Non andrà bene per tutti!

Mi unisco a un amico che ha avuto il coraggio di interrompere la catena di ottimismo per dare spazio al sano realismo che serve a dare la giusta consistenza a questo momento difficile, unico e interminabile che ci vede allibiti e paralizzati nei pensieri, nei progetti, nelle aspettative e timorosi sugli sviluppi sconosciuti che potrà avere.
Ormai i decessi sfiorano le mille unità giornaliere e sono numerose le famiglie che si trovano decimate da questo virus spietato, invisibile e silenzioso. E non è rispettoso affermare con leggerezza che, nonostante tutto ciò, “andrà tutto bene”.
Non lo è nei confronti degli oltre 50 medici che hanno lasciato la loro vita per averne salvate altre, in condizioni precarie e senza sosta, così come delle persone che ci lasciamo dietro, così come delle persone che, con turni disumani, prestano la loro opera per contrastare il fenomeno o per assicurare i servizi necessari alla vita civile.E nessuno di noi può affermare con certezza di poterla fare franca o di essere al riparo con tutti i suoi affetti.
Anche quando finirà, non sarà “andata bene”. Ce lo auguriamo tutti, nel modo più veloce e indolore per tutti, ma queste affermazioni hanno il sapore della retorica che trascura la gravità della situazione.
Ci sono persone anziane che sono abbandonate alla propria solitudine, persone ammalate costretta ad arrangiarsi, persone lontane che nonni vedono da diverso tempo e non sanno quando e se riusciranno a rivedersi. E poi ci sono famiglie, improvvisamente senza alcun reddito, a causa della chiusura delle attività commerciali, imprenditoriali e professionali, costrette a fare ricorso ai propri risparmi, se ne dispongono, o a indebitarsi, per reperire beni alimentari. E se non riescono a trovare credito, piombano nella povertà assoluta, in una società blindata, nella quale anche l’assistenza è difficile da prestare.
Facciamo bene a darci coraggio e pensare a un futuro migliore, ma facciamolo con il realismo che ci consente di non sottovalutare ciò che stiamo vivendo.
Qualcuno dice che “non sarà mai come prima” e viene da pensare che questa paura sia fondata. Abbiamo vissuto da privilegiati in un mondo in cui era normale e persino senza valore ciò che oggi sembra un sogno da conquistare, che sarà raggiunto, ma non da tutti noi.
Non si tratta di avere paura di vedere ciò che accade. E non ha senso stordirsi con promesse mirabolanti. Anche perchè la “normalità” che ci aspetta non sarà la stessa da cui proveniamo. Sarà complessa e disseminata di controlli interminabili.
Ma può essere migliore se avremo la memoria di ciò che oggi viviamo (ecco perchè è utile guardare in faccia la realtà) e la sensibilità di apprezzare la libertà ritrovata. E sarà una realtà migliore se penseremo a scongiurare che si ripeta e a ricordarci che se ne siamo usciti, non è per qualche trovata di un esperto o per la scelta di qualche politico, ma solo grazie alla “solidarietà” di chi non ha lesinato energie e risorse personali, a rischio della propria vita.



Il virus comportamentale

Siamo immersi in un’emergenza che non vede la fine, per il contrasto a un nemico invisibile, ma inesorabile che non si può combattere con le armi convenzionali.

Se si fosse trattato di un nemico “vero”, con la divisa di un altro colore, con le insegne di una nazione diversi, con i tratti somatici diversi o semplicemente, attestato al confine, avremmo subito trovato orde di eroi volontari, di combattenti professionali, di strateghi delle aggressioni. Ma tutto ciò non serve: il nemico è invisibile e così minuscolo che non riesce a essere inquadrato nel mirino dell’arma letale più evoluta che ci sia.

Se fosse stato necessario, avremmo trovato la forza di costruire barricate, di armarci di tutto punto, di produrre la trovata geniale capace di annientarlo o persino di fare le giuste alleanze e definire le giuste strategie.

Ma questa è una guerra diversa. Non si combatte con la forza e la contrapposizione. Il miglior modo di “attaccare” il nemico è quello di “organizzare la difesa”. Ma in un modo diverso da solito, non ricorrendo agli strumenti della guerra.

È un nemico subdolo, spietato e persino vigliacco, che colpisce senza farsi notare e sa propagarsi senza essere visto, creando altre vittime.

Il solo modo per combatterlo è quello di “isolarlo”. Perchè quando viene isolato sappiamo come fermarlo e non ha più scampo. Non trova altre vittime e se combattuto a dovere si estingue.

Ma per poterlo isolare è necessario adottare scelte ben definite, non di natura tattica o strategica, ma comportamentale.

Questo virus, anche nella sua più spietata azione, potrebbe essere fermato in poco tempo se adottassimo comportamenti corretti e consapevoli, rinunciando a ciò che può farlo diffondere e creare altre vittime.

E qui la questione si complica. Se si tratta di intraprendere una guerra, si trovano schiere di volontari (già in esercizio grazie alla palestra dei social), ma se il contrasto consiste nell’adozione di comportamenti specifici che possono limitare la libertà di movimento, la questione si complica.

Tutti pronti a usare le armi, anche la più micidiali, ma profondamente impreparati e indisponibili a essere limitati nei comportamenti personali.

Già nelle fasi acute, mentre si aveva notizia di diverse centinaia di decessi al giorno, abbiamo assistito a persone che si ritenevano chiuse in gabbia se avessero rinunciato alla corsetta mattutina. Così come ad altre che non hanno smesso di frequentare locali o di girare senza meta, pur di non restare a casa. Per non parlare di chi, pensando di fuggire alle restrizioni imposte dalle norme, ha pensato di sentirsi furbo intraprendendo un viaggio verso terre lontane, portando l’epidemia a casa propria e alle persone più care, specie quelle anziane.

Nel frattempo gli ospedali si popolavano di persone infette e medici e infermieri erano costretti a sottoporsi a turni disumani, anche con il prezzo della propria vita.

Andare in guerra contro un nemico è più facile. Adeguare il proprio comportamento, rispettare i limiti imposti delle regole dell’emergenza, limitare, per un periodo, le proprie attività, assolutamente no.

