DISTORSIONI EROTICHE NON AUTORIZZATE

Meri Borriello

Distorsioni erotiche non autorizzate

 

Si guardò attentamente intorno per assicurarsi che non ci fosse nessuno nei paraggi: nessuno scocciatore, intravide soltanto dall’altro lato della strada una macchina nera, ma era lontana, non le avrebbe creato problemi quella presenza. Guardò di sfuggita le buste sistemate con cura sul sedile posteriore della sua auto e si avviò lungo il viale che portava al suo rifugio segreto. Il rumore dei tacchi sul selciato non la distrasse dal piacere che provava sentendo frusciare le sue autoreggenti contro la gonna; il pensiero di lui la faceva fremere, spingendola ad assaporare ancora di più quella breve passeggiata. Era completamente immersa nel silenzio che circondava quella casa sperduta in campagna, i rami degli aceri si piegavano mossi dal vento, li sfiorò, lasciando che la pioggia, posatasi sulle fitte foglie rosse, le scorresse tra le dita.

La casa che l’aspettava era su tre piani, le grandi vetrate sembravano osservarla.
Stringeva tra le mani un sacchetto di stoffa, ne accarezzò la morbida seta, poi tirò fuori una chiave.
C’era un forte odore di chiuso al pianterreno, ma non le importava, sarebbe rimasta lì giusto il tempo che le occorreva per spogliarsi. Lasciò scivolare a terra la gonna e sbottonò la camicetta. I suoi pensieri si persero nel ricordo delle mani delicate che le stringevano con forza il collo, della calda voce che le sussurrava cosa avrebbe dovuto fare. Era già accaduto tante volte, ma l’attesa di stare ai suoi piedi e di stringersi alle sue gambe, mentre lo pregava di prenderla ancora, le toglieva sempre il respiro.
Avvolta nella carta velina c’era la sua sottoveste preferita, l’avrebbe indossata per lui. Accarezzò le lunghe ciocche dei suoi capelli: era pronta.
Non sapeva se lui fosse già arrivato, ma non aveva fretta. Gli istanti poco prima di scendere le scale erano troppo preziosi. La sua mano stringeva con forza il freddo pomello della porta, fece un profondo respiro e la aprì.
Era quasi del tutto al buio; da una finestrella filtravano deboli le ultime luci di quel pomeriggio invernale. Scese lentamente i gradini di marmo, che conosceva a memoria; i piedi le scivolavano un po’ e aveva il respiro leggermente affannato. Non poté fare a meno di immaginare le scarpe infangate che avevano già disceso quegli scalini.
Lui era lì, lo sentiva. Non si era ancora abituata al buio e non riusciva a vederlo. Cercò di raggiungere il divano di velluto sul quale probabilmente lui si era già seduto. I suoi passi erano incerti. Riconobbe le sagome dei quadri sul muro, il vaso pieno di fiori sul tavolo. Continuò ad

avanzare lentamente. Intravide la sua figura attraversare per un attimo il vecchio specchio d’ottone appoggiato alla parete. Aveva quasi raggiunto il divano, quando una voce profonda interruppe i suoi passi: “Hai voglia di una sigaretta?”
Per una frazione di secondo vide scintillare la fiamma di un accendino: adesso sapeva dove andare.

“Sì” rispose in un sussurro, continuando ad avanzare.
Il fumo si disperdeva leggero in quell’angolo buio della stanza, allungò la mano per prendere la sigaretta. Sfiorando le sue dita sentì crescere in lei l’eccitazione.
Lui ritrasse la mano e disse: “Vieni più vicina”.
La sua voce roca le fece muovere gli ultimi passi che li dividevano. Sentì una mano fredda sfiorarle il collo, dischiuse le labbra e, fermando le dita che stringevano la sigaretta, aspirò profondamente.
Le loro labbra erano vicinissime, lui la fece girare e le strinse un braccio intorno al collo. Avvicinò di nuovo la sigaretta alla sua bocca, lei aspirò ancora, deliziata dal sapore del tabacco e da quella stretta. La sigaretta si accorciò, consumata dal loro tirare.
Sentì le sue mani abbassarle le spalline della sottoveste per poi poggiarsi sul seno; guardava il mozzicone spegnersi lentamente sul pavimento, non riusciva a smettere di muoversi.
“Devi stare ferma” le sussurrò lui, stringendole più forte il seno.
“Ti prego…” disse lei gemendo; stava cercando, inutilmente, di rimanere immobile.
Sentì le mani di lui infilarsi tra le sue gambe, le schiuse ansimando, poi si accorse che le stava facendo risalire lentamente lungo i suoi fianchi.
“Pregami ancora” le ordinò lui sottovoce.
“Ti prego” ripeté lei, cercando di aderire di più al suo corpo.
Le sue mani forti le strapparono la sottoveste con decisione, sentiva il suo respiro addosso. “Qual è il tuo nome?” le chiese accarezzandole il volto.
Gemendo lei rispose: “Non ho nome”.
Senza smettere di accarezzarla, lui continuò: “A chi appartieni?”
Cercando di rimanere immobile il più possibile, lei rispose in un soffio: “A tutti. A nessuno”. Lui la lasciò andare.
Era eccitatissima, sentiva bisbigliare tutta la stanza mentre lo seguiva in quella tortura deliziosa. L’aveva fatta sedere, il metallo della sedia era freddo al contatto con la sua pelle. Non poteva più vederlo adesso che era alle sue spalle, cercò invano di allungare le braccia dietro di sé per poterlo toccare, poi sentì la sua mano posarsi sulla sua nuca. Era accaldata. Si voltò, disposta ad accontentare qualunque sua richiesta.

