LA MORTE DELLA LUNA di Silvia Zaccari

La morte della luna

di Silvia Zaccari

tratto dall’antologia Voci Nuove 6

a cura di Daniele Falcioni

edito da Rapsodia edizioni

 

“Deve essere più spaventosa. Cerca di inarcarle di più la bocca, come se stesse facendo un ghigno. Guarda. Con lo scalpello segna le rughe sulle guance e sotto gli occhi, così”.

Il padre di Carla diede un colpo sul pezzo di legno levigato, poi un altro e un altro ancora. Così facendo, scolpì su quel volto rigido un’espressione terrificante.

 

Erano le otto di sera quando Carla prese il bus. Di solito usciva prima dal magazzino dove lavorava con il padre. Facevano maschere di legno per spettacoli teatrali.

Carla salì sul bus con un’insolita ansia, ma non le diede peso, o meglio, pensò che fosse a causa della consegna che avevano l’indomani: una compagnia teatrale molto famosa sarebbe andata da loro a provare le maschere per la messa in scena de La morte della luna.

A testa bassa fece cadere gli spicci nel bussolotto, strappò il biglietto e andò verso il retro del bus a sedersi vicino a un signore. L’uomo, sulla sessantina, corpulento, indossava un cappello nero molto ingombrante e una giacca color prugna di velluto. Era freddo, quella sera, ma non così tanto, pensò Carla. Mise le mani nella borsa per prendere il libro che stava cercando di finire da tempo. Fu subito interrotta: “Signora, lo sa che questo autobus non si fermerà?” disse l’uomo con il cappello nero.

“Perché?” rispose lei.

“Perché non c’è nessuno che lo guida e nessuno che può fermarlo”.

Il tizio non si voltò a guardarla e fece una risatina compiaciuta, quasi maligna. Carla si sporse per osservare il posto di guida, ma non riuscì a vedere nulla. Sembrava però che nessuno stesse guidando il bus. Impallidì e si alzò di scatto.

“Non può fare niente, signora. È così ogni volta”.

“Ogni volta?”

“Certo. Ogni volta che lui decide di entrare”.

“Lui chi?”

“Beh, lui…” disse l’uomo, e diresse lo sguardo verso il posto di guida.

Carla si guardò intorno.

“Lei ha deciso di salire, nessun altro lo ha fatto. Siamo soli. Avrebbe dovuto essere più accorta. Ormai è tardi”.

Carla strinse le mani attorno alla tracolla della borsa.

“Senta, lei sta solo cercando di spaventarmi. Non so perché, ma è proprio quello che sta facendo. E poi non credo a quello che dice”.

“E allora perché si è subito sporta per controllare che ci fosse davvero qualcuno alla guida?” disse l’uomo con il cappello nero.

Carla si era innervosita. Decise di scendere. Si mosse verso la parte anteriore del bus, dove le luci erano spente e si riflettevano i fanali delle auto che correvano in strada. Passo dopo passo, iniziò a mettere a fuoco la cabina, il volante, parte del sedile, ma non riusciva ancora a vedere l’autista.

“Signora, torni a sedersi. Non può scendere, non può uscire ormai. Lei ha deciso di salire, e lui prima di lei”.

Carla fece finta di non averlo sentito. Arrivata accanto alla cabina di guida, vide una specie di massa scura fluttuante sopra il sedile. Si mise la mano sulla bocca e fece un passo indietro. La mano si spostò velocemente dalla bocca alla tasca della borsa, in cerca del cellulare. Qualche secondo e Carla aveva già digitato il numero del padre.

“Pronto?”

“Papà, non c’è nessuno, non posso scendere! C’è solo un uomo, ma dice che non si fermerà!”

“Che stai dicendo, Carla? Calmati!”

“Sono sul bus per tornare a casa, ma quell’uomo dice che non si fermerà!”

“Ma che vuol dire? Quale uomo? E perché mai il bus non dovrebbe fermarsi?”

“Papà, non c’è nessuno alla guida del bus!”

Carla sentì una presenza alle sue spalle, poi vide una grande ombra sul vetro. Dietro di lei, l’uomo con il cappello nero era fermo e guardava fuori, come se avesse intenzione di scendere.