Ed è per questa ragione che questa guerra fatichiamo a vincerla e non sappiamo se la vinceremo del tutto. E già si vede chi, invece di contrastare il virus combatte chi va al lavoro perchè non dovrebbe o chi non ci va, perché avrebbe dovuto, il poliziotto che lo ferma o quello che non ferma gli altri, chi si mette in viaggio per cercare un posto sicuro e chi invece non si fida e rimane a casa.

Se non adottiamo precise scelte comportamentali sarà impossibile sconfiggere il virus e si ripresenterà all’infinito. Ma “comportarsi” nel modo adeguato è impegnativo e non rientra nella nostra cultura.

In compenso troveremmo il modo per farci la guerra su ogni cosa, tra vicini, in famiglia, tra le istituzioni, tra il nord e il sud, tra il centro e la periferia, ecc., perchè quello ci riesce meglio.

Santo Fabiano




E’ davvero questione di “presenza in servizio”?

La questione della “PRESENZA IN SERVIZIO”, nonostante l’invito di “restare a casa”, con tanto di hashtag e campagna mediatica, è ormai argomento di scontro, come se non bastassero le preoccupazioni causate dalla diffusione del virus. E lo è perché al tema della presenza si collegano troppi aspetti di natura ancestrale a cui facciamo fatica a sottrarci.

Siamo ancora vicini alla enfatizzazione dei controlli sulla presenza, anche attraverso la rilevazione delle impronte digitali, per non parlare del giudizio negativo che si attribuisce a ogni assenza dal luogo di lavoro, a danno di chi si assenta per ragioni di maternità o di malattia che ha generato una sorta di “pregiudizio positivo” nei confronti di chi è presente in servizio, indipendentemente da ciò che faccia.

Ricordo un dirigente che aveva rivestito il mio ruolo in precedenza, che si vantava di fare tardi. E quando gli dimostrai che ero riuscito a portare a termine le stesse attività in un tempo minore, grazie a una diversa organizzazione, mi guardò come uno sfaticato che denotava uno “scarso attaccamento ai luoghi di lavoro”. (per la cronaca, qualche tempo dopo, lo stesso collega, venne condannato per peculato, a conferma che il suo “attaccamento” non si limitava ai “luoghi” di lavoro, ma anche ai “beni”).

Ho avuto anche il privilegio di sperimentare il part time (posso affermare di essere stato il primo prefettizio ad averlo richiesto) quando non era ancora certo che si potesse estendere alla dirigenza. E in quella circostanza mi accorsi che il mio tempo era considerato prezioso, da me, ma soprattutto dagli altri. Era lo stesso Direttore generale che organizzava le riunioni in funzione della mia presenza, sia interne all’Amministrazione, sia con altre istituzioni autorevoli.

Fu in quella circostanza che ebbi la sensazione del valore del mio tempo e di quello degli altri. Essendo in part time, pianificavo le mie azioni, non andavo più a prendere il caffè, non mi attardavo in conversazioni o lo facevo soltanto dopo avere ultimato ciò che dovevo fare.

Debbo riconoscere che il mio capo, in quel tempo, era un prefetto di grande valore umano e professionale che sapeva come incontrarmi sempre, senza limiti di orario, comprese le piacevoli conversazioni a pranzo.

La questione del rapporto tra il “tempo in servizio” e il “tempo di lavoro” è comunque, da diverso “tempo” irrisolta. Ricordo quando, al tempo i cui la rilevazione non era automatica, venni contestato perché consideravo “in orario” la signora che arrivava con un lieve ritardo, rispetto ai colleghi che erano mattinieri. In quella circostanza feci osservare che la signora ritardava perché abitava lontano e si era presa cura di figli e marito e, una volta in servizio, era già operativa; loro erano puntuali, ma dopo la timbratura avevano trascorso al bar tutto il tempo e ancora non avevano iniziato a rendersi utili.

Dunque? Se è vero che la presenza non equivale, in modo matematico, alla produttività, è necessario ricercare in “qualcosa d’altro” ciò che caratterizza la qualità del lavoro o la semplice prestazione.

Mi viene in mente un alto funzionario che mi confessava di trascorrere il suo tempo in ufficio perchè era lì che riconosceva il senso della sua esperienza di vita, della sua carriera, del suo mondo delle relazioni. Infatti era in quella stanza che riceveva gli amici.

Perchè, non nascondiamolo, qualcuno (soprattutto gli uomini) ha bisogno di essere riconosciuto in relazione al ruolo che riveste. E niente può dare ciò meglio del luogo che rappresenta la funzione rivestita.

E adesso, in tempi di emergenza, in presenza di provvedimenti che esprimono, in modo sempre più forte, la necessità di limitare gli spostamenti, tutte queste situazioni vengono a galla.

Certamente ci sono lavori per i quali presenza è necessaria: basti pensare all’assistenza sanitaria o al presidio territoriale. Poi ce ne sono altri, per i quali la presenza è necessaria, come riferimento, laddove richiesto e dunque, come reperibilità o come contatto, anche a distanza. E ci sono, inoltre, altre attività che si caratterizzano per l’esame, l’istruttoria, l’elaborazione, ecc., che certamente richiedono la presenza, ma non necessariamente in un luogo specifico.

La questione, infatti, è proprio questa: non si tratta di negare l’esigenza della “presenza in servizio”, ma che ciò debba essere inteso come “presenza sul luogo di lavoro”.

È una rivoluzione, soprattutto culturale. Ed è un cambio di prospettiva che richiede la capacità, innanzitutto, di sapere organizzare il lavoro degli altri, ai quali non si deve richiedere la presenza in servizio se possono svolgere le stesse azioni in un posto diverso.

Per me, da quando sono un libero professionista è facile: lavoro in treno, in albergo, in autogrill, e considero questa situazione una fortuna che mi consente di sentirmi presente (mi auguro che possa affermarlo chi si serve della mia opera) senza la necessità di esserlo sempre fisicamente.