“Devi stare ferma ti ho detto!” le ordinò di nuovo lui, aspramente. Le tirò i capelli e lentamente disse: “Apri la bocca”.
Fece quello che le aveva chiesto e sentì il sapore acre del raso: le stava legando un sottile pezzo di stoffa intorno alle labbra. Chiuse gli occhi e aspettò quella che le sembrò un’eternità. Finalmente, sentì le sue mani schiuderle le gambe. Sapeva di non dover aprire gli occhi, ma non sapeva per quanto tempo sarebbe riuscita a resistere; si abbandonò ai baci che le percorrevano le gambe risalendole.

Allungò le mani per accarezzargli i capelli, per rendere quei baci ancora più profondi. Lui si irrigidì, lo sentì sospirare, poi disse: “Non ce la fai proprio, vero? Non ce la fai a star ferma!” Non poteva rispondergli, ma non era necessario: lui conosceva già le sue risposte. Riaprì gli occhi, lo vide alzarsi e sistemarsi i pantaloni, poi le chiuse le mani intorno ai polsi. Lei sperò per un attimo che glieli spezzasse, che quella stretta divenisse una morsa dolorosa. Trattenne il respiro, ma lui mollò la presa. Lo guardava con occhi supplichevoli, e lui ora la osservava con gelido distacco. Ruppe quel silenzio pesante solo per dirle che doveva andarsene.

Lei provò ad allungare le braccia timidamente, voleva fargli cambiare idea, impietosirlo in qualche modo, ma lui le scostò, dicendo: “Non sei il niente che voglio riempire”.
La guardò ancora, quasi con disprezzo, lei abbassò lo sguardo, poi sentì le sue calde labbra posarsi sul suo collo. Credette che avesse cambiato idea, che ci avesse ripensato, ma quel contatto durò solo un istante. Sentì che si allontanava verso l’uscita posteriore, sbattendo con forza la porta. Non poteva crederci: aveva mandato tutto a puttane, era stata una stupida, pensò, mordendo la stoffa e maledicendosi.

Le venne da piangere: non sapeva quanto tempo avrebbe dovuto aspettare prima di poterlo rivedere. Nervosamente si liberò del raso e se lo avvolse intorno al polso, respirò ancora l’odore nella stanza, poi, come un automa, raggiunse il piano superiore.
Accarezzò lo strappo della sottoveste, sospirando se la tolse e la ripose con cura nella carta velina; si rivestì svogliatamente, il suo corpo era inappagato, con stizza si riabbottonò la camicetta, infine infilò le scarpe e le calze in una busta di cartone insieme alla sottoveste.

Era buio pesto quando chiuse la porta alle sue spalle. Poteva godere solo del contatto con l’erba bagnata sotto i suoi piedi nudi.
La pioggia finissima, che non si sarebbe fermata per tutta la notte, le bagnò il viso. Il cielo era carico di nubi. Stava congelando, e questo non le dispiaceva affatto.

C’era una macchina abbandonata, guardiana di quel posto, i contorni della lamiera arrugginita la affascinavano. La pietra che qualcuno aveva messo al posto della ruota, ormai andata o

rubata, le apparve perfetta mentre la sfiorava con le dita; rimase a stringerla per alcuni istanti, poi lasciò andare la presa.
Non fece fatica ad aprire la portiera, il sedile sporco e logoro era invitante e lei si sedette per raccogliere le idee. Le finestre della casa la scrutavano. Sciolse dal polso la stoffa inumidita, la passò intorno al collo e strinse, poi tornò a guardare le finestre: le sembravano occhi vuoti, ipnotici. Sentì salirle su per la gola una risata irrefrenabile, che divenne presto un pianto spezzato dal suono stridulo della sua voce. Gli occhi pieni di lacrime le offuscavano la vista, e quel laccio intorno al collo adesso non la faceva più respirare. Lo allentò e le cose tornarono al loro posto.

