Thursday, March 28, 2024

LE TRACCE SUL VETRO di Cristina Cortelletti

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Le tracce sul vetro

di Cristina Cortelletti

tratto da Voci Nuove 6

a cura di Daniele Falcioni

ed. Rapsodia

 

Non è mai piovuto così tanto a settembre, pensò Vincent fissando, dalla finestra della cucina, la fermata dell’autobus sul lato opposto della strada. Tutti i giorni, da sempre, alle 19:00 passava l’ultima corsa. “Accidenti, proprio oggi!” esclamò. La pioggia peggiorava il suo già altalenante umore, non doveva perdere di vista l’obiettivo, stavolta ce l’avrebbe fatta e Martin non sarebbe arrivato in tempo. Il sottofondo musicale trasmesso dalla emittente radiofonica, sulla quale si era sintonizzato dallamattina, gli teneva compagnia mentre osservava l’umida foschia pomeridiana che offuscava il paesaggio e intensificava il dolore alla sua stramaledetta gamba. Sobbalzò quando suonarono alla porta. Deve essere Jennifer con la terapia, pensò. Diede un’occhiata all’orologio: le 18:25. Era ancora presto per le medicine. Non andò ad aprire, tutto sarebbe andato secondo i piani. La sua attenzione fu richiamata dal ticchettio della pioggia che, frustando i vetri da ore, lo stava irritando.

Non si sorprese quando, appoggiando il dito sulla superficie del vetro, iniziò a seguire le tracce irregolari delle gocce che scendevano, una cosa che faceva quando era piccolo e gli sembrava di essere un esploratore a caccia di un codice cifrato. Con il dito tracciava linee virtuali che univano gocce, rivoli e chiazze, fino al palesarsi di una visione che siglava con l’iniziale del suo nome.

Ritornò improvvisamente in sé al rumore sordo dei colpi alla porta, in simultanea con la voce che gridava: “Martin! Martin! Apri la porta!”

“Andate via, andate via!” urlò. “Oggi no… voglio stare solo!” disse Vincent.
Il chiarore che entrava dalla finestra illuminava fiocamente il termosifone sulla parete di fronte. Vincent guardò distrattamente i calzettoni stesi lì sopra ad asciugare, gettati malamente, spaiati e stropicciati; non ricordava neanche di averceli messi, rispecchiavano perfettamente la sua vita disordinata e caotica.
Fremeva, ancora un po’ di pazienza e tutto sarebbe passato.

Per tutta la mattina Martin era stato alle prese con il televisore e poi con la sostituzione della lampadina del lume, poi con la preparazione del pranzo e infine con le scartoffie da riordinare. Martin era il suo punto di riferimento: negli ultimi tempi avevano condiviso ogni accadimento delle loro vite. Vincent, in poche parole, dipendeva da lui.

Condividevano da due anni quella che era stata la casa dei loro avi, una piccola dimora a mattoncini rossi con le finestre bianchesituata in una zona isolata nella periferia del paese, tipica della contea di West Midlands. “Rifugio e capanna, riferimento e radice”. Così diceva Martin, e in quanto tale andava difesa. Martin era conosciuto da tutti nel quartiere, lo chiamavano “l’insegnante degli ultimi”, ovverogli abitanti del quartiere più isolato e meno abitato di Rednal.

Vincent era arrivato all’improvviso, disperato e vulnerabile, e Martin dal principio aveva cercato di gestire le sue manie e gli sbalzi di umore con i farmaci. Ma nessuna terapia era riuscita nell’arduo compito di sollevarlo dai momenti di follia. Decise così di vivere in simbiosi con lui, senza più separarsene. Vincent adorava quella casa e soprattutto Martin, ammirava la sua tenacia, la forza, l’ottimismo e la gioia con la quale affrontava la quotidianità. Soprattutto, adorava la sua disponibilità incondizionata e senza pretese per chiunque. Avrebbe voluto essere lui, Martin. Una volta lo era stato, in effetti: prima di diventare un povero storpio e scemo.

