Thursday, April 18, 2024

Pomezia-Guatemala, una storia di volontariato

By Marina Landolfi on 3 Marzo 2015
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Pomezia-Guatemala, una storia di volontariato

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Sono rientrata dalla mia prima missione umanitaria all’estero, in Guatemala, in un villaggio Maya, a circa cento km. dalla capitale, organizzata da una onlus italiana che fornisce assistenza medica gratuita alla popolazione locale (che vive con meno di un euro al giorno!). Per tre settimane, ho affiancato medici e infermieri nel poliambulatorio rurale gestito dall’associazione e nell’ospedale, struttura aperta solo per poche settimane all’anno per interventi chirurgici e consulenze mediche (gestita da alcune ong internazionali e partner locali).

Svolgere una missione medica richiede tanta energia e spirito di adattamento, ma dà anche soddisfazione, perché ogni volontario mette a disposizione degli altri esperienze, capacità e voglia di fare bene.
Tanti e diversi sono i motivi per cui si fa volontariato, da quelli più nobili di solidarietà e giustizia sociale, al semplice altruismo; ma lo si fa anche per se stessi, perché, come si sente spesso dire, si riceve molto più di quello che si dà e non sempre si è spinti da uno spirito altruistico. In effetti sono parecchi i benefici che se ne possono trarre sotto l’aspetto personale, dalla fiducia in se stessi, (ci si sente bene ‘facendo del bene’), alla riduzione del proprio disagio di fronte alle sofferenze altrui. Il volontariato consente, inoltre, di avere anche un riconoscimento sociale all’interno della società, che fa accrescere quella parte di narcisismo che si alimenta e trae benessere dagli elogi degli altri.

Per quanto mi riguarda, è la voglia di fare, per cambiare situazioni di disagio e di difficoltà, che mi spinge a dedicare tempo agli altri, perché credo nel cambiamento, e lo vorrei vedere realizzato intorno a me. Ragione per cui ho affrontato il lungo viaggio fino al villaggio dei Maya Caqchikel, poveri, emarginati, analfabeti, senza assistenza medica e servizi di base (fonte Onu per lo sviluppo: circa il 60% dei bambini soffre di denutrizione cronica e si calcolano 40 decessi per ogni 1000 nati vivi). Ho preso la decisione di partire lo scorso gennaio, su invito di un’amica infermiera in procinto di partire per la missione. Scelta importante, caratterizzata da un groviglio di pensieri, emozioni e paure, legati a sfide personali, curiosità, difficoltà varie (anche economiche), e solidarietà per chi è stato meno fortunato di me.

Indietro ho riportato un grande dono, la dignità dei loro sguardi, la compostezza, la gratitudine e la pazienza di questa gente, sempre col sorriso sulle labbra, come quando, ad esempio, aspettavano di essere visitati dai medici. Tante le storie personali fatte di stenti e privazioni. Le donne hanno tanti figli, ognuno allattato al seno per circa due anni, che fin da piccolissimi lavorano, occupati spesso nella pericolosa costruzione dei fuochi d’artificio, perché hanno mani piccole e veloci. I figli piccoli li portano legati con un foulard sulle spalle, anche quando lavorano nei campi o nelle misere baracche dove vivono con i mariti per lo più agricoltori, spesso con problemi di alcol. In media non sono alti di statura, hanno capelli neri, occhi scuri a mandorla e naso largo. Guardarli nei loro tradizionali costumi colorati, sentirli parlare la loro lingua quasi totalmente estinta, e pensare che sono il vivo della cultura degli antichi Maya, mi ha fatto un certo effetto.

In attesa che sviluppino la consapevolezza della loro eredità culturale, io mi porto gelosamente negli occhi e nel cuore il loro sguardo che viene da lontano, ma che guarda inevitabilmente a un futuro migliore.

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