Si stava infilando le calze quando, tirando su la gonna per sistemarle, stupita si accorse che un piccolo ragno nero le camminava su una gamba. Lo scrutò meravigliata: aveva paura che si sarebbe fermato, che avrebbe cambiato percorso. Trattenne il respiro, doveva stare ferma, chiuse gli occhi e si rilassò, sperò che il ragnetto svanisse lentamente tra le sue gambe.

Un tuono improvvisamente la riscosse dal torpore. Non sapeva quanto tempo fosse passato, guardò le sue gambe: nessuna traccia del piccolo ragno.
Sospirando guardò i rami degli alberi che si muovevano attorno alla macchina, sembravano sussurrarle di alzarsi, di andare via. Era tardissimo, si strinse forte il cappotto addosso e si infilò le scarpe.

Scendendo dall’auto accarezzò la fredda lamiera arrugginita, si voltò a guardare ancora una volta il suo rifugio segreto. Doveva fare in fretta: quelle finestre, adesso, erano occhi minacciosi che la seguivano. Riprese il sentiero per tornare alla sua macchina, non era molto distante, cercò di accelerare il passo, ma i tacchi affondavano nel fango facendola rallentare.

Adesso stava cercando nervosamente le chiavi della macchina, che erano finite sul fondo della sua borsa, sepolte da inutili oggetti. Finalmente le trovò e si sedette al sicuro, i battiti del suo cuore si calmarono.
Lo specchietto retrovisore le restituì un’immagine orribile: aveva il viso sfatto, il trucco era colato e i capelli erano arruffati. Tentò di darsi una ripulita con le salviette umidificate, frugando nella borsa trovò la cipria e il lucidalabbra, infine si spazzolò i capelli: andava molto meglio.

Fece manovra stando ben attenta a non rovesciare le buste della spesa sul sedile posteriore; un’occhiata all’orologio la rassicurò: sarebbe arrivata a casa in tempo.
Per fortuna aveva preparato quasi tutto il giorno prima, pensò mentre parcheggiava la sua auto. Suo marito le aveva ripetuto fino alla nausea quanto fosse importante quella cena, e lei aveva cucinato fino alla nausea cercando di accontentarlo. Non aveva capito bene chi fosse il tizio

che doveva andare a cena da loro: quando Carlo le parlava, il più delle volte lei non ascoltava, si limitava ad annuire; aveva perso le speranze che lui si accorgesse di non essere ascoltato quasi per niente quando parlava; rise di gusto a quel pensiero mentre apriva la porta.
Aveva giusto il tempo di farsi una doccia e apparecchiare: era in orario, ma non poteva permettersi di perdersi in pensieri inutili. Carlo sarebbe arrivato direttamente dopo il lavoro con questo tizio e avrebbero cenato insieme.

Impostò il timer del forno e andò in bagno. Cominciò a far scorrere l’acqua della doccia, poi andò nella camera da letto per preparare i vestiti che avrebbe indossato. Si sarebbe messa il suo bel tubino nero. Si ricordò delle scarpe: doveva pulirle, erano piene di fango. Corse a prendere la busta che aveva lasciato in cucina insieme alle ultime cose comprate per quella cena. Accarezzò la sua sottoveste e a malincuore la ripose nell’armadio, poi tornò in bagno. Le dispiaceva togliere quel fango, ma doveva farlo: quelle scarpe erano perfette col suo vestito; lasciò solo una macchiolina, quasi invisibile, in un angolo della scarpa sinistra, ma lei sapeva che c’era e questo la divertiva.

Si spogliò, era quasi in ritardo adesso, e si infilò velocemente sotto la doccia. L’acqua calda la rilassò, prese la spugna e se la passò pigramente sul corpo. Non riusciva a smettere di pensare a quel pomeriggio, a quelle finestre che la scrutavano. Lasciò cadere la spugna e poggiò le mani sulle fredde piastrelle. Non ce la faceva più. Avrebbe voluto dar sfogo ai suoi desideri, ma era tardi, non voleva farlo in fretta: meglio l’insoddisfazione, pensò, che sciupare un momento così bello.

