La nuova Roma

Dopo circa 15 giorni dal passaggio di proprietà della squadra di calcio ASRoma qualcosa ancora non torna, o così sembra a molti cuori giallorossi. Lo scorso 17 agosto a Londra (Uk), la Roma passa dalla gestione americana di James Pallotta a quella di Dan Friedkin, al termine di un’operazione da quasi 600 milioni di euro. Dan Friedkin, californiano di San Diego (Usa) è a capo del Gulf States Toyota, una società che ha licenza di vendere auto con il marchio Toyota in vari Stati dell’America, ed ha inoltre investito parte del suo patrimonio in hotel di lusso e nella cinematografia. Secondo Forbes, la rivista americana punto di riferimento mondiale della finanza, nota per le sue classifiche degli uomini più ricchi del panorama mondiale, il magnate americano dispone di un capitale personale di circa 4,1 miliardi di dollari ed è fra i 600 uomini più ricchi del pianeta. Numeri importanti, che raccontano di una società finanziariamente solida, di un gruppo (oltre al padre Dan è molto attivo anche il figlio Ryan) che ha ereditato gran parte del patrimonio dall’attività di famiglia, che nel corso degli anni si è ramificato nella grande finanza americana fino a divenirne uno dei maggiori esponenti.

I tifosi della ASRoma, dopo le delusioni del progetto mai decollato di James Pallotta, sognano un cambio di rotta, un’inversione di tendenza rispetto alla società asfittica e lontana dai tifosi degli ultimi dieci anni, una Roma senza titoli da troppo tempo, ma soprattutto svuotata di quel patrimonio genetico che l’aveva resa unica al mondo, la passione dei propri sostenitori.

Ancora però di Friedkin non c’è traccia. Un’intervista, un video, un messaggio, non c’è assolutamente nulla, tranne due parole rilasciate alla stampa al momento della firma “Renderemo la Roma uno dei principali nomi dell’universo calcistico”, poi silenzio e assenza. Non è stata cambiata struttura societaria, non è cambiato l’allenatore, non c’è stata alcuna rottura con il passato né fuori né dentro al campo. I Friedkin sembrano essersi dissolti nel nulla a poco meno di tre settimane dall’inizio di una nuova stagione. Molti dicono: “Diamogli tempo”. Ma tempo per cosa? A Pallotta è stato sempre rimproverato di essere stato assente da Roma. Perché a Friedkin bisognerebbe dare tempo per avere un breve messaggio rivolto ai tifosi? Se tanto ci vuole per un solo messaggio, figuriamoci per le operazioni di mercato. No, qualche cosa non torna, soprattutto sul terreno dove Pallotta, il predecessore, ha fallito, il rapporto con i tifosi. Di sospetti ne vengono ventilati molti da più parti, spesso legati al mondo delle finanze. La speranza è quella di vedere interrotta la sequela di cessioni di giocatori che hanno fatto le fortune di altre società di calcio che stravincono nel mondo, giocatori che a Roma abbiamo visto di passaggio e poi rivisto sollevare Champions League e titoli nazionali con altre maglie. Ogni anno la Roma viene saccheggiata dei suoi giocatori migliori, o meglio ‘mette in vendita’ i suoi giocatori migliori, demolisce allenatori anche bravi che alla fine di stagioni promettenti si trovano a dover ricostruire tutto da capo, ignora i tifosi o li offende a migliaia di chilometri di distanza, “Fuck Idiots” come vennero apostrofati da Pallotta dopo l’ennesima contestazione. Cosa rimane allora? La Roma è improvvisamente diventata una società povera, ma chissenefrega se povera economicamente. Povera dell’amore della sua gente, la CURVA SUD è un ricordo lontano nel tempo, il quartiere Testaccio un feudo intristito, una pianta bellissima alla quale è stata tolta l’acqua. La Roma ha bisogno della sua gente, perché la Roma è del popolo e non sarà mai di nessun altro. I romanisti vogliono la loro squadra al centro del loro universo, che non coinciderà forse con quello dorato del Manchester City (Uk) o del PSG della capitale francese dei facoltosi sceicchi, ma che permetterà ad una tifoseria intera, quella della giusta sponda, di tornare a far battere il cuore all’unisono con quello della propria squadra. Chiunque voi siate, non dimenticatelo mai.




Il campionato è finito

 

La Juventus colleziona il nono scudetto consecutivo lasciando agli avversari briciole di sogni, illusioni, incubi e vincendo per l’ennesima volta un torneo di calcio dominato e forse anche scontato.

Il prossimo sarà l’anno della “decima”, mutuando un termine spagnolo che fa tanto chic e quello dopo ancora magari sarà quello della “lode” dopo il dieci in pagella. La verità è che il calcio in Italia non conosce alternative ai bianconeri. Troppo più forti, troppo più solidi a livello societario, troppo più…per tutti. Ci ha provato la Lazio soprattutto, che per un periodo più o meno lungo si è cullata nel sogno di prendersi il gradino più alto del podio, ma poi è franata condizionata da una rosa non all’altezza di quella juventina. Ci ha provato, ma nemmeno tanto l’Atalanta, in un azzardo finale favorito però più che altro dalla frenata del gruppo di Sarri per il resto Roma, Napoli, Inter, Milan si sono dimostrate comprimarie di cartapesta, accartocciate negli errori commessi prima di tutto fuori dal campo. Programmazioni sbagliate, squadre costruite male, vicissitudini interne, via via si sono sciolte tutte, arrendendosi molto presto.