“Mi scusi se l’ho messa in allarme, ma lei non uscirà di qui” disse l’uomo, e fece di nuovo quella risatina maligna, che gli segnò le guance. Rivolse lo sguardo verso il retro del bus e suonò il campanello per prenotare la fermata.

“Ha detto che non si sarebbe fermato, mi ha presa in giro!” disse Carla.

“Affatto. Io scenderò comunque” disse l’uomo, e cercò di farsi spazio fra lei e la cabina. Il bus non rallentò.

“Carla, ci sei? Carla?” diceva intanto il padre al cellulare.

Improvvisamente la porta anteriore si aprì con un tonfo, mentre il bus viaggiava veloce. Un forte vento sbatté Carla contro la cabina. Il cellulare cadde sul marciapiede.

L’uomo con il cappello nero saltò giù e sparì nel buio.

 

Carla cercò di rialzarsi. Aveva sbattuto la testa e teneva gli occhi chiusi per il dolore.

“Signora, tutto bene?”

La donna si aggrappò al corrimano e si tirò su.

“Signora, tutto bene? Ha bisogno d’aiuto?”

Carla si voltò verso quella voce e vide un uomo seduto al posto di guida, con una bella giacca azzurra e la camicia color prugna.

“Ehm… no, la ringrazio. Sto bene…” rispose, e andò a sedersi al primo posto libero.

Il bus era abbastanza affollato e tutti la guardavano.

“Mi scusi, signora, a quale fermata deve scendere?” le chiese subito il ragazzino che le sedeva accanto.

Carla rimase in silenzio. “Io dovrei scendere alla prossima” disse il ragazzino.

Carla fece un cenno con la testa, come per dire che aveva capito, ma non fiatò. Passò qualche minuto e il bus iniziò a rallentare. Carla non si mosse.

“Signora, scende anche lei?” le chiese il ragazzino. Carla non aprì bocca, lo guardò e si voltò di nuovo davanti a sé.

Il bus era quasi fermo e il ragazzino si alzò in piedi.

“Signora, dovrebbe alzarsi. Io devo scendere!”

Carla finalmente si alzò, ancora frastornata. Il ragazzino le passò davanti, corse verso la porta centrale e scese. Carla si rimise a sedere e lo seguì con lo sguardo. Non riusciva a capire cosa stava succedendo e, per di più, non ricordava dove era diretta.

Si mise a guardare fuori dal finestrino. Le luci dei lampioni e delle auto correvano veloci. All’interno del bus le voci della gente si mischiavano al rumore del motore. Qualcuno aveva aperto una busta di patatine dietro di lei. Una risata accanto, poi uno starnuto.

Pian piano le voci iniziarono a spegnersi. I rumori stavano cambiando in un modo strano, quasi inquietante. All’improvviso ci fu silenzio. Carla stava ancora osservando fuori. Tutto sembrava normale. I suoi occhi, però, misero lentamente a fuoco il riflesso sul vetro dei passeggeri seduti sul bus: i loro corpi erano svaniti e decine di volti galleggiavano sopra i sedili, avvolti da una strana nebbia. Carla prese coraggio e guardò alle sue spalle. “Non è possibile, sto impazzendo” disse a bassa voce.

Si rese subito conto che conosceva bene quei volti: erano tutte le maschere che fino a quel giorno aveva realizzato con suo padre. Premette il pulsante per prenotare la fermata e si alzò. Il bus continuava la sua corsa, senza rallentare.

“Mi scusi, dovrei scendere!” disse.

L’autista sembrava non sentire. Carla raggiunse la cabina per bussargli al vetro. Alzò la mano, ma la ritrasse subito. La massa nera fluttuante era di nuovo al posto di guida. Come prima, Carla mise la mano nella borsa per prendere il cellulare. Frugò per qualche secondo, ma niente. Guardò all’interno. Rovistò ancora. Niente. Prese la borsa e la capovolse. Cadde di tutto, ma del cellulare nessuna traccia.

“Mi faccia scendere, la prego!” urlò, ma non ebbe alcuna risposta.

Si rese conto che un rumore ovattato le stava facendo vibrare le orecchie: erano le maschere che si erano messe a pulsare ininterrottamente. Sembravano dei grandi cuori di legno. Carla indietreggiò impaurita. Si mise in ginocchio e si coprì la testa con le braccia, come per proteggersi.

 

“Avanti, Gabriele, muoviti!”

“Mamma, non riesco a passare!”

