Presentato in concorso al Festival di Roma e snobbato con troppa leggerezza dalla giuria (considerando poi chi ha vinto) arriva finalmente “I corpi estranei” del quasi esordiente Mirko Locatelli.
Un film coraggioso e complesso nella sua pur apparente semplicità, difficile da gestire per lo spettatore che viene spinto nell’abisso dell’attesa e della speranza di guarigione di un Ospedale pediatrico.
Antonio (meravigliosamente interpretato da Filippo Timi) è un padre premuroso e in difficoltà che porta dall’Umbria a Milano il figlio di nove mesi in un ospedale oncologico per un’operazione delicatissima.
Gettato in quel limbo di attesa che gela il sangue e ferma ogni altro moto di vita, Antonio dormendo, mangiando e soffrendo in ospedale nello spazio riservato ai parenti, conosce una famiglia tunisina, che cerca quasi maniacalmente con lui contatti che si riveleranno impossibili.
Scene di ordinaria diffidenza si potrebbe dire, con Antonio che sospettoso e disperato non riesce a gestire questa misteriosa e piccola comunità araba per lui assolutamente incomprensibile, che oscilla tra minaccia e disponibilità.
Una macchina da presa sempre addosso a Filippo Timi, abile a gestire le emozioni narrative con grandissima abilità e che riesce ad istaurare un rapporto con il neonato che fa la parte di suo figlio, così viscerale e tenero da commuovere ad ogni scena.
La sua performance però non basta da sola perché il pessimo suono in presa diretta e la regia troppo asciutta e preoccupata di non scadere nel pietismo ci restituiscono comunque un film a metà, che non convince, non lievita e quasi si richiude in se stesso in quello che (forse) voleva dirci, ma non ci dice.
Opera quella di Locatelli quindi troppo timida ed è un peccato davvero perché il tema poteva regalare molto di più, scavando in una integrazione mai avvenuta ma solo sopportata, frustrata e respinta anche da quel mondo nel mondo che la comunità araba ha costruito a Milano e che il protagonista, pur repellendola, è costretto ad accettare.
La religiosità di Antonio così bigotta che contrasta con quella ascetica del coprotagonista, Jahouer Brahim, bravo davvero nel trasferire quell’aurea di mistero e di diffidenza, fulminando con sguardi profondi che vengono da terre così lontane da non riuscire mai a comunicare con il povero Antonio.
Neanche la sofferenza e la malattia riescono ad accomunare veramente, si è sempre figli di un Dio diverso comunque e l’integrazione, che può sembrare a parole possibile, in quell’angusta sala di aspetto dell’Ospedale può rivelarsi in tutta la sua utopia .
Mauro Valentini