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la via politica o la via giudiziaria?

By Santo Fabiano on 19 Febbraio 2015
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la via politica o la via giudiziaria?

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Farebbe piacere a tutti che, dall’alto (o da qualunque altra parte) si presentasse un condottiero senza macchia e senza paura e che cominciasse a sterminare i cattivi, estirpando il male, per conto nostro, senza alcuna fatica per noi.  A dire il vero, già in quella circostanza ci troveremmo a discutere su “chi è veramente cattivo” o sul concetto di “male” e finiremmo per accendere nuove risse. Senza parlare dei modi che apparirebbero “giusti” per gli autoritari ed esagerati per i non violenti.
In ogni caso, a ciascuno, a suo modo, piacerebbe sperare che i problemi sociali venissero risolti da altri, senza alcun fastidio e senza alcun impegno particolare, come una sorta di “aspirina” da prendere, distrattamente, con un bicchiere d’acqua. Meglio se le situazioni più critiche possano essere risolte da altri o da eventi esterni. Non necessariamente da una sciagura. E’ sufficiente un’iniziativa giudiziaria o qualcosa che comunque metta fine alla questione.
Possiamo affermare che il “disimpegno” è il modo attuale di sentirsi “impegnati” in politica. Di azioni e attività si parla, anche energicamente. Ma il massimo dell’impegno è “la presa di posizione” che può arrivare, nei casi migliori, alla indignazione (che porta all’astensionismo), ma che generalmente consiste nella assuefazione o nella constatazione che “così fan tutti” (e anch’essa porta all’astensionismo).
E l’indignazione, al massimo, si manifesta nello sfogo. Al bar, con gli amici, nei luoghi di lavoro, in famiglia, ecc. Il nostro Paese ha il più alto numero di indignati che la storia abbia mai conosciuto, a cui però corrisponde il più ampio disimpegno della vita democratica, fino al disinteresse “distaccato” verso la politica, se si escludono i pettegolezzi o le vicende piccanti.
Come è possibile che l’indignazione (sentimento sano) sfoci nell’inerzia o nel disimpegno?
Eppure, mai come adesso siamo travolti da meccanismi “inclusivi” e di partecipazione alla vita democratica, di informazioni sullo stato delle istituzioni, di occasioni di televoto, di confronti sui social network. Eppure, mai come adesso, sia ha la sensazione che tutto questo non basti a ottenere un coinvolgimento reale e consapevole. O forse, è proprio questo che si vuole evitare.
Tutto questo non basta perché ogni critica, indignazione o presa di posizione, fa fatica a manifestarsi come “gesto politico” attivo e organizzato, ma rimane circoscritto nell’ambito di una lamentela, in cui ciascuno racconta i propri mali o le sventure collettive. Come uno sfogo di amici al bar. E questo sentimento di scontentezza, misto a rassegnazione, non è circoscritto a quei cittadini lontani dalle istituzioni, ma si avverte anche nei palazzi del potere, nelle amministrazioni locali, in quelle regionali, in quelle statali, in quelle che governano. Tutti hanno la percezione del fallimento imminente, della china pericolosa, ma al tempo stesso, manca la speranza che la soluzione possa venire dalla politica.
E poiché la speranza non può morire, si spera comunque, ma “fatalisticamente”, in qualcosa di diverso: si spera che l’evento che mette ordine arrivi dalla magistratura. Ogni giorno si spera che sia quello giusto in cui un magistrato metta fine alla corruzione che dilaga, allo strapotere dei governanti, alle pratiche illegali. Eppure, gli “strapotenti”, i corrotti, gli illegali, sono lì, al potere, per effetto di meccanismi “politici”, definiti “democratici”, di cui siamo protagonisti.
Ne siamo consapevoli, ma come servi sciocchi pensiamo che la politica debba restare argomento da bar o da stadio, non strumento di partecipazione o impegno.
Meglio sperare nella magistratura. In una condanna, un arresto, almeno, un avviso di garanzia. E anche la giustizia diventa “politica”, attesa da tutti, non per “fare giustizia”, ma per regolare conti. E anche in quel caso ci sarà chi la ritiene “giusta” se colpisce i nemici e ingiusta se colpisce gli amici di partito.
La politica, che non è affatto stupida, lo sa bene. E per questa ragione, sa piegarla, condizionarla, vanificarla, strumentalizzarla, fino a rendere la giustizia inefficiente. Così inefficiente e incapace di colpire là dove dovrebbe che proprio i corrotti si affrettano ad affermare “confidiamo fiduciosi nella giustizia”. Perché contano sulla sua inefficienza o nelle capacità di influenzamento che può subire.
E siccome, oltre che inerti in politica ci piace anche essere garantisti, gli stessi corrotti pretendono di apparire integerrimi finchè non vi sia una sentenza definitiva. E così, ogni giudizio “politico” viene sospeso. E ogni corrotto o corruttore viaggia indisturbato, protetto dalle regole della stessa democrazia che non intende rispettare, nell’attesa di giudizi che non arriveranno. E che se arriveranno saranno interpretati in senso benevolo o strumentale.
Tutto questo solo perché il nostro “impegno politico” non riesce a spingersi nemmeno fino al punto da “censurare” i comportamenti illegali, da pretendere il rispetto per le regole, da difendere il sistema in cui viviamo.
Il ricorso alla giustizia deve essere (ed è) solo la fase patologica di una “infrazione” delle regole della convivenza civile. Il modo migliore di tutelare le regole su cui si fonda la convivenza è quello di “accorgersi” e censurare. Di scandalizzarsi ogni volta che vengono violate. Di isolare i personaggi che vivono nell’illegalità e di impedire che possano, persino, esercitare ruoli “nobili” della politica.
Questo non è (e non può essere) un compito della magistratura. E’ un compito che spetta a ciascuno di noi. La via politica è quella da percorrere. E’ quella che ci fa cittadini consapevoli e protagonisti del proprio tempo.
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