Certamente ci sono attività che richiedono la presenza in ufficio. Ed è bene che su queste non vi siano defezioni. Ma si tratta di individuarle “onestamente”, cioè chiedendosi, soprattutto in questi giorni in cui le persone non possono circolare, le imprese sono chiuse, le scadenze sono state prorogate e non si passa davanti all’Ente, nemmeno per fare jogging, se davvero il nostro bisogno di andare in ufficio risponde alla necessità di esercitare le funzioni necessarie in quel luogo o se (nessuno me ne voglia) non risponda all’ansia di doverci essere o peggio, alla paura di non esserci.

Se mi permetto di dire ciò, con tutto il rispetto per chi esercita una professione pubblica, è perchè, come tutti, spero che questa emergenza finisca e perchè ciò accada, è necessario che tutti, sappiamo rinunciare a qualcosa.

Anche perché, dispiace doverlo dire, ma non sarà più come prima.




L’informazione nel tempo del virus

La vicenda delle informazioni adottate dal Governo per contenere il contagio del virus COVID-19 ha svelato il nostro modo di gestire le informazioni, soprattutto riguardo alle reazioni conseguenti.

Dopo avere assistito allibiti e distaccati a ciò che accadeva solo in Cina, ci siamo trovati a gestire le quarantene, gli allontanamenti, le espulsioni e adesso anche le costrizioni a non lasciare i luoghi in cui ci troviamo, come se piombassimo in un antico incantesimo.

Si tratta di un’emergenza nuova, violenta per la capacità di propagazione e sicuramente sconosciuta per sapere come fronteggiarla. C’è chi la affronta con fatalismo, pensando che può accadere solo agli altri, c’è chi immagina un periodo di carestia e fa incetta di ogni cosa, c’è chi si allarme a prende le precauzione e non manca chi non perde l’occasione per “buttarla in caciara”, che è il modo attuale di sentirsi “politicamente impegnati”.

Grazie alla rete siamo costantemente informati delle decisioni del Governo che riescono a raggiungerci ancora prima che siano adottate. Ciò dovrebbe aiutarci a sentirci più direttamente coinvolti con il processo decisionale e più consapevoli della situazione, dei rischi e delle misure da adottare.

Se dovessi scegliere preferirei un Governo che mi informa degli atti che adotterà, consentendomi di potere intervenire. E nel caso di specie, trattandosi di una competenza (la salute pubblica) ripartita tra Stato e Regioni, sarebbe grave se un Governo non trasmettesse gli atti prima di adottarli.

Qualcuno, invece, ricorrendo ai rischi che le anticipazioni possano determinare sulla popolazione vorrebbe che gli atti rimangano segreti fino alla loro adozione.

Possiamo dire che si tratta di punti di vista diversi. Ma dobbiamo prendere atto che, se passa questo principio rischieremmo di arrivare a giustificare ogni silenzio e ogni censura.

Preferisco pensare, invece, che nell’era della comunicazione ridondante e senza limiti, dobbiamo “educarci” a saperla ricevere e a gestire le nostre reazioni.

Preferisco essere informato di ogni cosa, anche la peggiore, e decidere come comportarmi, che rimanere all’oscuro per paura delle mie reazioni.




Autodichia pelosa

Forse non tutti sanno che cosa sia l’autodichia. Si tratta della facoltà, di cui godono alcuni organi costituzionali, di decidere autonomamente e in deroga al principio di separazione dei poteri i ricorsi avanzati dai propri dipendenti avverso atti di amministrazione prodotti dagli organi stessi. Essa viene definita anche “giurisdizione domestica” e spetta al Parlamento (ai sensi degli art. 12 comma 3 reg. Camera e 12 comma 1 Reg. Senato) e alla Corte Costituzionale (secondo l’art. 14 comma 3 l. 11 marzo 1953, n. 87). La ragione di tale prerogativa viene di regola individuata nell’indipendenza che caratterizza tali organi. (www.wikipa.net).

L’argomento non è di quelli di cui si parla ogni giorno, infatti riguarda soltanto alcune categorie di dipendenti, ma è tornato alla ribalta a seguito della cosiddetta “riduzione dei vitalizi”.

Certamente le ragioni che giustificano un’autonomia così forte sono nobili, ma come accade spesso nel nostro Paese, con il tempo sono state sottomesse a finalità di bottega o strettamente personali.

Non è un mistero che i dipendenti che lavorano in quelle amministrazioni godano di privilegi e siano al riparo da vincoli di finanza pubblica e dinamiche salariali comuni a tutto il resto del Paese, proprio grazie alla possibilità di potersi autodeterminare che non è stata intesa come tutela da eventuali ingerenze esterne, ma come occasione per curare i propri interessi senza interferenze dall’esterno.

Ma chi ha sollevato la questione sulla opportunità della sopravvivenza dell’istituto dell’autodichia, nel 2019, è stato, paradossalmente, un ex parlamentare che, dopo avere ottenuto per anni, i benefici che gli assicurava lo stesso istituto, a seguito del cambio di presidenza della Camera, si è trovato, improvvisamente destinatario della decisione della riduzione dal proprio “vitalizio” per l’applicazione del sistema retributivo, già in vigore per tutti gli altri abitanti del Paese.

A questo punto il nostro “onorevole” ha pensato bene di rivendicare il diritto all’uguaglianza con gli altri cittadini e di ritenere una ingiustizia essere soggetto all’autodichia. Ha preteso, dunque il diritto di ricorrere alla giurisdizione ordinaria, ritenendosi ingiustamente escluso da questa e rivendicando l’applicazione di un principio di uguaglianza rispetto agli altri cittadini, trascurando il fatto che … stava rivendicando il diritto all’uguaglianza per difendere la sua pretesa alla diversità.

Una sorta di etica “pelosa”, per la quale ha ritenuto di essere uguale agli altri nel riconoscimento del proprio “diritto acquisito”, ma non ha manifestato alcuna intenzione di sottoporsi allo stesso meccanismo di calcolo della pensione, ormai obbligatorio per tutti.

