Costretti a dialogare

Le società sembrano sempre più “polarizzate” e schiacciate da estremismi caratterizzati da intolleranza e conflitto. Gli ambiti della polarizzazione sono diversi: c’è quello religioso, che si manifesta nei conflitti nel nome di un dio diverso o persino di una diversa sfumatura teologica; c’è quello etnico che vede contrapposti nord e sud, bianchi e neri, vicini e lontani; c’è quello economico dove si rafforzano le posizioni dei più ricchi fino al punto da imporre condizioni di vita insostenibili e da considerare un “tabù” la difesa delle proprie posizioni; c’è quello geopolitico che vede gli Stati abbracciare schieramenti sempre meno definiti in ragione delle continue modifiche degli equilibri dettati dagli affari. E potremmo continuare ancora.

Ma soprattutto c’è la pretesa di ritenere “diverso” e “nemico” chi non la pensi allo stesso modo o non appartenga allo stesso partito o alla stessa religione o non condivida gli stessi interessi. E trattandosi di “nemico”, il solo modo per mettere al sicuro la propria tranquillità è quello di sconfiggerlo, isolarlo, cacciarlo, ridurlo al silenzio, farlo arrestare, renderlo innocuo con qualunque mezzo.

Anche nei meccanismi politici si affaccia questo modo di pensare. Quindi, ogni elezione viene vista come una guerra dove si accettano solo vinti e vincitori: chi vince detta le regole agli sconfitti e chi perde deve subire. A chi vince viene concessa qualsiasi azione, anche la più immorale, perchè legittimato dalla investitura popolare. Ai perdenti, invece compete l’azione di disturbo e l’ostruzionismo, nella forma della contrapposizione senza limiti.

Però, se si abbandonano le cronache che rappresentano soltanto i picchi dell’estremismo, ci si accorge che ogni volta che la popolazione viene chiamata al voto, emerge una distanza sempre più marcata dalle posizioni più estreme, sia nella forma dell’astensione, sia nella forma della scelta delle posizioni più moderate. La maggior parte della gente, quando è chiamata a pronunciarsi, preferisce il dialogo alla contrapposizione, il confronto al contrasto.

Anche se la platea dei votanti si riduce, i paladini dell’estremismo non riescono mai a raggiungere la maggioranza assoluta, in modo da governare da soli.

E’ successo così in Inghilterra, dove abbiamo assistito persino al ritorno alle urne, nella convinzione di avere una maggioranza più solida che consentisse di governare senza negoziare. E’ successo in Germania, dove sono frequenti le “grosse coalizioni”. E’ successo recentemente in Spagna, dove chi ha vinto le elezioni non potrà governare senza cercare un alleato di governo. E’ successo in Italia, dove, per il dispetto e l’indisponibilità di chi ha perso (nel rispetto del copione win / loose della eterna contrapposizione) il governo si compone di forze politiche così diverse da sembrare sempre sull’orlo della crisi.

Tutto questo ha qualcosa di buono: dovremmo accettare l’idea che la democrazia non si esprime con la vittoria di una forza sulle altre, ma come mediazione e dialogo in ragione della forza espressa dalla rappresentanza.

Quando la popolazione viene chiamata alle urne sembra chiedere proprio questo: che le forze politiche trovino un’intesa che tenga conto delle diverse prospettive di valore, non di mostrare i muscoli ed esibirsi nel triste copione della prevaricazione e della tattica finalizzata alla vittoria di una parte sull’altra.

La gente che non va a votare e quella che cerca la moderazione (cioè la maggior parte) vuole un Paese che dialoghi, non un ring dove le migliori energie si consumano nella polemica sterile e nel conflitto di posizione.

Piuttosto che invocare costantemente il ritorno alle urne e le dimissioni di chiunque governi, per poi chiedere di votare ancora, nella speranza di ottenere la maggioranza assoluta ed evitare il confronto, chi fa politica deve sentirsi “costretto a dialogare”.

Lo chiedono gli elettori

Santo Fabiano