L’acqua le scorreva lentamente sul corpo facendo scivolare via gli ultimi residui di sapone. Uscì dalla doccia e finì di prepararsi; le rimaneva un’ora scarsa. Lasciò le scarpe per ultime: le avrebbe messe solo dieci minuti prima dell’appuntamento.
In cucina il timer aveva cominciato a suonare, corse a spegnerlo. Apparecchiò svogliatamente; presto però la sua passione per le geometrie prese il sopravvento: allineò le posate perfettamente sui tovaglioli, mise i bicchieri che preferiva uno accanto all’altro, sorrise, aggiustò le piccole grinze della tovaglia e si allontanò per osservarla meglio: sì, pensò, andava bene, era soddisfatta.
Accese una candela e tornò in cucina per sistemare le ultime cose e aprire una bottiglia di vino; se ne versò un po’ e bevve lentamente; guardò fuori: pioveva ancora.
Aprì la portafinestra per respirare l’odore della terra bagnata; mancavano dieci minuti, lasciò il bicchiere sul lavello e corse ad infilarsi le scarpe, si spruzzò un po’ di profumo e mise il suo braccialetto portafortuna.
Sentì il portone chiudersi. Erano arrivati. Chiuse la porta della camera e si avviò per il corridoio.

Carlo stava entrando seguito dal tizio misteriosamente importante, lei si sarebbe volentieri acquattata dietro la sua rosa del deserto.
“Giulio, questa è mia moglie” disse facendo qualche passo verso di lei.
“Mi chiamo Dafne” aggiunse lei, sentendo il solito prurito affacciarsi al polso destro.

“Cara” continuò Carlo, “ti presento il mio nuovo collaboratore nella sezione acquisti”. “Salve” disse lei, stringendogli la mano.
“È un nome insolito Dafne, veramente bello, ma insolito” disse il loro ospite ricambiando la stretta.
Era un tipo non molto alto, stempiato, abbronzato in pieno novembre; non sopportava i suoi occhi che la scrutavano, mettendola a disagio.
Aveva già dimenticato il suo nome, o forse Carlo non lo aveva proprio detto; avrebbe ascoltato con attenzione, prima o poi il nome sarebbe saltato di nuovo fuori. Si riprese dai suoi pensieri e disse: “Datemi i cappotti, sarete infreddoliti. Mi dispiace per questa brutta giornata, anche se a me la pioggia piace; mi piacciono le giornate così”.
Carlo rise e, togliendosi il cappotto, disse: “Scusala Giulio, è fissata con la pioggia! Io vorrei stare al sole dei Tropici e lei dice che la pioggia è bella! Ho regolato i riscaldamenti proprio pochi giorni fa: non saranno i Tropici, ma in casa nostra c’è proprio un bel calduccio!” Giulio! Ecco quale era il nome, pensò afferrando i cappotti per metterli su una stampella e farli asciugare nell’armadio a muro.
C’era uno strano silenzio. Giulio si schiarì la voce e disse: “La pioggia ha anche i suoi lati piacevoli, è romantica”.
Lei si mise a ridere. Aveva proprio detto che la pioggia era romantica? O se l’era solo immaginato?
Cercando di rimanere seria esclamò: “Siamo rimasti impalati in corridoio! Andate a mettervi comodi a tavola, arrivo subito”.
Deviò verso la cucina. Li sentiva parlottare, ma non capiva cosa dicessero; aprì un’altra bottiglia e si versò da bere; mise i piatti che aveva preparato su un carrellino e portò tutto nell’altra stanza.
I due fecero silenzio, lei mise tutto a tavola, poi Carlo disse: “Grazie cara”; fece una piccola pausa e continuò: “Mia moglie è un portento in cucina. Quando le gira bene. Altrimenti non c’è verso di mangiare qualcosa di decente”, e rise seguito da Giulio.
Il prurito ricominciò. Dafne si grattò il polso e si sedette.
“Facciamo un brindisi” propose Carlo, poi aggiunse: “Agli acquisti di qualità!”
Fecero tintinnare i bicchieri e bevvero.

La cena continuò così per un bel po’. Carlo e Giulio parlavano di acquisti, di vendite e di noiose scadenze; lei tentava di agganciarsi a qualche discorso, ma niente la interessava; si limitava a passargli il pane, sorrideva e ci beveva su. Ogni tanto se ne andava proprio altrove. Ripensava al suo pomeriggio sprecato, però evitava di soffermarsi troppo su quelle fantasticherie. Il vino nella brocca era quasi finito, così, approfittandone per allontanarsi, disse: “Vado ad aprire un’altra bottiglia, aspettatemi, non voglio perdermi nemmeno una parola: i vostri discorsi sono davvero avvincenti!”