Peraltro, a proposito di “diritto acquisito”, di cui tanto di discute, sarebbe il caso di ricordare che in occasione dei cosiddetti “esodati” (cittadini, regolarmente pensionati con regole vigenti, privati del diritto alla pensione per norme successivamente modificate, per effetto della cosiddetta “legge Fornero”), la questione, come si dice, è passata in cavalleria e non si è vista la stessa sensibilità nei nostri “onorevoli”, nonostante che il fenomeno avesse colpito circa 300.000 cittadini.

Il ricorso dell’onorevole è stato fermato dalla Corte di Cassazione che non l’ordinanza n. 18265/2019 lo ha respinto in modo deciso. Dunque dovrà rassegnarsi all’autodichia e alla riduzione del proprio vitalizio.

Ma ciò che agitava i deputati, tranquillizza, invece, i nostri senatori. In questi giorni, infatti, grazie alla stessa autodichia, poiché il Senato ha una guida con “diverse sensibilità” e orientata verso “altri valori”, la decisione sulla riduzione dei vitalizi, precedentemente assunta analogamente anche nei confronti dei senatori, è stata rivista, grazie al riesame da parte degli organi interni dello stesso ramo del parlamento.

Questa volta non è venuto in mente a nessuno di lamentarsi dell’esistenza dell’autodichia. Al contrario, è stata salutata come la trovata che riuscirà a salvare i vitalizi di centinaia di senatori, le cui preoccupazioni per la loro sopravvivenza e per l’ingiustizia della riduzione, sono state oggetto di dibattito acceso, come nemmeno le sorti degli operai dell’Ilva o della Pernigotti. A difesa di poveri senatori si sono persino scomodate equazioni che li volevano equiparati ai pensionati a cui veniva sottratta improvvisamente la fonte di sostentamento (la stessa equitazione non si è fatta per gli esodati). Tra questi, la famosa “Cicciolina” di cui si ignorano le qualità “politiche” e gli ambiti di rappresentanza parlamentare, ma che incarna bene il modello di partecipazione politica di molti.

Santo Fabiano




Brexit: l’Europa è isolata!

Intorno al 1930 il Times di Londra pubblicò in prima pagina un titolo che diceva: «C’è nebbia sulla Manica: il continente è isolato». Possiamo addebitarlo al proverbiale umorismo freddo degli inglesi o forse possiamo cogliere l’occasione per ricordare che il Regno Unito, in verità, non ha mai avuto l’intenzione di “unirsi” in modo indissolubile ad altri Stati.

Ma possiamo affermare che le ragioni della Brexit siano tutte addebitabili agli inglesi e al loro strano carattere?

Forse è utile ricordare che, in una famosa conferenza stampa del novembre del 1967, Charles De Gaulle si oppose duramente alla possibilità di ingresso della Gran Bretagna nella Comunità Economica Europea (nata nel 1957 con il trattato di Roma e fondata da Francia, Germania dell’Ovest, Italia, Belgio, Paesi Bassi e Lussemburgo) temendo che quella eventualità avrebbe compromesso il suo disegno, mai celato, di un’Europa trainata da Parigi e Bonn (il muro di Berlino non era ancora caduto). E la condizione che il presidente francese pose agli inglesi era che rinunciassero al “loro modo di stare al mondo”.

La domanda di adesione venne rifiutata ben due volte, finché, nel gennaio del 1973, il Regno Unito riuscirà a fare parte della  Comunità Economica Europea. Ma già nel 1975 si celebrò il primo referendum (proposto dai laburisti) sulla permanenza nella CEE e vinse il “remain” con il 62% delle preferenze.

Possiamo affermare che non si trattasse di un rapporto idilliaco, ma dobbiamo, dunque, chiederci se la questione fosse solamente conseguenza del cattivo carattere degli inglesi o se invece, già in quell’occasione non si scontrassero due modi diversi di intendere l’Europa e il ruolo degli Stati europei.

Non possiamo nascondere che, già a quel tempo, si fronteggiano due modelli diversi: quello propugnato dalla Francia, come uno Stato unitario con propri organi politici sovraordinati rispetto agli altri Stati e quello propugnato dall’Inghilterra, come una confederazione di Stati sovrani, uniti da interessi e cooperazione.

Il modello che è venuto fuori è ancora diverso perchè ha la pretesa di esprimere uno Stato caratterizzato da organi di rappresentanza politica, ma in effetti è dichiaratamente sbilanciato su una sola politica: quella finanziaria.

Così è successo che i buoni propositi di miglioramento delle condizioni di vita sono stati sostituiti da vincoli di finanza che hanno garantito soltanto gli investitori, a danno di imprese e lavoratori. E persino il proclamato “libero mercato” è stato sostituito da forme di imposizioni nella produzione. e vincoli sulle scelte commerciali che ha determinato la fortuna di alcuni Stati e l’impoverimento di altri. E la moneta unica, traguardo ambito per chiunque agognasse agli ideali di Europa dei popoli, ha avuto soltanto l’effetto di concentrare nelle banche centrali le politiche sottratte, sia agli Stati membri, sia agli organi politici dell’Unione.

Questa situazione ha creato un dilemma, avvertito anche in Italia, per il quale è sembrato “illogico” schierarsi contro l’Europa, ma nel contempo, “irrazionale” continuare a permanervi con le stesse regole.

Qualcuno ha pensato di provare a cambiare, ma, come afferma Baumann, il sistema finanziario non ha una sede specifica, non ha confini, né rappresentanti, dunque, non può essere combattuto.

La questione, peraltro arricchita anche da argomentazioni estranee e talvolta eccessive, ha riportato lo scontro proprio da dove era partito, trovando un leader, David Cameron, che pensava di poterla cavalcare a proprio vantaggio, organizzando un nuovo referendum nel 2016, con la dichiarata intenzione di chiudere la vicenda con la definitiva adesione della maggioranza degli inglesi all’Europa.

La questione non andò come sperava Cameron e dopo l’esito del referendum, correttamente si dimise, affermando “I’m sorry”, con un atteggiamento corretto e rispettoso delle buone maniere in politica. In Italia, giusto per precisare, in occasione di un referendum epocale qualcuno provò a imitare Cameron, ma si fermò alla promessa delle dimissioni,  rimanendo, senza alcuna vergogna anche dopo la sconfitta.