“Non farmi arrabbiare, Gabriele, non c’è nessuno davanti a te!”

“C’è una signora”.

Il bambino si spostò, guardando la madre.

“Accidenti, signora, ha bisogno d’aiuto?”

Carla era ancora in ginocchio. Non riusciva a muoversi. Non voleva alzare la testa e aprire gli occhi.

L’autista, allora, uscì dalla cabina e provò a tirarla su per un braccio.

“Avanti, si tiri su. Ha battuto la testa?”

Carla non rispose.

“Signora, vuole che chiami un’ambulanza?” disse l’autista.

Carla lo guardò senza dire una parola.

“Se vuole possiamo chiamare un familiare. Se mi dà il numero, posso chiamarlo con il cellulare della ditta”.

Carla fece cenno di no con la testa. L’autista tornò a sedersi. Le passarono accanto per scendere la mamma e il bambino, che la fissava incuriosito.

“Come ti chiami?” le chiese il bambino.

Carla sgranò gli occhi.

“Signora, come ti chiami?” continuò lui. Carla non seppe rispondere: non ricordava il suo nome.

La mamma e il bambino scesero. Il bus ripartì e Carla si mise a sedere.

Il quadrante di un orologio da polso attirò la sua attenzione: le otto e quattordici. Era trascorso così poco tempo da quando aveva lasciato il magazzino?

Fuori era buio. Tutti i negozianti, ormai, avevano abbassato le serrande, e la città si preparava ad addormentarsi.

Una fermata, poi la seconda, la terza e così via. Carla rimase sul bus fino al capolinea.

“Signora, questa è l’ultima fermata. Le conviene scendere, perché poi vado a parcheggiare il bus alla rimessa” le disse l’autista.

Carla fece di no con la testa.

“Come vuole. Io però poi non posso accompagnarla da nessuna parte, sono le regole. Ok?”

Carla lo guardò per un attimo e poi si voltò di nuovo verso il finestrino.

 

La rimessa, una struttura simile a un grande chalet di legno, si trovava alle pendici di una montagna scura. Nessun caseggiato nelle vicinanze, solo qualche lampione ad illuminare il piazzale. Il bus si avviò verso il parcheggio numero 14, rallentò e si fermò.

“Signora, siamo arrivati. Ora spengo il motore e le luci, altrimenti non posso andarmene a casa, e gli addetti non possono pulire” disse l’autista.

All’esterno non c’era alcun segno di movimento.

“Dovrebbe scendere, signora”.

L’autista, rassegnato, alzò gli occhi al cielo e girò la chiave nella toppa. Le luci divennero piccoli cerchi neri una dopo l’altra, poi si spense il motore.

“Signora, se non scende adesso rimarrà qui dentro al buio, almeno finché non arrivano quelli delle pulizie. Io me ne vado a casa”.

L’autista prese le sue cose, mise il lucchetto alla cabina di guida e scese, lasciando aperta la porta anteriore. Carla non si mosse. Aveva lo sguardo rivolto alla montagna scura.

 

Non si ricordava da quanto tempo stava camminando, ma Carla non riusciva più a sentire le dita delle mani e dei piedi. La sua borsa era rimasta sul bus. I rami degli alberi, sempre più fitti e scuri, le avevano graffiato il cappotto all’altezza delle spalle e dei fianchi. Era stanca, ma continuava a salire. Non vedeva niente davanti a lei. Ogni tanto, però, riusciva a scorgere la luna fra i rami.

“Dove sei?” disse Carla sottovoce. Strizzò forte gli occhi per mettere a fuoco qualcosa. “Dove sei?” ripeté. Il silenzio e l’oscurità la avvolgevano passo dopo passo.

Un fruscio. Guardò di lato, poi in alto. Un barbagianni lasciava la montagna, diretto a valle.

“Dove sei?” continuava ogni tanto a ripetere mentre camminava.

All’improvviso inciampò in qualcosa di grande e cadde a terra, battendo la testa.

Riaprì gli occhi poco dopo, o così le parve.

“Sei tu?” disse.

