratello Andrej, uomo colto e istruito, ma che nella delusione di non aver ottenuto un posto come docente all’università sposa Nataša, una donna crudele e meschina.

Attorno alla casa delle tre sorelle gravita una brigata di militari: il barone Tusenbach, ikl colonnello Versinin, il medico Cebutinik.

Il primo atto, caratterizzato da una lentezza e da una monotonia rappresentatrici del vuoto esistenziale delle vite dei quattordici personaggi, esplora anche la loro psicologia. I lunghi tempi narrativi vanno di pari passo con i tempi oziosi che vivono i protagonisti del racconto.

Solamente durante la seconda metà del dramma esplodono un caos di emozioni: amori, delusioni, aspettative, angosce e morte.
In questo intreccio domestico, vediamo a poco a poco districarsi i fili intrecciati nella prima metà.

Ogni personaggio, infatti, trova il proprio posto: Irina decide di sposare il barone Tusenbach, che tuttavia, alla vigilia delle nozze, viene ucciso in un duello; Maša si innamorerà del colonnello Versinin struggendosi d’amore per esso, Ol’ga, invece, otterrà il posto da direttrice del ginnasio femminile che per nulla desidera.

Il quarto atto si conclude con la partenza della brigata militare e con il crollo di ogni illusione. Celebre, infatti, il grido con cui Irina sancisce l’impossibilità dell’uomo di cambiare la propria vita e la propria condizione di miseria: “ a Mosca, a Mosca!”




Il Don Giovanni di Mozart

La figura del Don Giovanni nasce nel 1630 a opera del commediografo Tirso de Molina (1579-1648) nella sua opera in versi El burlador de Sevilla y convidado de piedra e fu creata “come nient’altro che un opera edificante, e svolto senza molta arte, né profondità”.

Il suo Don Giovanni non è tanto il seduttore di cui parleremo in seguito, quanto più un burlador, un ingannatore, un abbindolatore, intento solo a godere “il materiale e momentaneo possesso di questa o quella”.

Il fulcro di quest’opera ruota attorno alla caduta di Don Giovanni culminante nella cena con la statua di pietra, che terminerà con la sua morte.

L’intento morale è chiaro: l’uomo che non si pente dei propri peccati è destinato alla dannazione.

Nel 1787 Wolfgang Amadeus Mozart (1756-1791) compose Il dissoluto punito ossia il Don Giovanni, un dramma-giocoso su libretto di Lorenzo da Ponte.

E sarà dunque Mozart ad analizzare e meglio interpretare la figura di Don Giovanni, non più “libertino” pentito come abbiamo visto in Tirso de Molina, bensì diabolus, ovvero colui che separa, che divide.

Ed è proprio in questo atto della separazione che risiede il potere demoniaco di Don Giovanni. Egli tiene separati i suoi nemici, soggiogandoli alla propria volontà, ma è qui che risiede anche la sua debolezza.

Come vedremo più avanti, sarà l’unione dei personaggi sue vittime a segnare la sua rovina.

L’opera è divisa in due atti: nel primo atto Don Giovanni, con l’aiuto del servo Leporello (nelle opere precedenti Sganarello) dopo essersi introdotto nella casa di Donna Anna per sedurla, cerca di scappare via furtivamente ma viene scoperto dal padre di lei, il Commendatore, e scontrandosi a duello con esso, lo uccide.

Donna Anna, insieme al fidanzato Don Ottavio, allora giurano vendetta per la morte dell’uomo.

Successivamente entra in scena Donna Elvira, la moglie abbandonata di Don Giovanni, che dopo aver scoperto la vera natura di Don Giovanni attraverso la famosissima Aria del Catalogo cantata da Leporello decide si impegnarsi affinché egli si penta e si redima.

Nel frattempo, Don Giovanni si imbatte nella festa di nozze di Masetto e Zerlina e decide di sedurre quest’ultima.
Donna Elvira, giunta tempestivamente, salva Zerlina.

Durante il funerale del Commendatore, avviene una disputa tra Donna Elvira e Don Giovanni, e Donna Anna riconosce la voce del suo assalitore in esso.

L’atto si conclude con una festa, dove tutti i personaggi, insieme alla stessa Zerlina, riescono a smascherare la vera natura di Don Giovanni. Da qui in poi sarà per lui la rovina.

Il secondo atto, molto più frammentario, comincia con un inganno teso a Donna Elvira da un Leporello travestito dal padrone, il quale la seduce e la conduce in un posto isolato per approfittarsi di lei. Tuttavia, viene smascherato e accusato dei crimini commessi dal Don Giovanni, che nel frattempo, travestito dal servo, incontra il contadino Masetto e lo picchia.

Entrambi i personaggi riescono a scappare dalle situazioni in cui si vengono a trovare e si ritrovano al cimitero, dove Don Giovanni in tono scherzoso invita la statua, posta sulla tomba del Commendatore, a cena.

Da questo momento comincia ciò che nella tradizione costituiva la parte del Convitato di pietra ovvero il finale dell’opera: la statua si presenta veramente la sera a casa di Don Giovanni, deciso a ricambiare l’invito e di portarlo con sé all’Inferno, se non si pente.

E così sarà.

La casa prende fuoco e viene scossa da terremoti e Don Giovanni muore inghiottito dalle fiamme degli inferi.

Tutti gli altri personaggi accorrono attorno al corpo morto ed insieme cantano un’ultima volta, ma poi si dividono. Ma sappiamo che è proprio nella separazione degli altri che Don Giovanni, il diavolo, vince.

Tuttavia, il finale non sempre ha convinto i critici dell’eterna malvagità che persiste nell’opera anche dopo la morte del protagonista e preferiscono riconoscere nella sua morte il tanto atteso e predicato ritorno a Dio.