Da quel giorno si sono succeduti tanti accadimenti,  tutti caratterizzati da annunci catastrofici sulla eventualità che il Regno Unito, davvero volesse abbandonare la UE. Si è passati dalla impossibilità assoluta (ve la immaginate la Regina Elisabetta che si sente sottomessa alle decisioni del barcollante Junker?), alla minaccia di imporre sanzioni pesanti così da farli dissuadere (immaginate come possano sentirsi obbligati gli inglesi dalla decisione di organi a cui non riconoscano alcuna legittimazione), agli annunci di crisi economiche globali e presagi di malessere per i cittadini del Regno Unito.

Nel frattempo, lo scorso 31 gennaio, alle ore 24, per la prima volta, l’unione Europea ha perso uno Stato. E qualcuno paventa che possa trattarsi di un evento non isolato.

La  vicenda è di importanza assoluta e merita di essere posta all’attenzione dei popoli europei, ma accade qualcosa di strano: mentre negli altri giornali la notizia viene riportata con enfasi in prima pagina, il quotidiano finanziario italiano (il Sole 24 ore), lo stesso giorno dell’uscita dalla UE non dedica nella sua prima pagina, nemmeno un trafiletto all’evento. E il giorno seguente, tratta la notizia dedicando uno spazio minore rispetto all’apertura di nuove fabbriche in Toscana.

Che strano? Se l’uscita dell’Inghilterra dalla UE avesse rappresentato, come annunciato dal 2016, una catastrofe per i sistema economico, certamente la notizia avrebbe dovuto essere riportata con l’enfasi che meritava.

Invece non è accaduto e ciò deve indurre a farsi qualche domanda. Probabilmente aveva ragione Margareth Tatcher nel suo scontro con Delors.

Si ha come la sensazione che dalla Brexit il sistema politico-finanziario ne esca come il vero sconfitto. Ma soprattutto ne esce sconfitta la pretesa che quello debba essere “l’unico sistema possibile”. E non si vuole che si sappia che, da questo sistema si può uscire senza il rischio di catastrofi.

È evidente che ciò non vuol dire che il Regno Unito avrà vita facile, nè che abbia fatto bene a uscire. Certamente sarebbe stato meglio se l’Unione Europea, di fronte alle spinte di separazione, avesse avvertito il desiderio di ritornare ai propri valori e perseguire il benessere dei popoli e non solo dei finanzieri, come più volte ha affermato Varoufakis.

Staremo a vedere e speriamo che la Brexit serva da lezione, non per altre uscite, ma per rafforzare l’Unione su valori diversi e “meno materiali”, a meno che non si pretenda che tutti noi, per dirla con De Gaulle, cambiamo “il nostro modo di stare al mondo”.




L’era dell’«errore umano»

Nel 2015 il premier britannico Tony Blair, in un’intervista alla CNN, affermò, manifestando un apparente dispiacere, “di aver commesso gravi errori in occasione della guerra in Iraq”. Dunque, si è detto pentito per aver scatenato un conflitto in base a false informazioni (le inesistenti armi di distruzione di massa di Saddam Hussein), ma anche per la mancanza di discernimento su quanto quel conflitto avrebbe scatenato, una instabilità incontrollabile che ha alimentato il dilagare della jihad, della quale l’attuale Califfo del terrore rappresenta solo un mostruoso epigono.

E la commissione parlamentare britannica che ha prodotto il famoso  Rapporto Chilcot, a conclusione dell’indagine affermò candidamente che «l’azione militare non si poteva considerare l’ultima risorsa possibile»

Dalle cronache si apprende che, soltanto per quella “guerra sbagliata” vi furono 4.839 caduti, a cui vanno aggiunti oltre 10.000 caduti tra le file dell’Iraqi security forces, 468 contractors statunitensi morti tra il 2003 e il 2010, circa 160.000 civili morti dall’inizio delle operazioni di guerra.

Ma non si tratta di un caso isolato. È ormai radicata la consapevolezza che avere bombardato la Libia e spodestato in modo brutale il “dittatore” che la guidava, sulla promessa di promuovere una “primavera araba”, sia stato, invece, un altro grave errore che ha causato instabilità, morti, migrazioni di massa, nuove guerre e conseguenze che ancora ci sono sconosciute. In questo caso, però, nessuno si è sentito di dovere riconoscere l’errore.

All’ «errore umano», invece ha fatto riferimento l’ayatollah iraniano Kahamenei dopo avere abbattuto un aereo civile con 176 passeggeri in occasione dell’attacco missilistico lanciato contro le postazioni USA in Iraq.

Se non si trattasse di una situazione tragicamente reale e con conseguenze disastrose sembrerebbe di assistere a una contesa tra bambini dove, dopo una marachella, si presentano le scuse, pretendendo che ciò serva a cancellare ogni addebito. Peraltro, lo stesso Rohani, nel suo messaggio, ha affermato (come fanno gli adolescenti) che “non accadrà mai più”. Quindi, la faccenda è chiusa.

Sia chiaro che qui non si tratta di prendere le parti degli USA (che comunque sono invasori) o degli Iraniani (che peraltro agiscono anch’essi a casa altrui, in Iraq), ma di prendere atto che, dopo millenni di storia e di presunta civiltà, siamo all’anno zero, nelle mani di prepotenti dall’evidente disagio psicologico che si nascondono dietro la difesa della nazione (America first) o peggio, si attribuiscono il ruolo di rappresentanza di un dio e in nome di quello giustificano ogni cosa.

Non viene nessun dubbio che vi siano stati degli errori. Ma gli errori non consistono soltanto nell’aver causato quel determinato conflitto o abbattuto quello specifico aereo, ma nel credere, in modo radicale, che ogni questione internazionale (e locale) si possa risolvere con la prepotenza e con la guerra.

Nel frattempo, indisturbata, la Cina conquista il mondo intero senza avere mai dichiarato guerra ad alcuno. Ma questo è un altro problema.




