L’importanza della comunicazione empatica: linguaggio del corpo e non-verbale

Nei miei ultimi articoli ho cercato di soffermarmi sugli aspetti comunicativi esasperati dei social che, quasi perdendo il loro enorme potenziale di facilitatori sociali, sono diventati, a causa del loro utilizzo “spregiudicato”, sfogatoi, luoghi dove ci si divide, si insulta e si tifa senza alcun rispetto per le legittime posizioni altrui.

Ma i social “perdono” dal punto di vista comunicativo, anche per la loro stessa essenza.

Mi spiego meglio: l’attività di comunicazione si compone di una parte definita “verbale” (le parole, pronunciate o scritte); di una chiamata “non verbale” (mimiche facciali, sguardo, gesti, posture, andature) e, infine, di un terza denominata “para verbale” (voce, tono, volume, ritmo, ma anche le pause, il silenzio ed altre espressioni sonore).

Verso la fine degli anni ’60, lo psicologo americano Albert Mehrabian condusse alcune interessantissime ricerche sull’importanza di questi tre diversi aspetti della comunicazione nel far recepire un determinato messaggio.

E il risultato fu per certi versi inaspettato.

Per semplificare e capire, la comunicazione non verbale ha un’influenza del 55%, la comunicazione para verbale influisce per il 38%,
le parole e il contenuto verbale contano solo per il 7%
.

E i social, come facilmente si può intuire, diventano quasi esclusivamente terreno di partigianeria perché non possono esprimere al meglio proprio gli aspetti che contano maggiormente nella comunicazione, il non verbale e il para verbale.

E’ molto probabile infatti – e lo possiamo sperimentare tutti i giorni aprendo i social – che un’affermazione scritta, magari in poche righe e accusatoria, su Facebook non potrà ottenere un confronto pacato e tollerante di tutte le posizioni.

Non abbiamo tutti gli elementi per controbattere, non abbiamo la possibilità di percepire i segnali del corpo e gli aspetti non verbali come sguardi, gesti o posture: insomma leggiamo cosa si dice, ma molto spesso non sappiamo come lo si dice.

In parole povere, nei social manca l’aspetto relazionale della comunicazione.

Condividiamo continuamente pensieri tramite post, foto, immagini, video, messaggi, ma manca l’aspetto empatico che nasce durante un colloquio faccia a faccia con qualcuno, nel quale magari riusciamo ad interpretare i segnali del corpo, l’espressione degli occhi, percepire i sentimenti trasmessi dall’interlocutore.

Quello che voglio dire è che l’aspetto non verbale della comunicazione consente quel confronto diretto e chiarificatore che sfugge al nostro controllo quando invece comunichiamo attraverso un qualsiasi dispositivo: dietro uno schermo è impossibile percepire le diverse sfumature che il linguaggio umano offre e che permette di usare toni di voce diversi, di fare allusioni stando attenti a non offendere, di aprire parentesi senza che il nostro interlocutore ne perda il filo.

La ricchezza del nostro linguaggio corporeo e vocale è una risorsa fondamentale, da non perdere assolutamente, ma che specialmente con i social molto spesso smarriamo.

Chi comunica principalmente o esclusivamente sulle piattaforme social, secondo recenti studi, sviluppa un’ atteggiamento aggressivo dominante.

Basti pensare che quando discutiamo di qualcosa con qualcuno eseguiamo contemporaneamente alcune operazioni: conversiamo; osserviamo la reazione di chi ci sta di fronte; elaboriamo eventuali risposte in base alle reazioni osservate.

Dietro ad una tastiera questo non può succedere e, in tal modo, ci fermiamo al primo punto, motivo per cui si tende ad essere molto spesso troppo diretti e scarsamente attenti ai sentimenti e alle opinioni dei nostri interlocutori.

L’empatia, la grande assente nella comunicazione digitale-sociale, è la vera chiave per connettersi alle persone, arrivare al loro cuore, sintonizzarsi sulle loro frequenze emotive, capirne i bisogni più profondi e soddisfarli, nonostante le differenze e al di là dei pregiudizi.

E l’empatia, intesa proprio come la capacità di mettersi nello stato d’animo o nella situazione di un’altra persona (si dice infatti, “mettersi nei panni di”), non si può sperimentare appieno neppure attraverso l’ausilio di emoji ed emoticon che, invece, aiutano a semplificare il linguaggio e la sua comprensione, diminuendo ma non eliminando il rischio di fraintendimenti.