Strusciò le mani sulla terra, in cerca di qualcosa. Si spostò carponi verso il punto in cui era inciampata. Le mani tastavano il terreno: piccoli sassi, aghi di larice, pigne, un insetto, ancora sassi e terra. Aghi. Le mani si fermarono su qualcosa di grande, simile a un tronco. Carla mise entrambe le mani su quella cosa e continuò a tastarla. Niente corteccia. Avvicinò il viso. Niente odore di resina, piuttosto un odore acido, quasi di marcio. Si allontanò, ma non staccò le mani.

Quella cosa si mosse appena, lentamente, su e giù, come un polmone stanco. Carla rimase immobile. L’odore si fece molto più intenso. Lei non si mosse, ma la cosa sì, e stavolta le sembrò di avvertire anche una specie di mugolio. Le tremavano le mani per la paura e qualcosa le stava bagnando sempre di più: era qualcosa di viscido. Scivolò e cadde su quella strana creatura, che si divincolò e sparì un attimo dopo, come risucchiata dal terreno.

Carla cercò di pulirsi le mani e il viso, ma quell’odore nauseante era ormai ovunque. Si alzò e riprese a salire.

 

Forse erano passate un paio d’ore da quando Carla aveva ripreso il cammino.

Si voltò a destra, verso la cima della montagna: una piccola luce fiammeggiava più in alto. Carla poggiò le mani sulla roccia che la separava da quella fiammella e si diede una spinta puntando i piedi. Iniziò ad arrampicarsi sulla roccia.

“Finalmente!” disse una voce baritonale.

Carla alzò la testa e vide una sagoma scura e imponente sopra di lei.

“Ti stanno aspettando tutti. Credevano che non saresti più venuta” disse la sagoma scura.

“Tutti?” disse Carla.

“Proprio strana sei. Avrebbero dovuto scegliere un’altra”.

“Scegliere? Chi? Per cosa?”

La sagoma scura si avvicinò alla fiammella. Un grande cappello nero sovrastava il suo ghigno, che Carla era sicura di avere già visto.

“Proprio non ricordi? Sono venuti per te, su questa montagna. E lui è venuto a prenderti proprio questa notte”.

L’uomo con il cappello nero si volse a guardare alle proprie spalle, ma Carla non riuscì a vedere nulla. Un senso di nausea le bloccò la gola: quell’odore pungente era di nuovo vicino. La fiammella si fece più grande, e una grossa risata la mosse da un lato e dall’altro.

“Allunga la mano verso la fiamma” disse a Carla l’uomo con il cappello.

Carla si sporse in avanti e fece come le aveva detto. La luce si spense. Al suo posto comparve una sassifraga bianca e brillante, come di quarzo.

“Raccogli un fiore e annusalo” le disse l’uomo, indicando la sassifraga.

Carla si abbassò, fino a raggiungere uno dei fiori. Lo prese e lo portò al naso. Chiuse gli occhi e respirò a fondo. Un turbine d’aria si sollevò da terra, poco distante da loro, e una risata grassa e cavernosa le fece subito riaprire gli occhi.

“Stanno arrivando!” disse l’uomo con il cappello nero. Il suo ghigno si fece più pronunciato.

“Cos’è quel vortice denso che viene verso di noi?” chiese Carla.

“Vedrai! Lo vedrai molto presto! Ah ah ah” fece l’uomo.

Il vortice si avvicinava. Carla, sempre più impaurita, strinse il fiore che aveva fra le dita. Lo stelo si spezzò e il fiore cadde sulla roccia.

“Venite, fratelli! Venite!” urlò l’uomo con il cappello nero.

Una luna sempre più grande sbiancava adesso il cielo sopra di loro. Carla alzò gli occhi, come in cerca di aiuto. La nube era ormai dietro le spalle dell’uomo con il cappello nero. Carla iniziò a tremare. Chiuse gli occhi per un istante. Quando li riaprì vide decine di maschere che le volteggiavano intorno, mentre la nube iniziava ad offuscare la luna.

“Prendetela, fratelli! Vostra madre è qui. Adesso è vostra!” disse a gran voce l’uomo con il cappello nero.

Le maschere divennero color carbone, quasi invisibili nel buio della notte, schiarite appena dalla nube che le circondava. Si avvicinavano lentamente a Carla, costringendola ad arretrare: la stavano schiacciando contro la roccia. Carla fece un passo indietro, poi un altro. Era in trappola.

Una coltre di maschere di legno scuro si chiuse sopra di lei. La nube scomparve lentamente. La luna prese il colore della notte e fu buio per sempre.