Nella testa i rumori si mescolavano, rimbombavano, si espandevano a comprimere il cervello, fino a che Vincent si augurava che esplodessero le membrane per farli uscire da ogni possibile orifizio.
Il rumore metallico della chiave nella toppa lo distolse dall’ansia che lo attanagliava. Nel voltarsi riconobbe il familiare riflesso che balenò sul vetro della finestra, sorrise. Mordendosi il labbro inferiore cercò un nascondiglio, proprio come quelli nei quali si rifugiano i bambini quando giocano o quando sono impauriti, o come quelli sempre più reconditi che, da tempo, anche le sue emozioni scovavano e ne facevano una tana.In quei nascondigli si abbandonava e aspettava che Martin lo trovasse e si prendesse cura di lui. Ma non oggi.

Improvvisamente la porta sbatté. “Maledizione, troppo presto” sussurrò. “Sei già tornato?” chiese Vincent. Ma non ebbe risposta. Erano le 18:35. Per andare verso l’ingresso dalla cucina bisognava attraversare un lungo e stretto corridoio semibuio. Non c’erano fonti di luce artificiale, e inoltre il corridoio era reso ancora più angusto da due grandi poster speculari appesi alle pareti. Le riempivano per tutta la loro lunghezza, interrotti solamente dalle due porte delle camere da letto, rivestite di carta da parati. Martin le teneva sempre chiuse per suscitare il forte impatto visivo creato dalle stampe in stile neoplastico. Le geometrie in bianco e nero riempivano il vano, infinite forme si susseguivano ad oltranza originandone altre man mano che lo si attraversava: pareva di essere in un caleidoscopio, all’interno del quale Vincent tentennò un attimo prima di avventurarsi. Nonostante condividesse questa stranezza di Martin, infatti, ogni volta che lo attraversava veniva sopraffatto dall’inquietudine. Un effetto allucinante, che lo destabilizzava e confondeva.Aveva smesso di porsi interrogativi sui gusti di Martin da quando si era convinto che, più che uno stile d’arredo, quei decori fossero una strategia a scopo terapeutico.

Devo evitare di fissare le pareti per non restare ipnotizzato, pensò, poi si concentrò sulla lampada di stoffa nera, unica fonte luminosa alla fine del lungo corridoio, e si incamminò. Lo strusciamento pesante e prolungato della ciabatta sul pavimento echeggiava in tutta la casa. Costretto alla lentezza dalla gamba offesa, imprecò. “Martin!” chiamò, e l’eco della sua voce risuonò. Continuò a camminare, ma il corridoio era più lungo del solito, le stampe nere prevalevano sulle bianche e si allargavano, si deformavano fino ad intrecciarsi sul soffitto, che ricadeva all’ingiù come fosse molle, formando lunghe stalattiti che lo lambivano ed erano pronte a trafiggerlo.

Il silenzio si era fatto fitto e un tremore dolente gli attraversò lo stomaco. “Martin… Martin!?”
Erano passati pochi ma interminabili minuti. Sentì una forte fitta alla gamba, che subito dopo cedette e lo fece cadere. Temendo di essere inghiottito dal famelico tunnel, chiuse gli occhi e, disorientato proseguì a carponi per pochi metri. Urtò qualcosa, spalancò gli occhi e la fioca luce della lampada gli rivelò la sagoma di un uomo a terra riverso e immobile, tutto sporco di una melma nera, in una posizione inverosimilmente innaturale.

“Martin… Martin” balbettò senza toccarlo. Non vedeva bene, maledizione, c’era pochissima luce. Poi sentì l’odore, rabbrividì e fu catapultato nel passato.Davanti agli occhi ricominciarono a scorrere i flash remoti, sempre gli stessi, ricordò Eva, bellissima, sorridente e felice, e anche quella condivisione dell’amaro delle sconfitte e della gioia nel raggiungere piccoli traguardi che li aveva uniti in una perfetta sintonia.

Rivide quando si trasferirono lì, a Rednal, in quella stessa casa in cui si trovava ora, la spensieratezza preziosa e impagabile di quel periodo che, lo avrebbe scoperto poco dopo, sarebbe stato l’inizio della fine. Le sorprese che la vita riserva sono sempre in agguato. Avrebbe appurato con rabbia che alcuni, purtroppo, non hanno accesso al lieto fine. Ricordò la cruenta esplosione in cui Eva perse la vita. In quella stessa occasione lui perse la ragione di vita. Il cielo divenne di un malinconico sapore cupo, e una profonda tristezza lo condusse in un viaggio psichedelico senza ritorno.

