Ogni anno vengono scaricati nel deserto cileno di Atacama circa 40 mila tonnellate di vestiti tra pantaloni, magliette e vestiti di bassa fattura, che si aggiungono all’abbigliamento che nel mondo viene bruciato e sotterrato, perché smaltirlo e riciclarlo costa troppo.
Si tratta del cimitero della fast fashion internazionale, dannoso per la biodiversità del nostro ecosistema e pericoloso per la salute della popolazione che abita nei dintorni. Questa la fotografia mostrata dal recente rapporto di Agence France Presse sugli abiti prodotti soprattutto in Asia, e provenienti da Stati Uniti ed Europa che richiedono un elevato consumo di acqua, e registrano una produzione di microplastiche che rilasciano agenti chimici. Il problema, noto da tempo ad operatori ed economisti del settore, è stato affrontato negli ultimi anni con alcuni interventi attivi, come il riciclo di tessuti e la produzione sostenibile. Per i capi di abbigliamento si usa il poliestere, meno costoso e più resistente rispetto al cotone e, purtroppo, più difficile da smaltire. Si calcola che i tessuti sintetici o trattati chimicamente impiegano fino a 200 anni per biodegradarsi, e sono tossici al pari degli pneumatici e dei materiali plastici. Questo tipo di consumo è la cosiddetta fast fashion, una produzione a buon mercato, che non ricicla né recupera gli abiti, ma che segue solo i cambiamenti dei gusti dei consumatori, in tempo reale e il ‘dio’ denaro dei produttori. Da un rapporto del 2019 delle Nazioni Unite, dal 2000 al 2014 la produzione globale di abbigliamento è raddoppiata: oggi produciamo 100 miliardi di abiti all’anno e ne compriamo il 60% in più rispetto a dieci anni fa!
Per mettere fine alla fast fashion, la Commissione Europea ha pubblicato una linea guida dal titolo “Strategia per tessili sostenibili e circolari”, a sostegno della moda sostenibile e circolare da applicarsi entro il 2030 con prodotti tessili che contengono fibre riciclate, e che guardano ad una migliore qualità e al destino dei prodotti invenduti, che sarà rigorosamente regolamentato. Inoltre la CE è a sostegno della ricerca e l’innovazione per sviluppare nuove tecnologie, e ridurre le microplastiche rilasciate dai tessuti, anche se questo auspicato cambiamento sta ancora facendo i conti con la tempistica e le azioni da seguire.
Il decreto legislativo 116/2020 ha stabilito che da quest’anno in Italia la raccolta differenziata dei rifiuti tessili sia obbligatoria, anticipando la data del 2025, stabilita dalla direttiva europea 2018/851. Nuove politiche aziendale per la sostenibilità dei prodotti finiti, con un consumo più attento alle problematiche ambientali, sono state intraprese da varie aziende citate dalla Elen MacArthur Foundation, tra cui quelle italiane presenti nella fiera di settore Filo, il salone internazionale di fibre e filati per la tessitura circolare. Tra queste la linea di jeans ‘Secon Hand’ dell’impresa del casual Diesel, che vengono raccolti, ricondizionati e poi rivenduti. (Foto di JamesDeMers da Pixabay)
Sociologa e formatrice, romana, ma da tanti anni a Pomezia, mi occupo di
comunicazione, viaggi e scienze sociali soprattutto su tematiche inerenti l’infanzia, l’adolescenza e le questioni di genere.