Elasticità morale

Da sempre l’uomo ha avuto un rapporto conflittuale con le regole. Già nel giardino dell’Eden, da quanto ci viene raccontato, nonostante l’abbondanza nella scelta e la totale assenza di concorrenti (essendo gli unici) l’attenzione del primo fra gli esseri umani cadde sul quell’albero che, rispetto a tutti gli altri, aveva la caratteristica di essere vietato.

Nel frattempo la società si è evoluta e le regole, man mano, non sono più dettato da un essere superiore, che sia divino o monarca o dittatore, ma dai rappresentanti dello stesso popolo che è chiamato ad applicarle. Ma ha sempre mantenuto un alone di sacralità, tanto da ritenere incivile chi nonne rispetta e di autorizzare l’uso della forza per assicurarne il rispetto.

Anche la sacralità, però, con il suo collegamento ai valori superiori, ha cominciato ad andare stretta in un mondo in cui a prevalere è la convenienza e il profitto. Così accade che un’ingiustizia o un atto violento, trovano una giustificazione “nobile” se hanno argomentazioni che si rifanno all’ordine economico o politico o più semplicemente alle “leggi di mercato”.

Il cosiddetto “mercato”, peraltro, è proprio il luogo della massima prepotenza e disuguaglianza, nel quale prevale sempre chi ha più potere economico, indipendentemente dalle modalità con cui si è ottenuto, a svantaggio di chi non lo ha, senza alcuna remora di ordine morale.

L’etica e la morale, infatti, sono categorie ingombranti per un mondo legato al profitto e al conflitto. Così, il profitto e il conflitto diventano termini indissolubilmente legati fra di loro: il primo giustifica il secondo e viceversa, fino a costruire una nuova dimensione etica che, in ragione della convenienza, si rivela elastica e giustifica ogni azione, persino la guerra, se dichiarata per il perseguimento di finalità di natura commerciale.

È per questa ragione che i “paesi delle democrazie occidentali” hanno rovesciato il “dittatore iracheno” e quello libico. E poco importa se le conseguenze di tali azioni hanno creato una crisi senza fine e la migrazione di milioni di persone. Nessuno se ne sente responsabile perché la guerra è stata ordinata da chi “difende” i valori dell’occidente.

Ed è a difesa di questi “valori dell’occidente”, che il presidente degli USA ha annunciato fiero e senza alcuna vergogna, di avere ucciso il generale iraniano che probabilmente era a capo di diverse azioni terroristiche.

Alla notizia dell’uccisione il mondo “occidentale” ha reagito senza provare lo sgomento che sarebbe stato giusto, visto che si tratta, comunque, di una esecuzione. E qualcuno ha persino esultato, come se la squadra del cuore avesse segnato un goal.

Ma di esecuzione si tratta, ordinata da un uomo che, per averlo fatto, non ritiene di avere alcuna colpa, nè si sente colpevole di avere ucciso qualcuno. E senza alcun sussulto, magari con una buona dose di vanto, continua a guidare un Paese che si presenta come “il modello di democrazia occidentale” pronto per la difesa dei diritti umani.

Non sappiamo come andrà a finire e quali reazioni genererà questo gesto. E soprattutto, non avremo mai abbastanza memoria per comprendere chi, per primo, abbia dato inizio a questa spirale dissennata.

Ma ciò che preoccupa, più di ogni cosa, è l’assenza totale di consapevolezza della gravità dei gesti o persino la condizione di avere agito nel rispetto dei propri valori, quindi di essere dalla parte del “giusto”, anche nell’avere ordinato distruzioni e omicidi a casa altrui.

Diciamola tutta: Soleimani non era uno stinco di santo e sicuramente era responsabile dei fatti a lui addebitati, ma se passa il principio che si può decidere unilateralmente di uccidere chi si ritiene colpevole di terrorismo (peraltro in un contesto geografico in cui le colpe sono difficili da attribuire unilateralmente) si apre uno spiraglio pericoloso (chi decide chi uccidere) e si introduce un metodo che risulta analogo al terrorismo che si vuole combattere.

La nostra etica, di noi “occidentali” e “democratici” dovrebbe essere diversa.

Santo Fabiano




Auguri per un anno davvero “nuovo”

Con cadenza annuale (non potrebbe essere diversamente) si ripete il rito della chiusura di un anno solare e dell’inizio del nuovo, a cui si aggiungono i gesti scaramantici della rimozione dell’anno vecchio, di cui si conosce ogni angolo recondito e del brindisi per l’anno nuovo, da cui ci si attende ogni miracolo possibile, già a decorrere dalla mezzanotte.

C’è chi si approvvigiona di lenticchie perché portino denaro, chi indossa indumenti intimi di colore rosso, per chissà quale auspicio strettamente personale, chi presta attenzione ai primi gesti del nuovo anno (perché se accade a capodanno accade per tutto l’anno), chi divora gli oroscopi con dovizia di particolari sugli ascendenti.

E tutto con estrema convinzione e con impegno assoluto, come se fosse vero. Si ripete la stessa liturgia ogni anno, con lo stesso risultato, ma, a dispetto di qualsiasi esercizio di memoria, ogni volta di ha la convinzione che gli astri, finalmente, ci aiuteranno, almeno per riconoscimento che si deve all’insistenza e all’impegno di ripetere lo stesso rituale per tutti gli anni che abbiamo vissuto.

Per tradizione, per gioco o per scaramanzia, non si può nascondere che il desiderio che si profili un cambiamento è presente in ciascuno di noi. Ma non possiamo certamente affermare che sia nella stessa direzione. Chi conduce una vita agiata avrà desideri che riguardano la salute o gli affetti e intende il cambiamento come la rimozione di qualche fastidio; chi fatica a sbarcare il lunario, spera di trovare le condizioni per una vita agiata e per avvertire il cambiamento ha bisogno di sentirsi proiettato in una vita nuova; chi vive di prepotenze e prevaricazioni, spera di farla franca, allargare le sue prospettive e confida nel cambiamento come maggiore tolleranza e generosità verso chi delinque; chi ha subito prepotenze e prevaricazioni, spera, invece che quelli che hanno truffato e prevaricato paghino il mal tolto e avvertirebbe il cambiamento dai segnali di un mondo più giusto.