Carlo la guardava scocciato, lei alzandosi continuò: “Dico davvero, sono avvincenti!”
Carlo fissava il tavolo, come per sottolineare qualcosa che le sfuggiva; lei intercettò il suo sguardo, poi disse: “Oh! Scusami. La brocca! Devo prendere la brocca!” e ridacchiando si allontanò.
Non li sopportava, pensò aprendo la bottiglia. Questo Giulio, così romantico, magari ci teneva ad aprire le bottiglie, magari stava facendo una pessima figura. Ormai era fatta. Rise lasciando scorrere il vino nella brocca.
Tornò a tavola. Versando il vino nei bicchieri esclamò: “Propongo un brindisi!”
Carlo la guardò, aveva socchiuso gli occhi come se volesse ammonirla, ma lei non gli diede peso e continuò: “Alla Groenlandia!”
“Perché proprio alla Groenlandia?” chiese stupito Carlo.
“Qualche sera fa stavo guardando in televisione un documentario, è un posto davvero affascinante!” rispose lei. Poi bevve. Giulio e Carlo la osservavano con un’espressione indecifrabile.
“Facciamo una piccola pausa dal lavoro, che ne dite?” propose Dafne. Poi appoggiò il bicchiere sul tavolo, ma ci ripensò e bevve un altro sorso prima di continuare: “C’è questo tizio che vive in Groenlandia…”
Carlo la interruppe: “E che combina questo tizio in Groenlandia?”
“Dammi tempo!” disse lei, poi riprese: “Semplicemente vive lì”.
“Sì, d’accordo, ma perché è così interessante?” continuò Carlo giocando col suo tovagliolo. “Questa specie di tribù nella quale vive ha eliminato dal linguaggio tutti gli aggettivi possessivi. Sai quelle frasi assurde tipo: questa è mia moglie! Questo è mio figlio! Lì non si possono dire. Non mi ricordo bene, ma forse ti fanno addirittura una multa se infrangi questa regola”.
C’era un silenzio imbarazzante, lei cominciava a divertirsi; Carlo riprese: “Non capisco dove vuoi arrivare, cara”.
“E poi questo tizio adora le foche. Come direbbe il nostro nuovo amico, posso definirti amico, vero Giulio? Dicevo, come direbbe il nostro amico Giulio, è una cosa così romantica!”

Si raddrizzò sulla sedia e lasciò scivolare sotto la sedia le sue scarpe. Ridendo esclamò: “Chiedo scusa! In Groenlandia mi avrebbero multato, ti ho definito “nostro amico”! È davvero difficile eliminare questa brutta abitudine. Sarebbe carino pensare a un modo per modificare questo modo di marchiare le persone come fossero vacche da consorzio”. Fece una pausa, poi disse: “Scusate, mi sembrava una cosa divertente da condividere; ma viste le vostre facce, forse mi sbagliavo”. Si portò una mano alla bocca per reprimere uno sbadiglio: si stava annoiando a morte.

Aveva deciso di andarsene a letto, fingendo un improvviso mal di testa, quando intercettò lo sguardo di Giulio: la fissava in maniera strana. Sentì, improvvisamente, che avrebbe potuto trasformare quella noiosa serata in una serata perfetta. Respirò profondamente, si concentrò sul ticchettio della pioggia sui vetri e disse: “Dopo il documentario, ho continuato a guardare la tv. Mi sono imbattuta in un film molto coinvolgente, mi ha catturato fin dalle prime immagini, anche se a tratti mi si chiudevano gli occhi per il troppo sonno; credo si intitolasse: The Butcher, the Baker, the Candlestick Maker”. Si fermò un attimo, poi concluse: “Se volete ve lo racconto”.

Carlo la scrutava perplesso, lei lo ignorò e, guardando Giulio, riprese: “È un film particolare, ma tu, Giulio, mi sembri il tipo di persona che apprezza questo genere di storie” concluse a bassa voce.
Giulio la fissò nello stesso strano modo in cui l’aveva guardata prima. Lei si alzò e disse: “Secondo me adesso muori dalla voglia di sapere di cosa parla!”

Senza aspettare una risposta, aggiunse: “Stiamo più vicini. Sono certa che ti piacerà”. Avvicinò la sua sedia a quella di Giulio e continuò: “Carlo, avvicinati anche tu, altrimenti ti perdi il meglio! Anzi, facciamo una cosa, spegniamo la luce e lasciamoci trasportare dalla fiamma della candela, questo racconto necessita di una certa intimità. Carlo, ci pensi tu?”

Carlo, suo malgrado, spense la luce, mise la candela sul tavolo ed avvicinò la sedia a quella di Giulio: le loro ombre si proiettavano sulla tovaglia, adesso.
Le ci volle qualche secondo per abituarsi alla penombra, poi, sporgendosi verso Giulio e picchiettando lentamente le unghie sul tavolo, cominciò a raccontare: “Questo film si apre con il frusciare del vento tra le foglie di alcuni vecchi aceri; la pioggia ticchetta sui vetri di una grande casa; una voce maschile fuori campo bisbiglia alcune parole”. Abbassò la voce e riprese, dicendo le parole di quella voce: “Non le andava di giocare, quasi mai, eccetto alcune notti speciali, perfette”.