Il dolore lo attanagliava ogni volta che i ricordi riaffioravano. Se le ferite del corpo si erano cicatrizzate, a dominare la sua vita, pesanti come un fardello straziante, erano rimasti il buio, le paure e l’odore dei loro due corpi dilaniati.

Era una persona inutile. Sperava, Dio solo sa quanto, di svegliarsi un mattino di settembre con un cielo azzurro, completamente diverso e finalmente libero da se stesso.
Eccoci nuovamente, bella gente, il prossimo brano sarà… la voce dello speaker radiofonico lo riportò al presente. Spaventato e fragile, si asciugò le lacrime che gli appannavano la vista, strofinando l’avambraccio sul viso. Si fece coraggio, infilò un braccio sotto le spalle dell’uomo e, con una delicata manovra, lo rigirò per metterlo in posizione supina. Gli sollevò la testa, e in quel momento un brivido gelido gli bloccò il fiato: il fango chiazzava il volto dell’uomo e, sebbene i lineamenti non fossero bendefiniti, la fisionomia era famigliare. Si alzò e indietreggiando urtò la consolle, facendo così cadere a terra l’unica lampada, che rotolò e si fermò sulla gamba scomposta del corpo senza vita.Il buio improvviso lo immobilizzò, e le narici furono nuovamente sature di quell’odore. Cercò disperatamente l’interruttore tastando le pareti, senza trovarlo. “Aiuto! Aiuto!” provò a gridare, ma la voce spezzata non emise suoni. Il respiro si fece affannato, sentì i rivoli di sudore scendere lungo la schiena e iniziò a dondolarsi avanti e indietro, strofinando freneticamente le mani umidicce sulle cosce. Che diamine sta succedendo? Che ci fai qui? pensò senza capacitarsi di quello che stava succedendo.

Il buio spense anche l’ultimo barlume di ragione che gli era rimasta. Improvvisamente, eccola: la voce di Eva risuonò frastornante nella sua testa. Era diventato sempre più difficile scacciarla, e ogni volta gridava più forte, non riusciva più a sopportarla. Si strinse la testa fra le mani, chiuse gli occhi e si mise a battere forte il piede illeso a terra per sovrastare, con il rumore, quella voce che non perdonava la sua fragilità.

Quando aveva iniziato a sentirla, le parole erano state confortanti, lo aiutavano a sostenere il peso gravoso di essere sopravvissuto; non avrebbe mai voluto smettere di sentirle, ma il silenzio della solitudine lo aveva schiacciato, il delirio e il caos si erano impossessati di lui e le parole erano diventate di biasimo e offesa. In questa casa periferica, situata ai margini della vita, aveva riposto infine il suo dolore. Era un codardo, lo sapeva, e per questo si rifugiava in Martin.

Finalmente la voce fu smorzata dalla musica della radio. Vincent aprì gli occhi, si fece coraggio e guardò nuovamente l’uomo che, stranamente, ora pareva evanescente. Quando si accorse che era il ritratto del proprio corpo disarticolato, una lacrima gli scivolò sul ciondolo a forma di M che aveva al collo. Quella fu la conferma che era giunto il momento di sconfiggere i fantasmi della sua vita una volta per tutte.

Alternò lo sguardo tra la porta d’ingresso e il corridoio; avrebbe voluto oltrepassare quella porta aperta sul mondo tante e tante volte, ma era stato meno doloroso restare dentro, esule nel suo stesso rifugio. Non gli restava che ripercorrere per l’ultima volta il corridoio, che appariva ora più che mai soffocante e cieco. Il corridoio: l’inesorabile condotto che quotidianamente collegava il passato al presente.S’incamminò, sperando che stavolta le mille sfaccettature nere che lo riempivano si combinassero in modo ordinato nella sua mente di uomo alla deriva.

“Santo cielo, Martin, rispondi! Dove sei?” urlò Jennifer. Erano le 19:00 ed era in ritardo per la medicina. “Eccomi, arrivo. Non preoccuparti, sono qui” rispose. L’autobus era passato, si allontanò dalla finestra. L’acqua aveva lavato le tracce della sua vita confusa, Martin era tornato appena in tempo.

Con la mano cancellò dal vetro, forse per sempre, il riflesso di Vincent lo storpio.

foto di Pexels da Pixabay

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