Insomma, non vogliamo tutti la stessa cosa. Anzi, ci sono buone possibilità che buona parte di noi abbia aspettative contrapposte.

Però si ha la sensazione che, al netto delle persone che vivono di eccessi e deviazioni, nel profondo, tutti avvertiamo lo stesso bisogno: quello di stare bene al proprio interno, ma soprattutto nelle relazioni che fanno di noi degli esseri “sociali”.

Ed è singolare come ciò non si possa conseguire con la ricchezza, né con la prepotenza. E, a dispetto di chi ritiene che i cambiamenti siano qualcosa da prescrivere solo agli altri, si tratta, invece di qualcosa che riguarda ciascuno di noi, partendo, proprio dal nostro interno.

Facciamo bene a sperare nel cambiamento e facciamo bene anche a fingere di credere che un anno con un numero diverso possa aiutare, ma il vero cambiamento è quello che ci vede protagonisti di ciò che di buono accade a noi e agli altri.

Un tempo era diffusa l’usanza (fortunatamente non più praticata) di gettare dalla finestra, come gesto liberatorio, ciò che era vecchio e per questo appesantiva lo spazio vitale delle abitazioni. E il primo dell’anno, soprattutto in certe realtà, nelle strade cittadine si trovava di tutto, dai vecchi divani, alle lavatrici, ai televisori, ecc.

Sarebbe il caso di utilizzare la stessa pratica, ma all’interno di ciascuno di noi. Proprio noi che abbiamo accesso alle stanze più recondite del nostro essere, per tirare fuori ciò che ci appesantisce e rende difficili le buone relazioni o la realizzazione di buoni progetti. Tirare fuori ciò che c’è di vecchio e inutile e lasciarlo in eredità all’anno che va via, per sentirsi più leggeri e con gli occhi liberi di vedere ciò che c’è di buono e bello, senza calcoli, pregiudizi, invidie, ecc.

Il mio augurio di buon anno è questo, diverso, ma più profondo.

Auguro a ciascuno di liberarsi da ciò che gli impedisce di essere sereno e di gettare dalla finestra ogni pesantezza, risentimento o paura.

Che il nuovo anno ci veda sorridenti e che arrivi con occhi nuovi, liberi di guardare dove il pregiudizio non ci consentiva di guardare o dove la pigrizia di rifiutava di andare. Ma soprattutto rivolti alla ricerca di buone relazioni e buoni propositi da conseguire insieme. Perché un traguardo raggiunto insieme vale molto più di mille traguardi solitari.

Auguri davvero a tutti di stare bene, anche perché, il bene, quando è autentico è contagioso.

Santo Fabiano




Umbriacatura!

Diciamo la verità: se dopo tutto quello che è successo nel mondo della sanità umbra, che ha portato alle dimissioni del presidente regionale PD, gl elettori avessero premiato quel partito, ci sarebbe stato da preoccuparsi molto seriamente per la tenuta delle democrazia in Italia e per il significato dell’esercizio del diritto di voto.

In verità qualche domanda era già sorta nel vedere , proprio in quella regione, i cui scandali erano stati sollevati dal M5S, quella strana alleanza che pensava di presentarsi candidamente come “nuova” e come “argine” al dilagante populismo muscolare del “capitano”.

Possiamo quindi affermare, senza alcuna sorpresa, che ce l’aspettavamo. E al netto di qualche atteggiamento speranzoso, oltre il limite del miracolo, nessuno è rimasto sorpreso. Peraltro, anche i numeri non sembrano così sorprendenti, perchè, fatta eccezione per la crescita di un partito e la flessione di un movimento, entrambe prevedibili, disegnano preferenze di voto simili alle elezioni europee.

E allora? La questione che allarma presente diverse prospettive.

La prima è quella che riguarda il clima che attraversa la nostra società che sembra avere rinunciato al ruolo “tradizionale” della politica, come perseguimento di valori, per approdare alla sottomissione al leader. E il fenomeno non riguarda solo una parte, ma tutte le parti in gioco tant’è che le cronache non si occupano più di partiti, ma solo di capi di partito.

La seconda e più grave è l’assenza totale di un progetto politico. la coalizione che ha vinto in Umbria, peraltro in modo ampio e dalle dimensioni “storiche” non ha proposto alcun programma specifico, non ha promesso benessere ai cittadini, non ha nemmeno accennato al contrasto alla corruzione, persino dopo gli scandali accaduti in quella regione.

Eppure ha vinto. Dunque è stata scelta. E si trova a governare senza alcun “mandato popolare”, nella libertà totale di fare ciò che vuole. E se dovesse capitare di governare male, sarebbe subito difesa da qualcuno con la solita frase: “si, però, quelli di prima…!”.

Qui non si tratta più di stare da una parte o dall’altra, ma di pretendere il buon senso, sapendo che “non si porta” e soprattutto che… il buon senso non porta voti.

Santo Fabiano




No all’uso “personale” delle fasce tricolori

Qualche giorno fa, nel corso di una manifestazione nazionale, il partito organizzatore ha pensato bene di consegnare a ogni sindaco presente una fascia tricolore con la scritta “sindaci: orgoglio italiano”.

È evidente che la frase che richiama l’orgoglio non era riferita a tutti i sindaci, ma solo a quelli che avrebbero indossato la fascia, in quanto appartenenti.

La scena che si è vista è quella di una schiera di “primi cittadini” con una fascia tricolore, presenti a una manifestazione, nella quale si inneggiavano comportamenti non sempre corrispondenti al “vivere civile” e probabilmente in contrasto con i valori costituzionali.

Qualcuno obietterà che la fascia indossata non era quella ufficiale, dunque non vi è stata alcuna violazione delle norme vigenti. I sindaci, in fondo, partecipavano alla riunione in qualità di liberi cittadini e la fascia era solo un segno di riconoscimento, non ufficiale, della funzione rivestita nella città di appartenenza.