Carlo la interruppe: “Come inizio non sembra un granché!”

Lei sorrise e con voce mielosa disse: “Devi avere pazienza. E poi magari a Giulio questa storia già piace” concluse sfiorando la mano di Giulio. Lui si mise più comodo e disse: “L’inizio sembra interessante, continua”.
Lei si accarezzò i capelli e riprese: “Una donna ha chiuso la porta di casa con tre mandate e posato le chiavi in un vaso di coccio. Attraversa un lungo corridoio buio, fino a giungere alla sua camera da letto, accende una piccola lampada”. L’attenzione di Dafne era tutta su Giulio, Carlo sembrava essere sparito. Sospirando, riprese il suo racconto: “Si guarda allo specchio, scostandosi i capelli per osservare i suoi occhi. Si volta di scatto, getta i vestiti sul pavimento e si infila le autoreggenti”.

Giulio si mosse sulla sedia.
Lei continuò: “Accarezzandosi le gambe lascia andare lo sguardo sul suo armadio. Sul ripiano più alto c’è un tesoro nascosto che la aspetta”.
Carlo la interruppe nuovamente: “Quindi è una specie di thriller!”
Dafne si girò e, seccata, disse: “Forse, non ricordo tutto precisamente, avevo molto sonno, te l’ho detto, ma ti prego: smettila di interrompermi. Perché non segui in silenzio la storia, come fa Giulio?”
Sorrise a Giulio mentre Carlo sbuffava stizzito, poi riprese: “Apre il cassettino di un portagioie intarsiato, poggiato su un grande comò: cerca il rimmel. Lo stende con cura sulle ciglia, poi tira fuori da un altro cassettino un rossetto; vaga col pensiero mentre disegna le linee delle sue labbra, ora di un intenso rosso scarlatto. Segue con la lingua il contorno dei suoi denti bianchi, poi i suoi occhi si soffermano su una boccetta di profumo. Ne spruzza un po’ nella stanza e si immerge nell’aria profumata di iris; sbatte gli occhi ammiccando allo specchio”.
Giulio non riusciva a staccare gli occhi dalla bocca di Dafne. Lei sorseggiò il suo vino poi, mordendosi le labbra, riprese: “China la testa e lascia che i suoi capelli si scompiglino, li ravviva con le dita; sorride impercettibilmente andando all’armadio: un grande specchio ricopre l’anta, le restituisce la sua immagine e l’immagine del letto. L’anta centrale scorre via veloce. In punta di piedi cerca con mani impazienti qualcosa, poi, finalmente, sente frusciare il raso leggero: è la sua sottoveste preferita, nera, con un inserto di pizzo intricato sul davanti. La indossa, e facendo scorrere la mano sulla stoffa ritrova lo strappo profondo sui fianchi; non ha mai voluto ricucirlo”.
La voce stridula di Carlo la interruppe per l’ennesima volta: “Ma che razza di film stavi guardando?”

Lei fece un gesto con la mano, come a dire che quello che diceva lui non aveva importanza, guardò nuovamente Giulio, che con voce roca mormorò: “Continua, Dafne, avevi ragione: questa storia mi piace”.
Dafne, divertita, riprese a raccontare: “Il letto sembra invitarla e lei, rapita, si distende; lo specchio che ha di fronte la osserva, lei gli sorride e si accarezza il collo. Fa scivolare una spallina della sottoveste e trova il suo seno, lo stringe un po’ e rimane immobile ad ascoltarsi respirare nel silenzio della notte, poi lo stringe più forte e con l’altra mano fa sparire le sue culottes tra le lenzuola. Inizia a giocare: sorride allo specchio mentre dischiude le gambe”. Fece una pausa, guardò Carlo, che abbassò gli occhi imbarazzato; Giulio sembrava stesse trattenendo il respiro, il suo sguardo passava dalla bocca agli occhi di Dafne.

Lei riprese a raccontare: “Le sue mani scendono per accarezzare i contorni delle sue cosce; si sofferma e si perde lungo quei confini. Si gira sul letto, può guardarsi attraverso lo specchio solo con la coda dell’occhio: è in ginocchio, la sottoveste alzata, i capelli da un lato le lasciano scoperta la nuca. Trova quello che cerca, si increspa e aumenta un po’ il ritmo, non ha fretta di venire; stringe più forte le gambe intorno alle sue dita per sentirle chiuse in una stretta forte.Strofinandosi sulle lenzuola, strappa ancora un po’ la sottoveste e si lascia trasportare dal dondolio, si morde le labbra: è tutto sfocato”.