Il campionato italiano è diventato uno spettacolo in cui il copione recitato appare sempre lo stesso, anche il VAR non è servito a nulla, una pantomima che è riuscita persino a togliere l’entusiasmo per un goal: strumento utilizzato male, tanto i falli di mano non sono mai gli stessi a Roma, a Milano a Torino o a Lecce e la legge non è mai uguale per tutti. Ma era davvero così indispensabile? La Lazio in questa stagione ha avuto 18 rigori a favore, un record assoluto, eppure il suo allenatore, Simone Inzaghi, si lamenta per i torti arbitrali subiti, questione di mentalità. Una volta si andava allo stadio per vedere quella rete agitarsi, da improbabili curve lontane centinaia di metri, bastava vedere la rete muoversi per saltare di gioia o disperarsi, oggi si rimane immobili, in attesa del VAR. Questa scure invisibile penzolante sulla testa del povero tifoso afflitto dai suoi dubbi. Esulto? Non Esulto? Un triste balletto di emozioni represse. Ma a qualcuno interessa ancora del pubblico pagante?




Italia-Germania, el Partido del Siglo

di Carlo Di Porto

La chiamano così gli storici del calcio, la partita del 17 giugno 1970 disputata allo stadio Azteca di Città del Messico, semifinale di un mondiale vinto dal Brasile stellare di Rivelino, Gerson, Tostao e Pelè. Un mondiale passato alla storia per ‘questa’ partita in cui però quel Brasile non c’era, perché in campo ci andarono Italia e Germania. Quella notte, per centoventi minuti, il calcio ha scritto una delle pagine più belle della sua storia, una notte di giugno, calda, afosa, una di quelle notti in cui le finestre illuminate nelle case raccontavano di un Paese sveglio davanti alla televisione, ipnotizzato dalla voce di Nando Martellini, un altro che a proposito di storia del calcio qualche cosa potrebbe dire. Famiglie intere, bambini che avevano ottenuto dalle mamme il permesso di rimanere alzati fino a tardi, tanto la scuola il giorno dopo non c’era e nemmeno gli esami. L’Italia si era stretta, unita da una maglia azzurra. Accarezzava Riva, Rivera, Mazzola, eroi di una Italia ancora tramortita dal ’68 appena passato, e con gli anni di piombo dietro l’angolo.

L’Italia segna subito, una rasoiata di Boninsegna dopo una manciata di minuti ci porta in paradiso, regge bene poi l’urto di una nazionale tedesca fortissima, sospinta da Franz Beckenbauer e da quel Gerd Muller, folletto sgraziato che come sfiora un pallone fa goal, sempre. Regge fino al novantesimo minuto, quando Schnellinger arpiona un pallone in mezzo l’area di rigore e pareggia. Sembra la fine di un sogno, si vive lo sconforto, un sentimento tutto italiano, il presagio di una fine che sembra già scritta “ma ti pare che vinciamo noi?”. Al novantaquattresimo il goal di Gerd Muller (e ti pareva) sembra certificare il tutto, eccola la fine. No! l’Italia pareggia, segna Burnich che per fortuna di tedesco ha solo il nome e siamo solo al novantottesimo, segna ancora Riva siamo in vantaggio e siamo al centoquattresimo, è sfiancante solo scriverlo un numero così. Ci si abbraccia, si piange, si fuma e chissenefrega che ore sono. Italia-Germania è adesso, non dorme nessuno. Segna ancora Gerd Muller, insopportabile Gerd Muller, la disperazione ci assale, siamo 3-3 e mancano un pugno di minuti alla fine della partita. E Adesso? È finito tutto, per i tifosi non c’è più niente da fumare, da bere, niente da rompere! Ma l’Italia c’è ancora. C’è Gianni Rivera che segna il rigore in movimento più importante della storia del calcio nazionale, si la storia, sempre la storia, la storia stavolta siamo noi. L’Italia esplode abbracciandosi, perché in quella storia, stavolta, ci siamo noi e ci saremo per sempre, perché di “Partido del siglo” ce ne sarà sempre e solo uno.




Al Napoli il primo trofeo post-pandemia

di Carlo Di Porto

Il Napoli vince il primo trofeo post-Covid e alza al cielo la Coppa Italia 2020, mentre il suo allenatore, Rino Gattuso, abbassa gli occhi verso l’abisso del dolore, a pochi giorni dalla prematura scomparsa della sorella per un male incurabile. Forse la faccia di Gattuso meglio di qualunque altra cosa fotografa la partita e più in generale il momento che sta vivendo il calcio italiano. Uno spettacolo triste, silenzioso, un teatro vuoto dove gli attori recitano più per se stessi che per un pubblico che non c’è. Il calcio dovrebbe essere allegria, colori, rumori, sensazioni che rimangono impressi per sempre nel cuore e nella mente non solo dei calciatori, ma anche degli spettatori. L’arena oggi è vuota, tristemente riempita di pixel elettronici per il telespettatore e di rumori sintetizzati da chissà quale computer. Manca il cuore, la passione, il sentimento, mancano le esclamazioni  di meraviglia per una giocata di Ronaldo o un dribbling di Mertens. É un calcio disinnescato, depotenziato, è un calcio che non ci piace.

Ci sono voluti i calci di rigore per decretare il successo del Napoli: sbagliano Dybala e Danilo per la Juventus e, senza demeritare, ad esultare è la squadra partenopea, ma è il resto a rimanere impresso nella nostra mente. La desolante solitudine del tifoso, abbandonato davanti alla TV alla ricerca di una passione perduta. Proprio ieri, nel cinquantenario della partita del secolo, di quella partita che mai come nessuna aveva reso calcio e tifosi una cosa sola.