Certamente. E se apriamo gli attrezzi delle sottigliezze si può andare anche oltre. Se, dunque, riteniamo che chiunque utilizzi una fascia tricolore, purché priva dei simboli, perchè sono state emanate così tante norme per proibire quella ufficiale? Sarebbe bastato affermare che chiunque può usare quella fascia, purché ne tolga i simboli istituzionali. Potrebbe, quindi, indossarla qualsiasi consigliere comunale, di maggioranza o di opposizione. Così anche qualsiasi cittadino o persino chi non lo è. Potremmo andare avanti all’infinito.

È evidente che la fascia tricolore è un simbolo istituzionale che viene indossato da chi riveste una carica, peraltro, in determinate circostanze. Affermare che la legge si riferisca soltanto a quella descritta in dettaglio (solo per assicurare omogeneità) è davvero una visione riduttiva e formalistica sia delle istituzioni, sia dei suoi simboli.

Ma, attenzione, mentre può apparire come una situazione scherzosa la fascia indossata per gioco o goliardia da chi non ha alcun titolo, è ancora più grave se per gioco o goliardia, siano uno o più sindaci della Repubblica a indossarla “in quanto sindaci”.

A ciascuno di noi e alla propria sensibilità la scelta sul significato da attribuire a tutto ciò e su quali valori difendere, se quelli della libertà di indossare ciò che si vuole o se invece, quelli del rispetto dei simboli della Nazione.

Peraltro, sorprende che proprio chi invoca gli ideali di Patria, Popolo e Nazione, giustifichi tali comportamenti e non avverta il bisogno di tutelare i simboli delle istituzioni pubbliche dagli usi indebiti e personali, o peggio ancora, di partito.

Quella fascia, inoltre, rappresenta l’intera collettività, qualunque sia l’appartenenza. E deve essere indossata (con o senza simboli) da chi è “primo” tra tutti i cittadini, non tra i propri elettori o tra i propri amici.

La Nazione e i suoi simboli vanno difesi da chiunque se ne serva per finalità personali e diverse da quelle istituzionali.




Matteocrazia

È certamente una coincidenza, ma la settimana passata è stata caratterizzato, più degli altri, dalla presenza invadente e inquietante di due personaggi che, nonostante appaiano discutibili e sempre al di sopra delle righe, riescono a trovare occasioni per nuove ribalte e persino consensi.

Uno dei due ha percorso il Paese in lungo e in largo prefigurando nemici da respingere e iniziative da promuovere, anche a costo di tracolli, “perchè non si può dire sempre no”. E vanta la condivisione di ampie percentuali di italiani, nonostante che gli stessi siano stati truffati (per quanto si sappia) per almeno 49 milioni, la cui restituzione avverrà “comodamente”, come non è consentito a nessuno, nemmeno agli sfrattati.

L’altro, già noto alle cronache per avere invocato la rottamazione altrui e di essere, invece, rimasto in sella dopo la promessa di abbandonare la scena politica, dopo la sconfitta del cosiddetto referendum (in verità un pastrocchio di articoli con rimandi infiniti per nascondere gli intenti reali). Noto anche per avere pronunciato quel famoso “stai sereno” a chi avrebbe tradito dopo qualche giorno, oltre che per altre storie personali e familiari.

Il primo, in particolare, recentemente si è fatto autore delle dimissioni del Governo di cui faceva parte, giusto nel momento in cui aveva ottenuto tutto ciò che voleva, costringendo gli alleati a così tanti ripensamenti da perdere buona parte del proprio elettorato. Il tutto per potere riuscire a lucrare vantaggi in termini di elettorato, senza però riuscirvi. In poche parole ha cercato di tradire gli impegni assunti per poi recitare la parte del tradito perchè l’operazione non è riuscita.

Il secondo, invece, dopo tante affermazioni “non vere”, di cui si perde il conto, si è esibito nella scissione del partito di cui era segretario fino a qualche tempo prima e nella costituzione di una nuova sigla, inaugurando la stagione del contrasto al Governo che però sostiene, per evitare di andare a elezioni. Dunque, appollaiato sullo strapuntino, ma pronto a spiccare il volo alle prima occasione utile.

Certamente i due hanno storie diverse, ma averli visti nel confronto celebrato nel corso della trasmissione di Vespa, è sembrato di vedere una incredibile affinità.

Indubbiamente uno sfoggia conoscenze culturali, anche se non approfondite, e declama valori nobili, anche se non ci crede e palesemente in contrasto con le proprie azioni. L’altro, invece, non si cura dello stile, manifesta atteggiamenti caserecci, sfodera minacce a tutto spiano e a ogni domanda risponde con la stessa risposta: se ho tanto consenso vorrà dire che lo merito. Dimostrando di esserne sorpreso e di non saperne spiegare le ragioni.

Entrambe le posizioni non sono da sottovalutare: uno sbandiera, da sempre, il diritto di ricorrere alla legge del più forte, tanto da volere imporre un sistema che “avrebbe determinato un vincitore alle elezioni”, come se si trattasse di una partita di pallone e non del governo di una Nazione; l’altro agita le piazze e accende risse contro gli emarginati, come se quelli fossero il problema del nostro Paese, che nel frattempo affonda sotto il peso della corruzione e dell’evasione.

Ma entrambi hanno in comune la tecnica della “distrazione” rispetto ai problemi reali. Non si vuole che la gente diventi consapevole e partecipi. Si cerca soltanto l’adesione a un leader.

Proprio nel secondo giorno di Leopolda è stato affermato il principio della totale assenza di correnti che, tradotto in termini civili vuol dire che decide solo lui. Mentre l’altro, analogamente ha deciso da solo di uscire dal governo e manifesta l’intenzione palese di non dovere dare conto a nessuno.

E la folla li segue entrambi. Forse con numeri diversi, forse con provenienze diverse. E viene spontanea una considerazione: questa è la vera “antipolitica”.

È finita l’era dei circoli, della partecipazione, degli ideali. Adesso si sceglie un leader, prima ancora di sapere come la pensi e lo si sostiene, qualunque cosa faccia.

Non è proprio democrazia. Verrebbe voglia di chiamarla “matteocrazia”.

Santo Fabiano