Dafne aveva allungato le gambe e nel farlo aveva incontrato quelle di Giulio. Prese a sfiorarle col piede. Carlo giocava nervosamente con il tovagliolo, con le posate, col suo bicchiere; non riusciva a stare fermo.
Dafne riprese: “Non è più sola: la stanza è popolata da volti senza nome; immersi nell’ombra, assecondano i suoi movimenti, li sente fremere su tutto il corpo; afferra, in quel silenzio, parole irripetibili, sussurrate da voci roche, che la fanno gemere. La schiena si inarca, ancora un pochino di più, mentre le sue dita la fanno precipitare in mille vertigini. Le voci si moltiplicano, aumenta il suo dondolare, il respiro si fa corto, vortica tra tutti quei corpi. Affonda la testa nel cuscino umido di sudore, lo morde, vorrebbe inghiottirlo, lo stringe con forza, forte, sempre più forte, poi, senza fiato, si libera in un urlo soffocato”.

Dafne si passò febbrilmente una mano tra i capelli. Sentiva gli occhi di Giulio addosso a lei, li sentiva percorrere il suo corpo mentre le loro gambe si continuavano a sfiorare. Percepiva il suo tubino aderirle perfettamente al corpo, i suoi respiri corti le schiacciavano il seno contro la stoffa ruvida. Le si offuscò la vista, chiuse gli occhi trasportata da quelle immagini, sussurrando disse: “La voce narrante, per quel che ricordo prima che le immagini diventassero confuse,bisbiglia nuovamente alcune brevi parole”. Lentamente, concluse: “La donna guarda lo

specchio e si lecca le labbra. Il rossetto sbavato, le guance piene di rimmel colato, si accende una sigaretta: è una notte perfetta”.
Rimasero immobili tutti e tre. Dafne godeva nel sentire i loro respiri affannati, avrebbe voluto prolungare quell’istante il più possibile. Carlo ruppe improvvisamente il silenzio con una risata isterica, poi disse: “Che film bizzarro! È osceno!”

Accese la luce e disse: “Scusala, Giulio”; rivolgendosi a Dafne aggiunse: “A volte non ti capisco proprio”. Si sedette di nuovo e, guardando per terra, continuò: “Forse hai esagerato col vino. Perché non vai a prendere il dolce?”
Poi, come se di colpo avesse ritrovato il buonumore, si girò a guardare Giulio e disse: “Mia moglie fa dei dolci buonissimi!”

Dafne, sorridendo, si sciolse dalla stretta delle gambe di Giulio, si alzò, ed aggiustandosi il vestito esclamò: “Multa, multa, multa! Ti correggo, caro: Dafne fa dei dolci buonissimi! E poi non trovo che il film sia osceno, anzi, credo che sia divino. Tu che ne pensi, Giulio?”
Sentì la voce stizzita di Carlo richiamarla: “Dafne, non hai le scarpe”. Lei lo guardò stupita, poi sorridendo replicò: “Bravissimo! Impari in fretta!”

Prese le scarpe, sorrise guardando la macchiolina di fango e se le infilò. Barcollando leggermente disse: “Voi continuate a chiacchierare, vi ho distratto fin troppo con tutte queste storie. Ci vorrà un po’ per guarnire il dolce. Però fatecelo un pensierino: è veramente affascinante la Groenlandia, potremmo andarci tutti e tre insieme!”

Giulio abbassò gli occhi e lei continuò: “Faccio in un lampo”.
Si fermò accaldata vicino alla finestra della cucina, la aprì, aveva bisogno d’aria. Prese dei cubetti di ghiaccio e se li passò sul viso. Le era piaciuto provocarli in quel modo, era contenta della piega che aveva preso la serata. Tirò fuori il dolce alla frutta e lo appoggiò sul tavolo. Le scappava da morire la pipì. Non riusciva a stare ferma, si muoveva su un piede e sull’altro cercando di trattenersi. Non le andava di passare di nuovo davanti a quei due per andare in bagno. Chiuse la porta ed aprì la portafinestra, prese al volo dei fazzoletti e uscì fuori; quella parte della casa era abbastanza coperta: non l’avrebbe vista nessuno.
Le venne un’idea. Si mise a ridere. Sperava di non farsela sotto, doveva resistere. Trovò un barattolo vuoto lasciato sul davanzale, lo prese, si accucciò vicino all’alberello che avevano piantato quando si erano sposati, tirò giù le calze e le mutandine, e finalmente si liberò.
Era brilla, un po’ di pipì le aveva sporcato le mani, ma quasi tutta era finita nel barattolino. Si sistemò e rientrò in cucina, si sciacquò velocemente le mani col sapone per i piatti; non poteva fare a meno di ridere guardando la sua pipì.

Il dolce alla frutta sembrava chiamarla. Prese il dosatore, lo infilò nel barattolino e fece cadere le piccole gocce dorate tra le fragoline, i pezzetti di ananas e arancia. Si assorbiva rapidamente; al massimo avrebbe mascherato tutto con della panna. Quel dolce era un capolavoro!
Aprì la porta e gridò: “Ancora un minuto! Sto preparando anche il caffè!”

Era proprio un bel dolce, pensò guardandolo, ma le sembrava che mancasse qualcosa. Uscì di nuovo all’aperto, prese un paio di ramoscelli di nocciolo e li immerse nel barattolo, li scolò un pochino e li dispose agli angoli del dolce come abbellimento: adesso era perfetto. Prese il vassoio e lo portò a tavola.

Carlo aveva ripreso a discutere di affari, Giulio non lo ascoltava più: la sua attenzione era di nuovo rivolta a Dafne.
“Questo è un dolce speciale, per i palati più romantici” disse lei facendo l’occhiolino al loro ospite.

“Si presenta davvero bene! Sono bellissimi quei ramoscelli; di che albero sono?” chiese Giulio continuando a fissarla.
“Di un nocciolo, li raccolgo quando vado a passeggiare e li conservo per occasioni speciali come questa”.

“E dove vai a passeggiare di bello?” fece Giulio, mentre lei aveva cominciato a tagliare il dolce. “Marciapiedi. Ci passeggio parecchio” rispose lei ridendo. Carlo la guardava inviperito. “Scherzo. Passeggio per qualche boschetto quando ho un po’ di tempo libero”.
Gli porse il piattino, poi disse: “Dimmi sinceramente se ti piace, e anche tu, caro, dimmi cosa ne pensi. Intanto vado a vedere se è pronto il caffè”.

Ritornò in cucina, chiuse la porta e si appoggiò allo stipite, fece un profondo respiro, prese le capsule del caffè e preparò tre caffè lunghi. Li versò nella caffettiera e la mise su un vassoio insieme alla zuccheriera e alle tazzine. Vide il barattolino con la pipì sul tavolo, ridendo lo nascose sotto il lavello accanto al veleno per gli scarafaggi, poi tornò soddisfatta nel salone. “Allora che mi dite? Com’era il dolce?”

Giulio, poggiando il cucchiaino sul piatto, rispose: “Ha ragione Carlo, sei bravissima! Uno dei migliori dolci che abbia mai assaggiato”.
“Sono contenta! Anche se mi dispiace non aver fatto il dolce al cioccolato, visto che Carlo lo adora. Ma non mi sembrava adatto per questa serata. Sarà per la prossima volta. Perché non ne prendete un altro pezzo? Intanto vi verso il caffè”.

Carlo tagliò altre tre fettine e disse stancamente rivolto a lei: “Tu non l’hai ancora assaggiato”. Dafne gli passò la tazzina, commentando: “Proprio non ce la faccio, sto per esplodere”. Poi,

dopo essersi seduta, disse: “Volete sapere qual è l’ingrediente segreto per rendere questo dolce così buono?”
Giulio annuì incuriosito. Lei disse: “Non dovrei dirlo, perché questo è un dolce davvero speciale”. Fece una piccola pausa, poi lentamente continuò: “Il Sauvignon. L’ingrediente segreto è il Sauvignon. Bisogna far macerare la frutta a lungo per ottenere un risultato eccellente, la frutta deve assorbirlo tutto. Ma non ditelo a nessuno, è un segreto”.

Giulio si pulì la bocca, poggiò il tovagliolo sul tavolo e disse: “Non vorrei sembrarti presuntuoso, lo volevo quasi dire che sentivo il Sauvignon”.
Lei sorrise. Inclinando un po’ la testa, lo guardò e disse: “Giulio, prendi un ramoscello di nocciolo, porta fortuna”. Giulio lo prese e, fissandola, rispose: “Ha un buon profumo. Ti ringrazio”. Aggiunse: “Adesso, però, ci vuole proprio una sigaretta. Vi dispiace se fumo?” Dafne sussurrò: “Accendine una anche a me”.

Carlo la guardò confuso, poi le chiese: “Ma non avevi smesso?”
“Sì, ma ogni tanto una sigaretta ci sta bene” rispose lei.
Giulio le passò la sigaretta, lei aspirò. Poi, buttando fuori il fumo, esclamò: “Che meraviglia! Una serata meravigliosa!”

Meri Borriello, Distorsioni erotiche non autorizzate, in Voci Nuove 5, a cura di Daniele Falcioni, Rapsodia, Roma 2018, pp. 175-194.